di Paolo Mieli - Corriere della Sera
Una sera Mussolini, «stanco di stare solo in casa, infilò un pastrano, si calò un cappello sugli occhi, e, col viso nascosto dal bavero del cappotto, uscì a piedi a spasso per Roma». Giunto davanti a un cinema, decise di entrare. Prima della proiezione del film, dovette assistere a un cinegiornale il cui protagonista «era lo stesso Mussolini, sempre lui, sempre il solito Mussolini, a cavallo, in automobile, a piedi, in uniforme, in borghese, in camicia nera, in frack, in aeroplano, in motoscafo». E ancora lui che «passava in rivista delle truppe fasciste, inaugurava un monumento, presiedeva un congresso di filosofi, stringeva la mano a un Cardinale, visitava una caserma, saliva sul Campidoglio, pronunciava un discorso, due discorsi, tre discorsi, un’infinità di discorsi». Al primo apparire di quelle immagini, il pubblico si era alzato in piedi e aveva iniziato ad applaudire. Ma lui, che si sarebbe sentito ridicolo a battere le mani a sé stesso, se ne era rimasto seduto. Al che un «modesto piccolo borghese», che invece aveva aderito al moto di entusiasmo collettivo, si era chinato a lui e gli aveva sussurrato all’orecchio: «Scusi signore, anch’io la penso come lei, ma è meglio alzarsi».
Con questo aneddoto — quasi sicuramente inventato — si apre Muss. Ritratto di un dittatore, il testo di Curzio Malaparte (nome d’arte di Kurt Erich Suckert) che l’editore Passigli si accinge a riportare in libreria proprio nei giorni in cui cadono i sessant’anni dalla morte dello scrittore (19 luglio 1957). Il tono del saggio è di intelligente irrisione nei confronti del capo del regime fascista e ancor più di colui che nel 1933 sarebbe diventato il dittatore della Germania nazista: Adolf Hitler. «Anche se incompiuto e con i limiti posti naturalmente dalla genesi del lavoro e dagli interventi successivi», scrive Francesco Perfetti nel saggio introduttivo che impreziosisce il libro, «Muss si presenta come un’opera importante nel quadro della produzione letteraria malapartiana, ricca di sollecitazioni e di spunti interpretativi di grande interesse, utile per meglio comprendere sia la posizione dello scrittore toscano di fronte al fascismo, sia quella nei confronti del suo capo, sia, ancora, le sue idee nei confronti del rapporto fascismo-antifascismo».
In Muss il fascismo è presentato come «l’ultimo aspetto della Controriforma», come «una conseguenza logica, se pur lontana, della controrivoluzione cattolica del Sedicesimo e Diciassettesimo secolo», ma a ben vedere — nota Perfetti — la valutazione generale è sostanzialmente capovolta rispetto ai lavori precedenti. E lo è «con molta probabilità per una non confessata riflessione sul pensiero di Piero Gobetti, il quale attribuiva il ritardo del processo di sviluppo sociale così come “l’immaturità ideale e politica” dell’Italia al fatto che essa non aveva avuto la sua Riforma». Il riferimento sottinteso a Gobetti, prosegue Perfetti, appare anche in altri punti, per esempio laddove Mussolini viene presentato come l’espressione tipica del popolo italiano: «le sue qualità e i suoi difetti non gli sono propri, sono le qualità e i difetti di tutti gli italiani» e i difetti sono soprattutto quelli «della sua educazione cattolica». Il «capolavoro di Mussolini uomo di Stato» sarebbe stato, secondo Malaparte, la capacità di svegliare, far salire a galla e organizzare, per servirsene ai propri fini, «tutte le forze oscure e cieche che agiscono inconsciamente nei bassifondi della psicologia del popolo italiano». Hitler invece (il libro è scritto nel 1931, due anni prima dell’ascesa al potere del dittatore nazista) appare a Malaparte come «una caricatura di Mussolini» e tuttalpiù «il veicolo per l’iniezione del bacillo fascista nelle vene della nazione germanica». Secondo Malaparte «soltanto un tedesco d’Austria, un cattolico di una provincia dell’Antico Impero degli Asburgo poteva introdurre il fascismo in Germania», proprio perché «il fascismo, nella sua essenza, non è che il complesso dei difetti della civiltà cattolica»: con Hitler non entrava nel Reich «il dogmatismo della Chiesa di Roma», ma «il principio corruttivo e degenerativo contenuto nei difetti della mentalità cattolica».
Malaparte, dicevamo, iniziò a scrivere Muss nel 1931 quando era a Parigi. Avrebbe dovuto essere Muss la traccia di una biografia del Duce da intitolarsi, nella sua versione definitiva, Il Caporal Mussolini. In realtà, però, «il saggio», scrive Giuseppe Pardini in una nota al libro edito da Passigli, «si andò sviluppando come un’analisi critica del fascismo mussoliniano e del nazionalsocialismo». Perché lo scrittore toscano voleva scrivere un libro del genere? Il Caporal Mussolini, confessò lui stesso, avrebbe dovuto essere il suo «biglietto da visita» negli ambienti del fuoruscitismo politico, come reazione ai torti subiti da Roma. Roma, cioè i vertici del regime fascista, da cui si sentiva «abbandonato e tradito». E forse aveva ragione, tant’è che nell’ottobre del 1933, rientrato in Italia, verrà tratto in arresto. Arrestato Malaparte? Volontario nella Grande guerra, fascista da quando aveva 22 anni (era nato nel 1898), aveva preso parte alla marcia su Roma e sottoscritto il manifesto degli intellettuali di Giovanni Gentile. Godeva della reputazione di un irregolare, di un genio. Nel 1929, poco più che trentenne, era stato chiamato dal senatore Giovanni Agnelli a dirigere «La Stampa», ma nel gennaio del 1931 lo stesso Agnelli lo aveva licenziato per alcune prese di posizioni impertinenti, ma soprattutto per essersi messo in urto con Italo Balbo.
Malaparte si era allora trasferito a Parigi dove in quello stesso 1931 aveva dato alle stampe Tecnica del colpo di Stato, che aveva molto accresciuto la sua fama. Poi si era messo a scrivere Muss. Che Mussdovesse avere per lui «una certa importanza», osserva Pardini, «è confermato dalla estrema cura con la quale egli lavorò alle diverse stesure, tanto da giungere a una prima provvisoria sistemazione in due capitoli». Il testo doveva essere già stato revisionato «in vista della pubblicazione (per l’editore parigino Grasset) essendo stato interamente corretto e copiato dal manoscritto al dattiloscritto». Ma, come lui stesso scrisse in una lettera a Daniel Halévy del 4 settembre 1931, qualcosa gli suggeriva di fermarsi, ancora non riteneva fosse giunto il momento di «passare il Rubicone». In che senso? Mussolini gli aveva fatto sapere che sarebbe stato in qualche modo «risarcito» per il licenziamento dalla direzione del quotidiano torinese, forse con una sua utilizzazione in diplomazia. E Malaparte non voleva essere lui a fare il primo passo nel provocare quella rottura che sarebbe stata inevitabile dopo la pubblicazione di Muss. Meglio soprassedere. Ma altri incidenti erano in agguato. Nel febbraio del 1932, la moglie di Ugo Ojetti, nel corso di in un ricevimento, gli rimproverò di aver intrattenuto rapporti con l’intellettuale antifascista Gaetano Salvemini («Frequenta certa gente!» gli disse davanti a tutti).
L’informazione veniva da rapporti di polizia che tendevano a metterlo in cattiva luce, accusandolo, appunto, di quelle che per loro erano dubbie frequentazioni. Frequentazioni che, scrive Perfetti, non avevano affatto una «forte valenza politica o un carattere di esplicita contestazione del regime». Esse, piuttosto, «si inserivano bene nel quadro comportamentale di un uomo che amava ostentare — poco importa se per scelta estetizzante o per la sua natura narcisistica — un profondo anticonformismo di atteggiamenti e relazioni umane». E che, al tempo stesso, era portato a far propri «comportamenti di sdegnosa e amara ripicca nei riguardi di quelle che riteneva, a torto o a ragione, ingiustizie perpetrate nei suoi confronti». Nella segreta speranza, beninteso, che ad esse il regime ponesse presto riparo. E vivendo perciò nel timore che Mussolini equivocasse sul suo anticonformismo e lo scambiasse per una manifestazione di ostilità al regime. Ragion per cui molto si allarmò Malaparte per quelle parole pronunciate dalla consorte del giornalista. E così scrisse a Ugo Ojetti: «Sono rimasto male quando sua moglie mi ha chiesto se io avevo incontrato Gaetano prof. Salvemini. Io non conosco, non ho mai conosciuto, non conoscerò mai Gaetano Salvemini. Come mai può essere venuta in testa una cosa simile a sua moglie?». In particolare Malaparte si mostrò infastidito per quelle tre parole: «Frequenta certa gente!». E puntualizzò con Ojetti: «Quale gente? Io frequento solo persone per bene e a posto politicamente, sia francesi che italiani».
Poi, sempre nel 1932, un fuoruscito suo conoscente, Antonio Aniante (che lui aveva fatto collaborare a «La Stampa») aveva dato alle stampe un pamphlet antimussoliniano e per giunta per i tipi del suo editore, Grasset. Malaparte agitatissimo si rivolse al direttore del «Corriere della Sera», Aldo Borelli, per dirgli che lui non aveva avuto niente a che fare con il volumetto di Aniante. Gli scrisse che Aniante — da lui ritenuto una persona qualsiasi («tra gli abitanti di Montparnasse il più celebre dei più squattrinati e dei più siciliani») — aveva approfittato di una sua assenza da Parigi «per intrufolarsi» e presentare a Grasset il proprio manoscritto «raccomandando che non si dicesse nulla a me, temendo che io, per gelosia, gli impedissi la strada». Dopodiché Malaparte specificò di essersi persino rivolto all’editore per metterlo in guardia: «Ho fatto capire a Grasset la gaffe commessa, ma era troppo tardi». Per poi aggiungere parole davvero ingenue: «Ti dico questo perché se qualche maligno insinuasse che il libro l’ho presentato io e l’ho raccomandato io, sia pure indirettamente, tu possa smentire nel modo più categorico». E Borrelli lo rassicurò: «Sta tranquillo per il caso Aniante. Nessuno può mai pensare che tu abbia potuto patrocinare un libro come quello scritto da quel giovane bandito». Dal che si capisce perché Malaparte non ritenne di pubblicare in quel momento Muss. E non ne parlò più con nessuno.
Adesso su alcuni periodici italiani, «Il Popolo di Lombardia», «L’Artiglio», «Il Tevere», «Ottobre», era partita una velenosa campagna contro di lui. Rinfocolata da un suo articolo a proposito di Francesco Guicciardini, apparso sulla rivista «Les Nouvelles Littéraires», che conteneva le consuete critiche a Hitler e anche qualche insinuazione maliziosa contro Mussolini. Il direttore del «Corriere della Sera» se ne preoccupò e gli suggerì di chiarire direttamente al Duce non esser stato nelle sue intenzioni criticarlo.
Malaparte però aveva sorprendentemente risposto a Borelli con una lettera assai spazientita: «Da me non si possono aspettare un atto di ribellione, che se mi rompono le scatole … Mi lascino vivere in pace, e io li ignorerò. Diano ordine, per esempio, alle loro autorità diplomatiche di non trattarmi come un fuoruscito, se non vogliono che un giorno o l’altro, logicamente, io mi consideri un fuoruscito. Ma un fuoruscito di nuova specie, sta’ tranquillo, che non si imbrancherebbe con nessuna gente bacata, e che sarebbe assai più pericoloso di tanti altri. Invece di ringraziarmi del fatto che io, con la notorietà internazionale che mi son creata (e vedrai fra qualche tempo) sto zitto e fingo di approvarli pienamente, quei signori mi fanno boicottare come se fossi un fuoruscito».
La cosa, come si è detto, finì male. Il 5 ottobre del 1933, Malaparte fu arrestato su denuncia di Balbo e inviato al confino a Lipari. Nel luglio del 1934, su interessamento di Galeazzo Ciano, lo scrittore fu trasferito a Ischia e in ottobre a Forte dei Marmi. Il 12 giugno del 1935 fu rimesso in libertà e meno di un anno dopo, nel marzo del 1936, tornò a poter esercitare la professione di giornalista. Il perdono di Mussolini, fa notare Perfetti, «era giunto un anno e otto mesi dopo l’arresto quando gli mancavano, dunque, più di tre anni per scontare interamente la pena inflittagli che egli, in seguito, avrebbe più volte sostenuto di aver espiato appieno». Ormai non era più tempo di riprendere in mano Muss, tanto più che nel frattempo Hitler era andato al potere ed era diventato un importante interlocutore di Mussolini. Ma quel libretto un giorno gli sarebbe servito a qualcosa. Anche in ragione del fatto che la vicenda del confino sarebbe stata, come ha scritto Maurizio Serra, una carta decisiva da esibire «mille volte, nel dopoguerra, per attestare la sua opposizione al regime e per far dimenticare che egli ne era stato — prima, ma anche dopo la sua disavventura — uno degli intellettuali più in vista». Soprattutto Muss tornò buono quando, nel dopoguerra, Malaparte si avvicinò al Partito comunista italiano e al suo segretario Palmiro Togliatti. In una sorta di ritratto autobiografico che scrisse, nel 1957 poco prima di morire, per la rivista del Pci «Rinascita», Malaparte presentò Muss come una «violenta requisitoria contro il fascismo e Mussolini». A darsi più «titoli di antifascismo» nell’estate del 1943, dopo la seduta del Gran Consiglio del 25 luglio e la deposizione del Duce, Malaparte aveva deciso di scrivere un ulteriore saggio su Mussolini, Il Grande Imbecille(che è pubblicato in coda a questa edizione di Passigli). Nel 1951, infine, rimise le mani su Muss. Accentuandone i caratteri di «violenta requisitoria» dei quali, in punto di morte, avrebbe menato vanto su «Rinascita».
Bibliografia
La figura di Curzio Malaparte continua a far discutere, da ultimo per la proposta di assegnargli il premio Strega alla memoria, respinta dagli organizzatori della manifestazione. Il suo libro Muss. Ritratto di un dittatoreè edito da Passigli con prefazione di Francesco Perfetti e nota finale di Giuseppe Pardini (pagine 164, euro 16). Le opere più note di Malaparte (Tecnica del colpo di Stato, La pelle, Kaputt, Maledetti toscani) sono state ripubblicate da Adelphi. Le sue lettere sono state edite in più volumi da Ponte alle Grazie su iniziativa della sorella Edda Ronchi Suckert. Tra le biografie: Giuseppe Pardini, Curzio Malaparte. Biografia politica (Luni editrice, 1998); Giordano Burno Guerri, L’Arcitaliano. Vita di Curzio Malaparte (Bompiani, 1980); Maurizio Serra, Malaparte. Vite e leggende (traduzione di Alberto Folin, Marsilio, 2012).
3 luglio 2017 (modifica il 3 luglio 2017
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