Con il suo personaggio Laurence Sterne rivoluzionò le regole del romanzo
In libreria per i Meridiani Mondadori l’opera che valorizzò incoerenze e discordanze
di Pietro Citati
Appena prendiamo in mano La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne (di cui è uscita un’eccellente edizione, a cura di Flavio Gregori, Mondadori, I Meridiani), veniamo affascinati. Per noi, è un bellissimo libro. Per i lettori del Settecento e dell’Ottocento, il Tristram Shandy era molto di più: il meraviglioso inizio della letteratura moderna. Goethe diceva che «Sterne è lo spirito più libero che sia mai esistito. Chi lo legge, si sente subito felice». Nei suoi primi libri Tolstoj imitò con eleganza la musica inafferrabile dello Shandy. Nietzsche diceva che Sterne era «il grande maestro dell’ambiguità».
«La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo» (a cura di Flavio Gregori, Meridiani Mondadori, pagine CXCIV-1118, euro 80)
«La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo» (a cura di Flavio Gregori, Meridiani Mondadori, pagine CXCIV-1118, euro 80)
Laurence Sterne, che nacque il 24 novembre 1713 in Irlanda, fu pastore per quasi vent’anni a Sutton, nello Yorkshire. Con grande passione, recitava i suoi bellissimi sermoni, di cui una parte ci è pervenuta. Con la stessa passione fu un libertino: corteggiò molte donne: si procurò una malattia venerea: fece un’intensa, a volte frenetica vita mondana, in Inghilterra e in Francia: conversò e chiacchierò insaziabilmente: fu malato di tisi: perse la voce: i suoi vasi sanguigni si ruppero; la morte «lo prese per la gola», sebbene egli si prendesse inesauribilmente gioco di lei. «Non posso morire — disse — perché ho quaranta volumi da scrivere e quarantamila cose da dire e fare». Viaggiò, fuggì per scansare la morte: la trattava come Tristram Shandy trattava il suo farmacista: se la lasciò a lungo dietro alle spalle; finché anche lui morì nel suo appartamento di Londra, a Old Bond Street, alle ore 16 del 18 marzo 1768. Sino alla fine tenne in mano la penna. Secondo quanto sembra, il suo corpo venne trafugato dal cimitero di St. George e condotto a Cambridge: lì fu usato in una lezione di anatomia, e poi riportato a Londra per essere seppellito una seconda volta. Sono certo che questa storia sarebbe piaciuta moltissimo a Sterne — tanto egli aveva giocato lietamente e assurdamente con la morte ed i cadaveri.
La funzione di pastore imponeva a Sterne di venerare Dio: in uno dei suoi sermoni parlò dell’«Essere sempre sul nostro capo e vicino al nostro letto»; e nel Tristram Shandy zio Toby esaltò «la grazia e l’assistenza di quell’Essere che è il migliore di tutti». Dunque Sterne credette in Dio. Forse: probabilmente; sebbene nel suo caso le parole credere e fede debbano essere dette e subito dimenticate; egli credeva e aveva fede in tutto e in nulla. Non possiamo negare che, qualche volta, conversasse con Satana: forse lo incontrò in un salotto di Londra, o viaggiò velocemente insieme a lui, come con un compagno silenzioso; ma non aveva per Satana nemmeno una piccola parte di quell’oscuro e tenebroso rispetto che nutrivano per lui molti tra i suoi amici libertini.
Sterne e il suo libro vissero sotto il segno di Ermete Trismegisto, che prestò il proprio nome a Tristram Shandy. Egli aveva un temperamento «mercuriale», ora grave ora frivolo: coltivava sia l’Uno sia il molteplice. Come Ermete, la sua mente aveva molte forme, pieghe ed aspetti: molti colori: si volgeva, sempre sinuosa, da tutte le parti: amava le cose segrete e nascoste: era flessibile: si trasformava incessantemente; come la mente di un attore di genio, Garrick, che Sterne esaltava.
Se la realtà era molteplice, Sterne diventava ancora più molteplice e diverso. Detestava la linea retta, la rigida e implacabile simmetria, i progetti coerenti dei teologi e dei filosofi. Invece di seguire la via diretta, andava indietro, poi avanti, poi di nuovo indietro. Coltivava le incoerenze, le contraddizioni, le discordanze, le interruzioni, le digressioni, sebbene cercasse (qualche volta) di risolverle in un misterioso equilibrio. Giocava con il possibile e l’impossibile, con il probabile e l’improbabile, che preferiva al reale e al certo. Pensava che «divagare faccia bene alla salute»: mentre stare immobile provoca malattie; soltanto il movimento ci salva. Era un modo per sconfiggere il tempo degli orologi, il nostro grande nemico, sostituendolo con un tempo esclusivamente mentale, dominato dal capriccio, dall’estro e dal ghirigoro. Tutto è fluido, ambiguo, pieno di vuoti, di strappi e di nodi, talvolta di grovigli: ogni minima cosa assomiglia a una «matassa intricata», a una «ragnatela». Sterne amava l’incompleto: difatti il suo libro non finisce mai, o finisce all’improvviso, o meglio non sappiamo mai se sia veramente finito.
Sterne viaggiava con grande piacere: «Il viaggio — disse — è stato il periodo più fruttuoso della mia vita». Come lui il suo libro viaggia all’impazzata, fuggendo vittoriosamente la morte, imitando la corsa dei cavalli e delle carrozze, interrotta ogni tanto da imprevedibili soste, e guardando ora davanti ora indietro ora di lato. Ogni momento del viaggio è ricchissimo: pieno di tantissime cose da pensare, da sognare, da fare e da dire. A volte gli obiettivi desiderati non esistono affatto. Il viaggio non ha mai lo stesso ritmo: ora è lento, fino a far addormentare i viaggiatori; ora furioso e velocissimo.
Sterne cominciava a scrivere la prima frase, e «per la seconda si affidava a Dio onnipotente o al caso»: coglieva al volo l’idea, talvolta addirittura prima che essa lo sfiorasse. Stava al tavolo o disteso sul letto, indossando un farsetto viola e un paio di pantofole gialle, senza parrucca e senza berretto. Se talvolta si ritrovava «con una vena fredda, vuota di metafore», questa aridità non durava mai a lungo, perché l’ispirazione tornava sempre a visitarlo allegramente. Ma scrivere un libro era molto più difficile che risolvere un arduo problema di geometria. Ora il libro era una musica: ora una recitazione teatrale, sotto il segno di Garrick: ora un difficilissimo gioco di carte; stava seduto a un tavolo e accanto a lui e dietro le sue spalle c’era il diavolo. Quasi sempre il libro era una conversazione con un lettore visibile o invisibile e al tempo stesso una enciclopedia — divisa in frammenti minimi, minimissimi, quasi invisibili.
Sterne era posseduto da due sentimenti opposti. Da un lato, il suo libro avrebbe potuto essere diverso trasformandosi, come «un’opera rapsodica», in una forma eventuale e imprevedibile. «Quando uno si mette a scrivere — insisteva — non immagina neppure quali intoppi e dannati ostacoli dovrà incontrare sul suo cammino». Non si può progettare e calcolare niente: o, almeno, niente di preciso. Lo scrittore ha un gran numero di versioni e tradizioni diverse da raccogliere, decifrare, conciliare. Alcuni capitoli del libro non contengono «un bel nulla»: altri sono progettati, accarezzati, ma non scritti; altri ancora non vengono compresi da nessuno, nemmeno dall’autore. La prefazione appare — improvvisa, inattesa — a metà del libro. Bisogna rinviare incessantemente le parole verso la fine, che però non esiste. E poi, chi ha veramente scritto il Tristram Shandy? Sterne ripete che non l’ha scritto lui. Ma chissà chi: forse l’intelligentissimo padre di Tristram: certo un altro – quell’altro – che Sterne portava dissimulato, nelle oscure e trasparenti profondità della sua natura.
Come diceva Nietzsche, non sappiamo mai cosa Sterne pensasse: certo discorreva su qualsiasi argomento: giungendo, come Raimondo Lullo, a tale perfezione «nell’usare i verbi ausiliari, che in poche lezioni riusciva a insegnare a un giovane a discorrere con proprietà su qualsiasi argomento»: pro e contro, dicendo e scrivendo tutto quello che si poteva, senza cancellare una sola parola. Sorrideva, rideva: convinto che «ogni volta che uno sorride — ma ancor più quando ride —, ciò aggiunge qualcosa a questo frammento di vita». Tutti i personaggi ridono di tutte le cose, ma sopratutto di sé stessi, con un riso unico, che parodizza lo stesso riso. Poi all’improvviso, come Cervantes, diventano gravi: o piangono con lacrime di cui non riusciamo a comprendere il significato — lacrime assolute che splendono a tratti sulle loro ciglia. Chi potrebbe essere più sensibile di loro? Come Rousseau, Sterne amava questa parola, sensibile; e la tenera e complicata compassione, e l’avvolgente malinconia, che Dürer aveva rappresentato mirabilmente nella figura di un angelo. Poi, all’improvviso, Sterne scriveva contro la malinconia, «sollecitando con una risata il diaframma ad alzarsi e abbassarsi più frequentemente». Infine, si compiaceva di giochi osceni: stringeva l’occhio all’osceno; tingeva ogni riga, in modo quasi ossessivo, di allusioni erotiche. Ciò che contava era soprattutto l’arte della vibrazione — le vibrazioni nate nel «delicatissimo sistema dei nostri nervi», nel grande «Sensorio dell’uomo». Lì i nervi, incredibilmente sottili ed elettrici, colgono il movimento di un cappello che cade o il fruscio improvviso di una seta: ciò che deve ancora nascere — capricci, fantasmi vaganti, che non hanno ancora raggiunto la coscienza di nessuno.
Sterne conosceva perfettamente la tradizione che aveva alle spalle. Come Montaigne, amava Socrate . Gli importava poco delle idee di Socrate e di Platone: o non le amava, per lui le Idee che per Platone stavano lassù, nell’alto dei cieli, erano vibrazioni nervose. Gli piaceva Socrate perché andava in giro, oziava, vagabondava, interrogava, chiacchierava insaziabilmente degli eventi più futili (o più sublimi): gli piaceva per la sua incantevole naturalezza e il suo dilettantismo. Adorava gli Essais di Montaigne, il suo vero maestro. Lì le cosiddette idee erano «fantasticherie», «chimere», mostri fantastici, grotteschi, linee tortuose, ghirigori, riccioli, grovigli, salti di tema, divagazioni, contraddizioni. Il Tristram Shandy è gli Essais trasformato in romanzo: mobilissimo, inquieto, pieno di variazioni e di vagabondaggi.
L’altro grande modello di Sterne fu il Don Chisciotte di Cervantes. Adorava «l’impareggiabile cavaliere della Mancia, con tutta la sua follia, più del più valente eroe dell’antichità, tanto che sarebbe andato chissà dove pur di incontrarlo di persona». Per Sterne la felicità dell’umorismo cervantiano dipendeva dal fatto che descriveva eventi futili e insignificanti con tutta la gravità di quelli importanti. A volte Sterne ripeteva alla lettera frasi di Montaigne, del Don Chisciotte, o dell’Anatomia della malinconia di Robert Burton, «torcendo o sbrogliando sempre la stessa corda». Era uno sfrontato plagiario: eppure, proprio plagiando riusciva a trovare, come avrebbe detto Borges, la propria natura irripetibile.
Sebbene vivesse sopratutto di libri, spesso Sterne rappresentava eventi storici reali, come la guerra tra la Spagna e l’Impero: le battaglie accadute, qualche decennio prima, in Francia e nelle Fiandre, a Dunkerque, o a Amberg, o Landen, o Limburg, o Bonn, o Drusen, o Dendermonde. Il mitissimo zio Toby, a volte, anticipava la storia: adorava la guerra; e lui e il fedele caporale Trim riproducevano tutto ciò che era accaduto nelle Fiandre e in Francia nel campo di bocce vicino a casa. Così la storia diventava minuscola, e veniva parodiata e ridicolizzata.
Spesso Sterne parlava dell’Inghilterra. L’amava perché era un paese inquieto, bizzarro, sregolato, eccentrico: il luogo della Fortuna — dunque il paese migliore della terra, dove era felice di vivere. Solo in Inghilterra riusciva ad abitare nel suo vero luogo: l’altrove.
4 gennaio 2017 (modifica il 5 gennaio 2017
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