giovedì 5 gennaio 2017

Papiro Derveni


Aristotele prima di Platone



Il contenuto del papiro di Derveni precede i «Dialoghi»
ma anticipa temi trattati nella «Metafisica» dal filosofo di Stagira

di MAURO BONAZZI


Serve l’intervento del caso, a volte, per rivelare affinità inattese e giustificare gli accoppiamenti più improbabili. Per una coincidenza editoriale, sui banchi delle librerie i lettori troveranno presto accostati due studi, dedicati rispettivamente al libro più antico e a quello, tra i libri antichi, più famoso e importante. La Metafisica di Aristotele, di cui Enrico Berti offre una nuova traduzione commentata per Laterza, è il più famoso. Il più antico, il primo libro vero e proprio giunto a noi, è un rotolo di papiro (così erano fatti i primi libri) trovato a Derveni, nella Macedonia greca, durante la costruzione di un’autostrada, nel 1962. Il rotolo di pregevole fattura, scritto con eleganza, faceva parte del corredo funebre di un importante generale della corte macedone, vissuto nel IV secolo a. C.. Doveva essere bruciato con tutto il resto, gioielli, armi, materiali preziosi; un colpo d’aria lo aveva spinto in un angolo e si era salvato: carbonizzato e ancora perfettamente leggibile. Leggibile, ma non facile da capire: si evocavano i supplizi dell’Ade, si raccontava di storie terribili, di combattimenti tra gli dèi e della creazione dell’universo. Un testo misterioso, così complicato che si sono dovuti attendere anni prima di avere un’edizione attendibile (2006) e studi come quello di Valeria Piano, edito da Olschki, per apprezzarne l’importanza. Il papiro intanto è diventato patrimonio dell’Unesco.
Se il problema del papiro era il fuoco, quello della Metafisica fu l’umido: si racconta (ma è una storia troppo avventurosa per essere tutta vera) che i trattati di Aristotele, dopo la sua morte nel 323 a. C., fossero finiti in una cantina di Scepsi, cittadina della Troade; e lì erano rimasti a lungo, preda della muffa, fino a che li trovò Apellicone, un personaggio opaco, ma un vero bibliomane, per fortuna. Li portò ad Atene, proprio quando i Romani la assediavano. Ancora rischi: sono gli anni in cui fu distrutta l’Accademia di Platone (86 a. C.). Ma i libri si salvarono. Li prese Silla, il generale, come bottino di guerra, e finirono a Roma. Dove tutti li guardavano perplessi: che cosa significassero quelle pagine, in cui si attaccava Platone, si parlava dell’essere e si descriveva Dio come un motore, non era chiaro a nessuno (e Cicerone infatti, grande esperto di filosofia greca, si guardò bene dal farne menzione). Ma il fascino che emanavano era troppo forte, e col tempo tutti si misero a leggere. Stava per essere dimenticato, Aristotele, invece è diventato «il maestro di color che sanno».
Due libri enigmatici, arrivati fino a noi grazie all’interesse di due generali. Ma non è solo questa curiosità a unirli. La Macedonia era considerata una terra di frontiera; le radici greche dei suoi abitanti venivano messe in dubbio; i suoi sovrani erano additati come barbari. I ritrovamenti archeologici più recenti mostrano che non è così: e infatti molti tra i più raffinati intellettuali di Atene — Euripide, Agatone, il pittore Zeusi, Tessalo di Cos, figlio di Ippocrate — risposero solleciti agli inviti dei re macedoni. Con Platone che orchestrava tutto da lontano. A controllare la vita di corte era un suo allievo, Eufreo: aveva proibito l’accesso alla mensa del re per chi non sapesse di geometria e filosofia. È in questo mondo che il giovane Aristotele, il figlio del medico di corte, iniziò i suoi studi; ritornandovi poi tante volte, come quando fu incaricato di educare Alessandro Magno, il futuro dominatore del mondo. Erano altri tempi, quando generali, politici e pensatori ancora stavano insieme, discutendo di teologia, scienza e filosofia.

Perché un generale volesse essere seppellito proprio con quel libro rimane oscuro. O forse no: i miti e le tradizioni di cui si parla nel papiro di Derveni sono quelli dell’orfismo, un culto misterico che prometteva la felicità eterna ai suoi adepti. Tanti scavi, in diverse parti del mondo greco, hanno riportato alla luce delle laminette dorate che si lasciavano vicino ai defunti: contenevano indicazioni precise sul percorso che l’iniziato avrebbe dovuto compiere per arrivare alla fonte dell’immortalità. Era un culto incoraggiante per chi, come i soldati, con la morte aveva a che fare tutti i giorni.
Ad Aristotele, invece, il papiro avrebbe potuto interessare per un’altra ragione: per lo sforzo di spiegare e chiarire, per il tentativo di fare ordine nel mondo caotico del mito e delle credenze religiose. Con ogni probabilità il rotolo di Derveni precede i Dialoghi di Platone ed è quindi il più antico trattato di filosofia a noi pervenuto. Il mondo che ci circonda, la natura con i suoi cicli di nascita e morte, ha un qualcosa di misterioso e potente: la credenza nel divino, con tutto il suo corredo di miti e riti, nasce come un primo tentativo di risposta. Lo sforzo, a volte titanico, dell’anonimo autore è mostrare che c’è una logica dietro l’apparente follia dei miti. Nei miti si celano dei «segni», scrive, che bisogna saper interpretare con l’aiuto di filosofi e scienziati. La realtà non è caos; nasce dal caos ma è ordine e forma, perché tutto è governato da una mente divina. I miti di questo parlano, della trama divina che innerva la realtà, e le dà vita.
Con altre parole e uno stile diverso, è la storia della Metafisica . «Gli uomini per natura desiderano sapere». Vogliono capire il senso di ciò che accade. E questo è possibile solo quando si comprendono le cause dei fenomeni. La filosofia, spiega molto bene Berti, è per Aristotele prima di tutto questo, un sapere che spiega la ragione delle cose. Ma affinché il discorso abbia senso, bisogna individuare le cause prime da cui tutto dipende; una ricerca che si perdesse in un’infinita catena causale sarebbe vana. Anche Aristotele, come gli iniziati orfici, deve così compiere un viaggio, seguendo segni e indizi. Il nostro è un mondo in cui tutto cambia e si trasforma: in cui c’è movimento. Ma qual è la causa di questo movimento? Per tutto ciò che viene mosso ci deve essere un motore che lo muove; e se non si vuole procedere all’infinito bisogna ammettere che all’origine c’è un motore che muove senza essere mosso. Un motore immobile, dunque; privo di materia, perché la materia è sempre trasformazione e movimento; ma se non è materia, sarà per forza pensiero. Una mente, allora, un intelletto. Dio, tutti i pensieri del mondo. Il Dio dei filosofi, che muove «come un oggetto amato»: non è lui a imprimere il movimento, sono gli altri esseri che si muovono per desiderio di lui, per cercare di raggiungere e imitare la sua perfezione. L’universo, nella sua irripetibile bellezza e unicità, si rivela in questa tensione, nello sforzo di organizzarsi intorno al suo principio. Come il girasole di Montale: «impazzito di luce», dimentico del «terreno bruciato dal salino», sempre rivolto agli «azzurri specchianti del cielo», «dove vapora la vita come essenza».

«Più sono vecchio e più trovo consolazione nel mito», scriveva Aristotele, ormai anziano. Le convergenze con il papiro in effetti non mancano. Ma la filosofia lo aveva ormai condotto altrove. La teologia orfica raccontava di un uovo primordiale, in cui tutto era contenuto e da cui tutto proveniva — una curiosa anticipazione del nostro Big Bang. Un’idea sbagliata per il grande filosofo: dietro ogni movimento c’è un motore, prima di ciò che è imperfetto c’è sempre ciò che è perfetto, già realizzato. L’atto precede sempre la potenza. E la gallina l’uovo. Viene sempre prima la gallina: l’ordine è eterno, ed eternamente si rinnova. Chi avrà ragione? Durerà per sempre l’universo (Aristotele) o verrà il giorno in cui Zeus, come un enorme buco nero, inghiottirà tutto (papiro)? Difficile rispondere, come spiegava Paolo de Bernardis su «la Lettura» #263. Le ricerche continuano. Una cosa però è certa: non erano poi così barbari quei Macedoni.

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