Marco Belpoliti per Robinson - la Repubblica
Gli alberi sono belli, sono alti, sono forti, sono poderosi, sono resistenti, sono rassicuranti, ma nonostante questo, per quanto possano vivere più a lungo di qualsiasi essere vivente del pianeta, essere un albero è una gran fatica, più che essere uomini. Questo ho compreso leggendo il libro di Peter Wohlleben La saggezza degli alberi (Garzanti) che ha come titolo originale Capire gli alberi.
Wohlleben è una guardia forestale che custodisce il Parco nazionale dell’Eifel in Germania, ambientalista e autore di bestseller internazionali. Possiede il gusto per la divulgazione, come mostrano le schede dedicate ai singoli alberi, quasi una piccola enciclopedia arborea.
Nel suo libro spiega come quella degli alberi sia una lotta continua per sopravvivere in condizioni estreme: lotta per la luce. Gli alberi puntano verso l’alto, contrastano più di tutti i viventi della Terra la forza di gravità. Cercano di crescere dritti intercettando la fonte primaria della loro energia: il Sole. Nel bosco i sovrani supremi sono gli alberi di grandi dimensioni, che possono estendere i loro rami in tutte le direzioni. Sotto di loro cercano spazio piccoli alberi nati spesso dall’albero-madre.
Un grande albero ha circa duecentomila foglie che creano una superficie complessiva di mille metri quadrati: come un piccolo capannone. Accanto ci sono alberi più piccoli, che bramano un posto tra i giganti onnipotenti. Cercano di partecipare al bagno di sole, se ci riescono. Più sotto ci sono esemplari più piccoli, dalla corona di minori dimensioni, che non captano direttamente la luce, e spesso si piegano di lato con fare rassegnato (definizione dell’autore) e possono persino avere cento anni.
Più in basso ancora, quasi rasoterra, ci sono alberelli di varie decine di anni, che cercano di salire, piccole creature infanti che rischiano sempre di morire e di trasformarsi in humus. Se l’albero-Re si ammala e muore, allora tutto cambia.
Bisogna essere lesti — si fa per dire — per prenderne il posto, una chance che capita mediamente una volta ogni duecento anni. Gli alberi sono pazienti, tenaci e a loro modo saggi, come dice il titolo italiano, ma lottano per la vita non meno degli altri organismi viventi, anzi di più. Nei boschi crescono rapidamente solo i più alti, quelli che hanno a disposizione una superficie più elevata e quindi possono produrre zuccheri, proteine e legno. Per avere successo gli alberi devono diventare vecchi, ed evitare i loro mortali nemici: vento, insetti, tempeste e soprattutto funghi.
Questi possono avere un ruolo negativo, ma ne rivestono anche uno positivo. Nelle radici creano una simbiosi con gli alberi detta micorriza: avvolgono in un soffice mantello le radici sottili dell’albero aumentandone la superficie, così da costituire una sorta di batuffolo di cotone, che assorbe acqua e nutrimento, da cedere alle radici stesse.
I funghi sono a loro volta esseri singolari, e costituiscono un regno a parte rispetto ai tre tradizionali: il Regno Protista, quarto regno; secondo altri esisterebbe un loro sesto regno. Chi s’immagina che la lotta avvenga anche sottoterra, tra le radici? Il faggio, per esempio, racconta la guardia forestale, è un albero che taglia i rifornimenti ai vicini, riserve d’acqua e sostanze nutritive, allo scopo di distruggere i rivali che l’affiancano. Seduti all’ombra delle loro fronde in estate si pensa: che pace, che tranquillità. No! Come aveva capito Leopardi, intorno è la lotta di tutti contro tutti.
I faggi, per restare a loro, alberi bellissimi, sono una specie sciafila, che tollera bene l’ombra e lascia filtrare solo il tre per cento della luce, così da far deperire le loro improvvide vicine, per esempio le querce. Spietatissimi. Se poi uno pensa agli alberi come singolarità, ovvero ciascuno per sé, sbaglia. Gli alberi sono organizzati in società. Dice l’autore: esistono gerarchie precise, e usa un’espressione tratta dalla sociobiologia di Edwars O. Wilson, “superorganismo”: come le formiche, le api e le termiti.
Gli alberi poi sentirebbero il dolore, come noi umani. Il dolore è un segnale, avvisa che c’è una ferita, e nessun albero può ignorarlo pena la morte futura. Wohlleben ritiene lecito supporre che una lacerazione del legno provochi nell’albero fitte assai dolorose. Attraverso le fenditure provocate dagli agenti atmosferici entrano infatti i funghi patogeni; l’albero perciò reagisce riparando i tessuti, depositando fibra legnosa nel punto lesionato. Un processo che dura decenni e che possiamo leggere sulla sua faccia esterna, la corteccia: rigonfiamenti, gibbosità, biforcazioni, fasce callose. Lì gli alberi raccontano la loro storia, se solo sappiamo leggerla.
Il volume della guardia forestale si apre con una frase che fa riflettere: “ Gli alberi sono esseri enigmatici”. Dopo aver letto il libro ne sono convinto. Per esempio, le radici sono i suoi organi più misteriosi; si pensi a quante metafore alimentano. Sono le gambe e insieme la bocca dell’albero, e anche il suo cuore.
Nessuno ha spiegato in modo esauriente come avviene il trasporto dell’acqua da loro al tronco. Come fa a salire una massa liquida di cinquecento, mille litri d’acqua durante il periodo vegetativo? Avviene per capillarità, dicono i ricercatori, ma c’è anche la traspirazione: quando l’albero rilascia vapore acqueo attraverso i pori delle foglie si crea una pressione negativa, e l’acqua procede verso l’alto.
Metà dell’albero, o forse più, sta sotto terra e l’altra invece sale verso il cielo, come ha spiegato qualche tempo fa Nalini Moreshwar Nadkarni, docente di Environmental Studies all’Evergreen State College di Washington, in ( Elliot), che definisce così la posizione di questo essere vivente posto in mezzo, tra il sotto e il sopra. Per questo, come dice Wohlleben, sono enigmatici. Intanto comunicano. Con chi? Con gli insetti. Quando ci approssimiamo a un albero in fiore pensiamo che la sua florescenza sia un grazioso dono a noi. Sbagliato. Siamo i soliti antropocentrici. Profumano per gli insetti. L’albero dice: “ Vieni qui, c’è nettare delizioso!”. Vuole essere impollinato, cosa che noi non possiamo fare. Poi comunicano tra loro.
Se lo attaccano i bostrici, insetti dalle poderose mandibole, nemici mortali, l’albero immagazzina nella corteccia sostanze repellenti; e non lo fa solo per sé, ma lo comunica ai colleghi vicini attraverso l’odore, qualcosa che somiglia ai messaggi chimici degli insetti stessi e alla loro modalità collaborativa. L’indicazione in codice viaggia per l’aria, ma se c’è un refolo di brezza l’albero lo manda a dire attraverso le radici. I faggi fanno così. Distruggono i nemici e intrecciano relazioni con gli amici. Come noi, forse più di noi.
Pur essendo un bel viaggio nel mondo arboricolo il libro di Wohlleben non è soddisfacente riguardo la trattazione delle foglie. Nate dalla luce, sono viste dall’autore prima di tutto come degli scambiatori: trasformano i minuscoli fotoni in tronchi possenti. Sarebbero, scrive, gli occhi degli alberi. Anche i polmoni con i loro diecimila stomi, i pori, per foglia. Per non far cadere a terra l’albero sotto il loro peso, le foglie, vere e proprie vele solari, sono leggere e sottili: delicate.
Una volta Narciso Silvestrini, studioso di colore e percezione, indicando un albero con un grande cappello verde, ha fatto notare come l’albero sia essenzialmente le sue foglie. Tutta la struttura che Wohlleben descrive con così grande passione — il tronco, i rami, le radici — svolgerebbe la funzione di tener su le foglie. Senza le foglie l’albero non potrebbe raccogliere la luce, né respirare né traspirare. Quello che vediamo d’inverno, il tronco e i rami privi del verde, secondo Silvestrini, non è davvero l’albero.
Ho il sospetto che la visione della guardia forestale — l’amore totale per il tronco — sia tedesca, mentre quella dello studioso italiano — la preferenza data alle foglie — invece mediterranea. Le foglie sono la parte che cambia ogni anno: sempre diversa, sempre uguale. Forse qui sta la differenza tra le due visioni. Una che guarda a ciò che è solido e permanente, l’altra che sottolinea invece la leggerezza e la caducità. Due modi diversi di vedere lo stesso albero, tutti gli alberi.
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