lunedì 19 febbraio 2024

CORSERA

 ERANO I “NOBEL” IN CORRIDOIO

L’ORGOGLIO DEI CORRIERISTI
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Solo chi ci lavorava arrivava a spiegarsi il mito del Corriere. In nessun altro giornale, d’Italia e forse del mondo, poteva capitarti di avere un premio Nobel (Montale) vicino
di stanza, incontrare il grande narratore (Buzzati) all’uscita della toilette e vedere il presidente del Senato (Merzàgora) che viene a consegnare il suo fondo al direttore. Realtà ineguagliabile nell’Italia di oggi.
Essere assunti dal Corriere della Sera era una fortuna, una sessantina d’anni fa, non solo per lo stipendio, che in media superava del venti per cento i minimi contrattuali, ma anche perché entravi nel milieu dei monumenti della letteratura, del giornalismo, dell’arte, della politica. In certi momenti, quel corridoio al primo piano di via Solferino era un crocevia di glorie, di personalità, di star d’ogni ambiente e settore. Sul lucido pavimento di marmo chiaro scivolavano, senza alterigia, i padroni intellettuali dell’Italia.
E fra i nuovi assunti, felici, si sprecavano i “sai chi è quello?”
Ecco Maner Lualdi, giornalista, pilota avventuroso, uomo di teatro, insieme al conte Bonzi aveva trasvolato l’Atlantico su un trabiccolo per beneficenza; oltre a scrivere per la terza pagina, era il dominus del teatro Sant’Erasmo, tempio della prosa milanese. Ecco Giovanni Testori, l’autore del Il ponte della Ghisolfa, che Luchino Visconti suo amico aveva trasformato nel film “Rocco e i suoi fratelli” e che aveva messo in scena l’Arialda al Manzoni. Ecco Eugenio Montale, uno dei massimi poeti del Novecento; tenore mancato, si sfogava gorgheggiando alla toilette “Ooooooh, la mia bella Leonora”, dalla Forza del Destino di Verdi. Con l’umiltà dei veri grandi, faceva redazione come tutti, dietro a una scrivania a rileggere una sua bozza o davanti a un bancone a impaginare.
Noi ragazzi di bottega, ci sentivamo minimi, di fronte a tante celebrità: non strisciavamo lungo i muri, ma quasi. E capivamo perché era di rigore andare al giornale in abbigliamento formale, indossare la giacca e stringersi il nodo della cravatta quando si usciva dalla propria stanza. In corridoio non sapevi mai chi si incontrava. All’epoca il dress code di via Solferino imponeva che si indossasse la giacca anche per andare in tipografia a impaginare: al bancone, altare laico dei giornalisti, bisognava avvicinarsi correttamente vestiti. Sfumature che oggi fanno sorridere, ma allora insegnavano a trattare con rispetto il proprio lavoro.
Non di rado le star si divertivano a mettere in imbarazzo gli sbarbatelli. La prima volta che incontrai Montanelli, fu nella vecchia redazione romana di via della Mercede. Nella stanza del capo Ugo Indrìo, oltre Montanelli, c’erano Bartoli e Laurenzi, le meglio penne del giornale. Fui invitato a entrare e presentato. “Questo è de Felice, uno degli ultimi acquisti...” disse Indrìo. Da praticante venticinquenne, ero molto intimidito. Ascoltavo in silenzio. Fu Montanelli, il più sensibile e gigione, a rivolgermi la parola per tirarmi nella conversazione. “Sono d’accordo con lei...” riuscii a dire, prima di essere fulminato da una finta occhiataccia del toscano che, fingendo di guardarsi intorno, chiese a Indrìo: “Ugo, tu vedi una signora nella stanza?” E poi, rivolto a me: “Non lo capisci, bìschero, che
se da collega mi dài del lei, mi dici che sono vecchio?” Per tutto il tempo che rimasi non usai più il lei né per Montanelli né per gli altri. Ma neanche il tu. Costruivo frasi impersonali, in terza persona. Più tardi corsi a informarmi su gli usi di buona creanza corrieristica dal filiforme Gervaso, praticantino anca lü, che con Montanelli era in maggior dimestichezza. E Robertino mi fornì il protocollo: “Io gli do del tu, perché lui lo pretende, ma non lo chiamo mai Indro, dico Maestro”. Formula alla quale mi attenni per sempre.
Potenza e grandezza di quel Corriere erano nella disponibilità delle grandi firme ad abbassarsi a cronisti, purché il fatto emozionasse i lettori e ispirasse la propria sensibilità. Per raccontare il suicidio di Marilyn Monroe venne incaricato Dino Buzzati. Ricordo quel 5 agosto 1962. Era una domenica. Buzzati aveva appena parcheggiato la sua convertibile verde Anni Quaranta e si avviava col disegnatore Patitucci al bar di Largo Treves, quando lo raggiunse trafelato Borgato, il commesso della direzione: “Scusi, il direttore Mottola la prega di andare subito da lui”. Erano le 15. Buzzati, in arrivo dai monti, non sapeva niente. Alle 20 lo vidi scendere dal secondo piano con un mazzo di fogli in mano. Era il “coccodrillo” di Marilyn. Tutto scritto a penna. Buzzati non sapeva dattilografare.
Non che il corridoio al primo piano di via Solferino fosse un esclusivo un parterre di primedonne. A consumarne il pavimento, in certe lunghe serate d’inverno, si impegnavano anche anziani colleghi non popolari e tuttavia di autorevolezza indiscussa. Come quel redattore di esteri con i capelli bianchi fino alle spalle e il fiocco “alla Lavallière” al collo, sembrava uscito dalla Tosca ed era il taciturno “anarchico” Gibelli. O come l’arguto venessiàn, Vezio Monticelli, che misurava il corridoio a grandi passi, le mani allacciate dietro la schiena, testa bassa, e un perenne rosario di lettere e numeri a fior di labbra. Pregava? No, era uno scacchista e ripassava partite giocate o da giocare. Grande campione internazionale, sapeva giocare 46 partite contemporaneamente a occhi bendati. E vincerle.
Oppure come il mastodontico inviato mancato, che passeggiava poco a causa di una imponente ernia inguinale, che lo obbligava a sedere su due sedie opportunamente distanziate. E che incuriosiva perfidamente noi giovani per la leggendaria disavventura occorsagli nella trasferta più importante della carriera. Inviato a Norimberga per il processo ai nazisti, al rientro in albergo dalla prima udienza fu colto da un’imperiosa esigenza intestinale che durò fino al mattino seguente e gli impedì di mandare il “servizio” atteso in via Solferino. Richiamato, fu sostituito da Montanelli. E la sua storia di inviato internazionale finì lì.
Naturalmente c’era anche qualche eccezione. Appena istituita e affidata a un collega forse più incline all’aratro che alla penna, la pagina dell’Agricoltura esordì con un fondo che aveva questo bizzarro incipit: “Il malcontento serpeggia viscido nel mondo del pomodoro”. Non ebbero futuro né la pagina dell’Agricoltura né il suo agricolo capo. Allora chi raggiungeva il gradino fatale della Legge di Peter, usciva di scena: non c’erano sindacati o raccomandazioni che potessero salvarlo. Lo standard del giornale era tutelato con severo controllo qualità. I nuovi assunti si vedevano consegnare un manualetto dal titolo “Come si scrive al Corriere della Sera”. Autore, Guglielmo Di Giovanni. Un grande che, dietro la qualifica di capo del servizio stenografico, nascondeva la sostanza di appassionato e dotto linguista. Da quel che tocca leggere oggi, suppongo che quel manualetto sia ormai un ammasso di polvere.
Gianni de Felice

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