mercoledì 25 gennaio 2017

Spie

Stefano Malatesta per “la Repubblica”

La Seconda guerra mondiale è stata il periodo della storia umana più condizionato dalle informazioni dei servizi segreti. Ogni giorno nelle centrali spionistiche di tutti i paesi che si combattevano senza esclusione di colpi, arrivava una valanga di decriptazioni, dossier, registrazioni. Il problema che si poneva non era quello dell’assenza di informazioni, come in altri momenti, ma della loro sovrabbondanza. Tutti sapevano di tutto, ma era difficile decidere quale materiale fosse falsificato e per ingannare il nemico e quale fosse autentico.

Non è vero che Stalin sia stato colto di sorpresa dall’attacco di Hitler, nell’operazione chiamata Barbarossa. Qualche settimana prima i due capi dei servizi di spionaggio e controspionaggio russi, avevano chiesto udienza al Cremlino per mostrare le prove che i tedeschi entro pochi giorni avrebbero lanciato il più grande attacco di carri armati che si fosse mai visto. I due spioni avevano deciso di parlare con il piccolo padre rischiando in proprio.

Stalin era affetto da una sindrome della falsificazione e vedeva in ogni informazione un modo per distorcere la realtà. Anni prima aveva fatto fucilare l’ufficiale più brillante dell’armata rossa, Michail Nikolaevic Tuchacevskij, perché sospettato di essere un infiltrato di Hilter, in base a documenti falsificati dalla Gestapo. Adesso non credeva nell’attacco all’Unione Sovietica e i capi dei servizi segreti rischiavano di finire in Siberia per aver detto la verità.

Muoversi in questo mondo era come entrare nel gioco delle scatole cinesi, molte spie erano doppi o triplici agenti e non si capiva chi spiava chi. Il generale Franz Alder, capo di stato maggiore della Wehrmacht, diceva che i piani strategici della OKW, l’Oberkommando, arrivassero prima negli studi del Cremlino che sulla sua scrivania. In Inghilterra quasi tutti gli scrittori in partenza per un viaggio venivano contattati dalla Whitehall.

Nelle alte sfere britanniche c’era la convinzione che chi scriveva romanzi fosse particolarmente adatto a entrare nel labirinto delle informazioni spionistiche. Inoltre avevano il vantaggio di fare un mestiere che presupponeva mobilità ed eccentricità, e a nessuno veniva in mente di meravigliarsi perché Somerset Maugham partiva e tornava dalla Svizzera con frequenza irregolare.

Il difetto di servirsi di persone con la penna facile era la logorrea: lo scrittore scozzese di Extraordinary Women, Compton Mackenzie, era uno specialista nel trasformare le sue modeste avventure nel Levante in fantastici thriller che avevano l’aspetto e la forma del romanzo, quasi delle anticipazioni dei libri che avrebbero scritto.


Nella Seconda guerra mondiale i migliori autori inglesi dividevano il loro tempo tra lo scrivere novelle e spiare: Graham Greene in Africa occidentale, Evelyn Waugh a Creta e altrove. Fare l’agente segreto era diventato quasi un lavoro part-time per arrotondare le entrate, come fare il cameriere in un ristorante.

Molti di questi agenti segreti erano persone apparentemente insignificanti che lavoravano copiando i giornali del posto o prendendo notizie di nessuna importanza che facevano passare per informazioni segrete. Ma c’erano anche le star del mestiere e la vita del più spettacolare degli agenti, Richard Sorge, è raccontata in un libro di Max Hastings, La guerra segreta (Neri Pozza), il più esauriente testo su come ha funzionato lo spionaggio nella Seconda guerra mondiale.

Sorge era figlio di un ingegnere petrolifero tedesco che da giovane era stato indottrinato dall’ideologia comunista. Era un uomo che aveva un immenso fascino sulle donne, attratte da una combinazione di personalità ipnotica e un aspetto da attore hollywoodiano. Cambiava fidanzata ogni mese e spesso si serviva di loro per avere informazioni riservate. Una di queste era Agnes, splendida ragazza di 23 anni, che Sorge infilava nel letto di potenziali informatori o di persone che potessero essere in qualche modo utili.

Era riuscito a farsi amici dappertutto nel mondo giornalistico e in quello diplomatico, e si fece nominare membro del partito nazionalsocialista. Così inviò a Mosca una serie di informazioni politiche, strategiche e confidenziali di prima qualità. A 38 anni era stato mandato in Giappone dove la sua carriera fece un salto. Era arrivato al punto di trasmettere i suoi messaggi dall’ambasciata a Berlino dove venivano presi e dirottati a Mosca. Alla fine fu scoperto e impiccato dai giapponesi.

Non c’era organizzazione spionistica di qualsiasi paese che fosse indenne dalle infiltrazioni. In Inghilterra c’era Kim Philby e il famoso studioso di arte barocca Anthony Blunt che davano all’Unione Sovietica quelle informazioni che il governo inglese aveva negato a Stalin. Così l’Oss, il gruppo degli agenti radunati da Bill Donovan, trasformato più tardi nella Cia, era infiltrato in molti ambienti sovietici fin dall’inizio. Gli agenti avevano tentacoli ovunque ed erano riusciti ad avere informazioni dalla segretaria di Walter Lippmann, il più famoso giornalista americano e amico personale di Roosevelt.

Non sapremo mai con certezza se il presidente americano sapesse in anticipo dell’attacco a Pearl Harbor. Qualche settimana prima aveva ordinato un sondaggio segreto sulla volontà degli americani di partecipare alla guerra in Europa contro i nazisti e il 60 per cento degli interpellati aveva risposto che la guerra era un affare esclusivamente europeo.

Nessuno voleva ripetere l’errore della prima guerra mondiale quando più di 100.000 americani erano morti per aiutare il fronte occidentale a resistere ai tedeschi. Solo un atto di aggressione violenta da parte dei giapponesi avrebbe indotto l’America ad allearsi con l’Inghilterra. E Pearl Harbor era stato l’avvenimento che aveva rovesciato l’atteggiamento americano.

Comunque, se non a Roosevelt direttamente, le informazioni su Pearl Harbor erano certamente arrivate ai suoi assistenti. Qui incomincia la farsa dei messaggi di vitale importanza mandati agli agenti segreti a rischio della propria vita e che trovano una serie di ostacoli futili nella ricezione.

Un agente segreto americano di stanza alle Hawaii aveva informato i capi dello spionaggio americano e questi ultimi avevano mandato un dossier al generale George Marshall, capo dei servizi speciali del presidente americano e la massima autorità dopo Roosevelt, ma quella mattina Marshall era andato a cavallo ed era introvabile.
Per una strana eccentricità del caso, negli attimi decisivi, quelli che devono intervenire immediatamente non ci sono nei loro uffici, chi sta in vacanza, chi va a ballare con la fidanzata, chi è andato a pesca di trote nel Montana e via assentandosi. Marshall prese in mano il dossier solo nel pomeriggio, era un fascicolo di molte pagine e il generale non andò subito alle conclusioni come sarebbe stato logico e urgente, ma si mise a leggerlo lentamente dall’inizio, come se avesse davanti il Washington Post.

Quando arrivò al punto in cui si diceva che l’attacco era imminente, i giapponesi a Pearl Harbor avevano già affondato otto corazzate. Quell’informatore fu prezioso per la marina americana. In un dossier posteriore, inviato da lui all’ammiraglio Chester Nimitz, capo delle forze navali americane nel Pacifico, c’era l’elenco dettagliato, nave per nave, di tutta la flotta giapponese che si stava avvicinando alle isole Midway.

Era un’imponente flotta che contava le quattro portaerei più moderne nel mondo, guidata dell’ammiraglio Yamamoto, considerato un genio navale dalla stampa dell’occidente. Ma in questa occasione fece un errore così grande che devastò la marina nipponica senza rimedio.

L’ordine dell’ammiraglio Nimits era di tagliare la strada alla flotta nipponica, un gesto suicida perché i giapponesi erano infinitamente più forti e i caccia trasportati dalle portaerei erano i famosi Zero, mentre gli americani avevano navi sgangherate, aerei che cadevano in mare e siluri che non colpivano il bersaglio.

La prima parte della battaglia si svolse secondo le previsioni, tutti i caccia e gli aerei siluranti partiti dalle portaerei americane vennero abbattuti. A questo punto Yamamoto decise di finire lo scontro in un attacco scenografico a cui avrebbero partecipato insieme tutti gli aerei e le navi della flotta e diede ordine agli aerei di rientrare per rifornirsi di carburante.

Agli americani rimanevano sei bombardieri che si alzarono andando alla ricerca cieca della flotta giapponese non sapendo esattamente dove fosse. Ad un certo punto, il comandante della pattuglia fu attratto da un’ampia scia provocata da una nave che identificò come una delle più grandi portaerei giapponesi, in base alle informazioni date dall’agente segreto. Senza più il timore di essere attaccati dagli Zero, i bombardieri scesero in picchiata su questa e su altre due portaerei, centrandole. Si dice che l’ammiraglio Yamamoto assistesse inorridito ed impotente a quella scena che segnava la fine dei sogni di dominio del Pacifico da parte dei giapponesi.

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