- La Lettura
- Conversazione tra MAURO BONAZZI, PAOLO DE BERNARDIS e VITTORIO POSSENTI a cura di ANTONIO CARIOTI
A partire dal saggio dell’astrofisico Paolo de Bernardis Solo un miliardo di anni? (il Mulino) «la Lettura» ha messo a confronto l’autore con due filosofi, Mauro Bonazzi e Vittorio Possenti, sul destino dell’uomo e dell’universo. Un dato che colpisce, leggendo il libro, è la dimensione infima della Terra rispetto al cosmo: solo nella Via Lattea ci sono 200 miliardi di stelle e le altre galassie pare siano duemila miliardi. L’uomo non appare irrilevante in tanta immensità?
VITTORIO POSSENTI — Per chi l’uomo sarebbe irrilevante? Non certo per se stesso. Anche se è un puntino sperduto nell’universo, ha tuttavia importanza dal suo punto di vista soggettivo. Poi c’è la questione sollevata da Blaise Pascal: l’uomo è una canna scossa dal vento, ma ha la capacità di pensare. Quindi è incommensurabile rispetto all’universo, che non ha pensiero. Non conta tanto la sproporzione dimensionale, quanto la differenza di livello ontologico.
MAURO BONAZZI — Sì, c’è una specificità dell’uomo che rimane tale, almeno finché non troveremo altre forme di vita intelligente nel cosmo. Nel suo saggio de Bernardis fornisce cifre impressionanti sull’immensità dell’universo, ma per concepire questa enorme grandezza ci vuole la coscienza umana, che non si può misurare. E allora l’uomo quanto più si scopre piccolo rispetto al cosmo, tanto più diventa grande per la sua ambizione a capirlo.
VITTORIO POSSENTI — Ma se pure trovassimo altre forme di vita intelligente, ciò non cambierebbe lo statuto ontologico dell’uomo. Anche il filosofo neoplatonico Proclo individuava tra l’Uno e l’umano una gradazione di esseri spirituali intermedi. E nella tradizione biblica ci sono gli angeli. La scoperta di alieni intelligenti non cambierebbe la struttura dell’essere, la renderebbe solo più complessa.
PAOLO DE BERNARDIS — L’uomo non è certo speciale per le sue dimensioni, ma questo conta poco. Noi astrofisici studiamo particelle ben più piccole dell’uomo, le cui interazioni hanno conseguenze decisive a livello cosmologico. Va aggiunto tuttavia che l’uomo ha un impatto quasi nullo sull’universo: può influire sulla Terra e forse (ma è molto improbabile) sul Sole, sul cosmo intero sicuramente no. Da questo punto di vista appare davvero irrilevante. Quanto al pensiero, è una facoltà meravigliosa, che ci distingue in modo netto. Forse, aumentando in futuro la potenza di calcolo dei computer, si otterrà qualcosa di simile al pensiero. In tal caso la specificità dell’uomo verrebbe meno. Oggi crediamo di essere gli unici in grado di spiegare come funziona l’universo, ma non possiamo escludere che qualcun altro, su un pianeta lontano, possa esserci riuscito.
MAURO BONAZZI — Diceva Aristotele che la forma di conoscenza più alta riguarda quelle realtà necessarie su cui non possiamo influire, perché è dotata di una perfezione che manca ai saperi relativi all’uomo, ben più incerti e precari. E anche la tradizione cristiana sostiene che esistiamo per ammirare l’opera di Dio. L’immagine su cui si chiude il libro di de Bernardis, con un universo che si spegne dopo essersi espanso su scala smisurata, è così potente e sconvolgente, ma anche affascinante, da indurci a concludere che, anche solo per concepire una simile idea, è valsa la pena che siano esistiti gli esseri umani.
PAOLO DE BERNARDIS — Credo che siamo prigionieri di un problema antropico. Noi ci poniamo queste domande perché si sono verificate premesse che ci hanno permesso di esistere. Ma che tali condizioni siano state definite apposta per noi non è dimostrato. Potrebbero del resto esistere infiniti altri universi paralleli, privi dei requisiti necessari alla comparsa della vita e con evoluzioni diversissime. In effetti non possiamo nemmeno rispondere all’interrogativo se l’uomo sia unico o no in questo universo, perché non lo abbiamo esplorato abbastanza per concludere che anche solo nella nostra galassia non esistano altre forme di vita intelligente. Tuttavia da alcuni anni abbiamo individuato alcuni «pianeti candidati», adatti a ospitare la vita. Sappiamo che esistono, ma dimostrare che siano abitati da esseri intelligenti è difficile. Possiamo solo stimare probabilità che non sono esigue. VITTORIO POSSENTI — Anch’io sono stato colpito dalle conclusioni del libro. Vi ritrovo un forte senso umanistico, con l’esortazione a impegnarci per evitare che la Terra diventi inabitabile. C’è però un’altra parte
Paolo de Bernardis è un astrofisico che ha appena pubblicato un saggio sul futuro delle galassie. Su questo tema — e sul senso dell’uomo e la sua collocazione all’interno della storia e della geografia del cielo — «la Lettura» ha organizzato un confronto con i filosofi Mauro Bonazzi e Vittorio Possenti
che inclina verso la malinconia cosmica, prospettando un universo che lentamente decade per miliardi di anni fino allo zero termico. Viene da chiedersi: a che pro tutto questo? La scienza propone scenari grandiosi, spinta dall’impulso naturale a conoscere di cui Aristotele parlava all’inizio della Metafisica. Ma la scienza non basta a se stessa, deve allearsi con la filosofia: noi siamo esseri dinamici, dotati di volontà, libertà e intelligenza, e non ci rassicura pensare che tutto finirà in uno stato di quiete o di morte.
PAOLO DE BERNARDIS — «A che pro?» è una domanda a cui la scienza non può rispondere. La filosofia forse sì. Quanto al destino del cosmo, resta un punto interrogativo. Le nostre conoscenze sono troppo limitate per stabilire con certezza che tutto finirà nella morte termica. È uno scenario possibile, ma finché non esploreremo meglio le componenti più elusive dell’universo, la materia oscura e l’energia oscura, non potremo essere sicuri che andrà così. Quella prospettiva vale sotto certe ipotesi ancora da verificare, prima fra tutte che l’energia oscura mantenga le sue attuali proprietà.
MAURO BONAZZI — Quando Aristotele dice che gli uomini vogliono conoscere, non parla solo di accumulare informazioni. Quello è il mezzo; l’obiettivo è comprendere il significato della nostra esistenza. La filosofia e la religione sono nate con l’assunto che ci fosse un senso da trovare per via razionale o con la fede. La scienza però descrive un mondo privo di un disegno, che sembra frutto del caso, quindi pone interrogativi radicali ai filosofi. Ne conseguono due atteggiamenti diversi. Uno è la «morte di Dio» di Friedrich Nietzsche, che carica lo scenario di angoscia: l’uomo si era sempre creduto al centro del creato e scopre con sgomento di essere marginale. L’altro atteggiamento risale a Epicuro, che invece di spaventarsi considerava meraviglioso il fatto (potremmo quasi chiamarlo «miracolo») che fossimo sorti dal caso ed esortava a gioirne. Questa potrebbe essere una soluzione saggia: di certo il compito della filosofia è tenere aperte le domande di senso alle quali la scienza non risponde. PAOLO DE BERNARDIS — Nel libro ho inserito alcuni dei «miracoli» (ma preferisco chiamarli eventi a bassissima probabilità) che fanno funzionare l’universo. Penso alle reazioni nucleari che avvengono nelle stelle, quando nuclei d’idrogeno si fondono producendo elio, nonostante la repulsione tra i due protoni. Ancora più improbabile è però che dall’elio si formi carbonio. La vi-
ta si basa sul carbonio, che è prodotto nelle stelle. Ed è davvero fantastico, quasi incredibile, che due nuclei di elio possano fondersi facilmente formando berillio e che una risonanza del nucleo di carbonio consenta di formarlo, fondendo berillio ed elio. Più in generale basterebbe che i valori di alcune costanti cosmiche fossero diversi, anche di poco, per mutare la struttura dell’universo e impedire la vita. È stupefacente apprezzare quanto improbabile sia la nostra esistenza. VITTORIO POSSENTI —
Lo scienziato Guido Tonelli, sulla «Lettura» del 18 settembre, esortava noi filosofi a non occuparci solo di linguaggio ed epistemologia, ma anche di cosmologia. Io sono d’accordo e vorrei raccogliere l’invito. Da sempre la filosofia ha studiato tre fattori: Dio, il cosmo, l’uomo. Ma in epoca moderna i primi due temi sono stati accantonati per privilegiare la riflessione dell’uomo su se stesso. Riscoprire la cosmologia significa aprire gli orizzonti, affrontando anche la questione del caso. La definizione migliore del caso, secondo me, risale a un filosofo vissuto tra il V e il VI secolo d.C., Severino Boezio: l’incontro non preordinato di serie causali che s’in- crociano. Per esempio, se esco a passeggio, posso incontrare una persona che va a imbucare una lettera. Si tratta di un evento casuale, sebbene ciascuno di noi sia sceso in strada per una ragione, una causa. Semplificando al massimo, ne consegue che l’idea di un caso originario, fucina primordiale del mondo, è contraddittoria: prima della casualità c’è sempre una causalità. Quindi la presenza del caso non comporta l’assenza di un progetto. La scienza moderna, come ipotesi, esclude le cause finali. Ma sotto il profilo filosofico una finalità immanente a tutta la realtà esiste, è il passaggio dalla potenza all’atto di cui parlava Aristotele.
PAOLO DE BERNARDIS — I fisici però definiscono il caso in modo differente da Boezio. Nella meccanica quantistica, fondata sul principio di indeterminazione di Werner Karl Heisenberg, non si parla di causalità. Quando lanciamo un dado, non possiamo tenere sotto controllo l’esito. Ma secondo Boezio, e anche secondo Albert Einstein, se fossimo in grado di conoscere in modo accurato tutti i fattori in gioco, potremmo stabilire il risultato del lancio. Invece nella meccanica quantistica la probabilità che si può calcolare è basata su fenomeni microscopici assolutamente casuali, di cui non è possibile prevedere lo svolgersi. Si può soltanto stabilire un risultato medio in senso probabilistico. E tuttavia una varietà enorme di fenomeni può essere spiegata proprio partendo dal principio di indeterminazione.
MAURO BONAZZI — Però, se capisco bene, a livello microscopico vige questa nozione di caso, mentre in campo cosmologico valgono ancora leggi causali.
PAOLO DE BERNARDIS — Ma ci sono contatti tra le particelle e il cosmo. Per esempio nel punto d’inizio dell’universo la densità è così elevata che le leggi vigenti sono quelle dell’infinitamente piccolo. Non abbiamo ancora una teoria valida circa i primi attimi del cosmo, perché mancano osservazioni sufficienti e leggi verificate per energie così alte. Sappiamo però che, per descrivere quella fase iniziale, la relatività generale (teoria classica che rifugge il caso) e la meccanica quantistica andrebbero unificate. Un tentativo di farlo è la teoria delle stringhe, ancora in fieri. MAURO BONAZZI — Un’altra obiezione alla tesi che ci sia una causa originaria dietro gli eventi casuali, esposta da Possenti, è che forse un inizio manca. Così la pensava Epicuro, per cui l’universo esiste da sempre e da
Le immagini Sopra e nella pagina seguente: teamLab, Light in
space (2016, installazione interattiva digitale). L’opera realizzata nel 2001 dal gruppo fondato dal giapponese Toshiyuki Inoko, è esposta al Mori Art Museum di Tokyo (www.mori.art. museum) fino al 9 gennaio nell’ambito di The Universe in
art: oltre duecento i lavori in mostra, dai meteoriti, ai fossili, ai Codici di Leonardo, alle fotografie di astronauti, alle opere di artisti contemporanei come Jules de Balincourt e Tom Sachs. teamLab si definisce «un gruppo di ultratecnologi che amano esplorare i punti di contatto tra arte, tecnologia e natura partendo dall’antica tradizione giapponese. La natura umana Possenti: la nostra specie, che pare un puntino sperduto, non è però irrilevante, ha la capacità di pensare De Bernardis: è vero ma non siamo in grado di influire sull’universo
sempre è governato da processi casuali.
VITTORIO POSSENTI — Vorrei approfondire il tema del principio di indeterminazione, per cui non possiamo fissare contemporaneamente in modo preciso la posizione e la velocità di una particella. Non mi pare un’obiezione decisiva nei confronti della causalità. Se una particella è in moto, ci dev’essere una forza che agisce. Che poi di tale moto si possa stimare soltanto una probabilità non penso precluda l’operare di una causalità.
PAOLO DE BERNARDIS — Nel ragionamento di Heisenberg sì. Quando fissiamo la posizione di una particella nella meccanica quantistica, la sua velocità è del tutto ignota. E concetti tipo la causa e l’effetto, come la forza che agisce su una massa e l’accelerazione che ne consegue, non sono applicabili a livello microscopico: li sostituiscono leggi non più deterministiche, che possono solo calcolare una probabilità, ma non prevedere univocamente un fenomeno a partire da condizioni iniziali. Anche perché proprio tali condizioni restano almeno in parte sconosciute. Si può ritenere che ciò sia un limite della fisica quantistica, considerarla monca. Alcuni scienziati la pensano così, altri reputano che la teoria sia pienamente valida e che non sia proprio possibile enunciare leggi deterministiche.
VITTORIO POSSENTI — Accetto che non si riesca a dominare la complessità straordinaria del moto delle particelle. Ma mi domando se ciò sia sufficiente a escludere una qualche forma di causalità.
MAURO BONAZZI — Forse no. Ma dato che la meccanica quantistica ha dimostrato il suo valore conoscitivo, l’onere della prova di smentirla tocca a chi sostiene la persistenza del principio di causalità.
PAOLO DE BERNARDIS — Il fisico pragmatico si accontenta di fare previsioni sui fenomeni. O perché alla base non c’è causalità o perché la teoria non è abbastanza potente da tenerne conto, posso solo valutare la probabilità di un certo risultato.
MAURO BONAZZI — Secondo me il principio di indeterminazione segna una svolta anche per la filosofia. Mentre prima cercavamo un disegno nella realtà, ades- so dobbiamo cominciare a pensare la realtà come se non avesse senso. Ora però vorrei chiedere a de Bernardis che cosa c’era, secondo i fisici, prima del Big Bang. Per la filosofia dal nulla non può nascere nulla, quindi qualcosa dev’esserci prima dell’esplosione originaria.
PAOLO DE BERNARDIS — Al momento non siamo in grado di rispondere. Ma è nostro dovere fare ipotesi e molti colleghi stanno lavorando su che cosa c’era prima e anche sulla natura del Big Bang. Del resto è stupefacente notare come la somma complessiva dell’energia nell’universo, considerando energia cinetica positiva ed energia gravitazionale negativa che si annullano a vicenda, sia oggi zero come lo era all’inizio. Tutto ciò che vediamo corrisponde a un’energia perpetuamente nulla. VITTORIO POSSENTI — Ma il fatto che l’energia sia la stessa all’inizio e oggi non significa che sia nulla. Il nulla è un ente di ragione, che formiamo con la mente attraverso una negazione assoluta della totalità dell’essere. E dal nulla non può nascere qualcosa. Se oggi c’è dell’essere, inevitabilmente c’è sempre stato, sebbene sotto altre forme. Inoltre l’essere, avendo come limite il nulla che non c’è per definizione, risulta infinito. Quindi è assurdo dire, come fanno fisici tipo Stephen Hawking e Leonard Mlodinow, che l’universo proviene dal nulla assoluto: semmai è sorto dal vuoto quantistico, che è un concetto ben diverso. PAOLO DE BERNARDIS — Dal punto di vista quantistico il nulla è visto come un pullulare di effimere particelle virtuali che si formano e spariscono immediatamente grazie al principio di indeterminazione. Le leggi
fisiche prevedono che per un tempo brevissimo possa manifestarsi un’energia molto elevata. Ed è plausibile che un evento simile abbia generato la sequenza da cui è scaturito l’universo. Che cosa c’era prima? Difficile dirlo. Di certo c’era la potenzialità di quanto è avvenuto e potrebbe essere successo anche altrove.
MAURO BONAZZI — Qui emerge una dualità: da una parte la fisica quantistica, retta da un’originale nozione di caso; dall’altra leggi caratterizzate invece dal requisito della necessità. Sono come norme che regolano una gamma infinita di possibilità. È quasi un ritorno a Platone, con il mondo delle idee e le loro realizzazioni concrete. VITTORIO POSSENTI — Per tornare alle vicende dell’universo, mi chiedo se la filosofia stoica non avesse intuito aspetti che oggi riscopriamo attuali. Quella scuola parlava di ekpyrosis, la dissoluzione nel fuoco e la rinascita dal fuoco dei cicli dell’«anno cosmico», cui assegnava una durata di 100 mila anni solari. Non è un processo simile al succedersi del Big Bang e del Big Crunch teorizzato dai fisici di oggi? Però bisogna fare i conti con l’entropia, cioè l’aumento del disordine nel sistema. Nel momento in cui l’espansione dell’universo giunge al culmine, con la temperatura prossima allo zero e l’entropia al massimo, come può partire un processo che ricrei ordine?
PAOLO DE BERNARDIS — Ci sono due teorie diverse. L’idea di un universo ciclico teorizza l’alternanza tra fasi di espansione innescate dal Big Bang, in cui la densità diminuisce, e fasi di collasso, in cui la densità prende ad aumentare fino al Big Crunch. Un cosmo del genere non ha inizio né fine, ma si scontra appunto con il problema, mai realmente risolto, dell’entropia nelle fasi di transizione da un ciclo all’altro. L’altra teoria prevede invece un’espansione ininterrotta, da cui non si torna indietro, conclusa dalla morte termica. Ed è questa l’ipotesi che sembra favorita dalle rilevazioni attuali. Dico «sembra» perché sappiamo troppo poco dell’energia oscura: una sua eventuale transizione di fase potrebbe cambiare le proprietà dell’universo, magari provocandone il collasso. La verità è che dobbiamo studiare molto per capirne di più.
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