giovedì 5 gennaio 2017

André Gide

Il curatore testamentario dell’800: addio Balzac, Dickens, Tolstoj Storia di un romanzo in un romanzo che si disinteressa del romanzo




La cosa che più colpisce de I falsari di André Gide — a quasi un secolo dalla sua uscita — è la grandiosa entità del suo fallimento, almeno secondo il canone balzacchiano, peraltro dallo stesso Gide spavaldamente rifiutato.
Dialoghi declamatori, personaggi evanescenti, quasi indistinguibili l’uno dall’altro, ambienti astratti e disinfettati. Nessuno ha freddo, nessuno suda, nessuno ha fame o sete, nessuno che mostri impulsi autentici per il prossimo. Come se tutto fosse imbalsamato nella cera preziosa della prosa gidiana. Una scrittura incantevole che sancisce il primato di Gide nella generazione di grandi scrittori francesi per cui lo stile era un doveroso compromesso tra eleganza, sobrietà e precisione: Radiguet, Cocteau, Rivière, Thibaudet, Valery Larbaud.
La verità è che Gide — così come parecchi suoi sodali della «Nouvelle revue française» — aveva un conto in sospeso con la narrativa che non riuscì mai a sanare. Non a caso I falsari è la sola opera a cui si sentisse di dare il nome di romanzo. In esso confluiscono tutti i suoi motivi: egotismo, denuncia dell’ipocrisia borghese, pederastia, gelosia, dialettica tra angelismo e demonismo, e soprattutto il generoso ricorso alla tecnica che lo rese celebre: la mise en abyme , ovvero il romanzo nel romanzo, il quadro nel quadro.
Leggendo I falsari vengono subito in mente I ragazzi terribili ; e anche se Gide non possiede il tocco frivolo e surreale di Cocteau, si vede che ha maggiore sostanza e consapevolezza. L’ambiente è quello dei Bobo parigini: chi è alle prese con gli ultimi palpiti dell’adolescenza; chi, ormai alle soglie della maturità, è pronto a misurarsi con smodate ambizioni artistiche. Bernard, Olivier, il conte di Passavant e Edouard (protagonista e alter ego dell’autore) intrecciano un complicato ménage à quatre senza sbocchi.
L’intreccio romanzesco interessa talmente poco Gide che finisce con il non interessare neppure il lettore: riassumere la trama de I falsari non solo è impossibile, ma vorrei dire persino fuorviante.

Insomma, cos’è che non funziona in questo romanzo e nella narrativa di Gide in genere? Cos’è che la rende così distante da noi? Gianfranco Rubino ha parlato giustamente dell’eccesso di coscienza anteposto «all’esperienza concreta delle cose». L’ossessiva, dolente ruminazione sul romanzo da scrivere lo emoziona mille volte di più del romanzo stesso. Per questo i diari di Edouard occupano uno spazio così rilevante nel libro, fin quasi a costituirne l’impalcatura. In essi Edouard medita sul romanzo che sta scrivendo intitolato per l’appunto I falsari , destinato peraltro all’ennesimo naufragio. Eccole qui le famose matrioske di Gide: una svanisce nell’altra portando via con sé ogni urgenza romanzesca.
Ma allora perché questo libro è così importante? Perché resiste nel nostro immaginario come una pietra miliare? Perché è uno dei massimi contributi francesi all’arte del romanzo? Forse proprio per la maestosità del suo fallimento.
Nella prefazione ai Diari gidiani (appena pubblicati da Bompiani, uno degli eventi editoriali del 2016) Piero Gelli, il grande editore che da anni lavora su Gide, sottolinea il conflitto tra esigenze introspettive e necessità narrative. Gelli nota come tutto quello che Gide racconta serva «a rivelare, a illuminare, oppure a offuscare aspetti della sua personalità». L’idea di Gelli pare confermata da un appunto che Gide stesso prende l’11 novembre 1924, pochi mesi prima dell’uscita de I falsari : «Ammiro certi romanzieri che sanno sempre tutto. Quanto a me, più che inventare, preferisco ammettere: non so. Ascolto i miei personaggi, sento quel che dicono, ma quel che pensano e sentono? Se comincio a lavorare d’induzione, mi sovrappongo a loro (...). Solo la massa capisce la massa; la comunione di sentimenti e di pensieri appartiene alla gente comune».

Un pensiero ineccepibile. Chi scrive narrativa deve essere disposto a sporcarsi le mani con la gente comune: lo sapeva Balzac, lo sapeva Flaubert, lo sapevano persino scrittori apparentemente elitari come Joyce e Proust. Intendiamoci, ne è consapevole anche Gide ma se ne infischia. Se deve scegliere tra sé e i suoi personaggi non ha mai dubbi e si richiude in se stesso. Per questo non c’è un suo personaggio che non finisca con il somigliargli, fin quasi alla sovrapposizione. È come se Gide sabotasse deliberatamente i suoi romanzi.
A un certo punto Edouard, il protagonista de I falsari , riflette su come «i romanzieri con la descrizione troppo esatta dei loro personaggi disturbano l’immaginazione invece di servirla». Per lui «sarebbe molto meglio lasciare a ogni lettore l’arbitrio di raffigurarsi i personaggi». Che non sia questo il problema? Gide non aiuta il lettore, lo lascia solo a se stesso, lo immagina più intelligente e ambizioso di quanto non sia. In tal modo decostruisce l’idea stessa di romanzo, viola il patto segreto che unisce gli autori ai lettori. È più interessato alla macchina narrativa che alla mera narrazione dei fatti. Ecco perché I falsari è un romanzo così importante, è come se Gide volesse caricarsi sulle sue possenti spalle le esperienze di tutti coloro che hanno scritto romanzi senza crederci troppo, e che proprio come lui hanno scelto di boicottarli: da Sterne a Nathalie Sarraute, da Diderot a Thomas Pynchon. Forse i falsari contro cui si scaglia sono anche i romanzieri che credono troppo nei propri romanzi e che in tal modo stampano moneta falsa: Balzac, Dickens, Tolstoj, solo per citare i più eminenti. Gide non ci sta. Lui si ribella. È come se dicesse: no, non mi avrete. Nessuno leggerà un mio romanzo sotto un ombrellone su una spiaggia affollata. Così Gide diventa il curatore testamentario della grande tradizione romanzesca ottocentesca, aprendo la via al romanzo-non-romanzo che tanta fortuna avrà nel secondo dopoguerra.
Nel famoso coccodrillo che dedicò a Gide su «Temps modernes», Jean-Paul Sartre scrive: «L’arte di Gide vuole creare un compromesso tra il rischio e la norma; in lui si equilibrano la legge protestante e l’anticonformismo dell’omosessuale, l’individualismo orgoglioso del grande borghese e il gusto puritano del rispetto sociale e anche una certa aridità, la difficoltà a comunicare e un umanesimo di marca cristiana, una sensualità viva ma che si vorrebbe innocente; il rispetto della norma vi si unisce alla ricerca della spontaneità».

Come spesso gli capita quando indossa i panni del saggista, Sartre mette il dito nella piaga. Non parla esplicitamente dei romanzi di Gide, ma allude al suo modo dialettico di porsi di fronte all’arte e alla vita. Gide sta sempre in mezzo, tituba, sospetta. Balzac no: chi sceglie di raccontare, non dubita mai.

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