sabato 8 luglio 2017

Sertorio

Un Romano spina nel fianco di Roma

Antichità Un romanzo storico su Sertorio, il guerrigliero che in Spagna coalizzò le genti locali contro la Repubblica. Non venne sconfitto dalle legioni ma tradito dai suoi

Parafrasando Wittgenstein, Umberto Eco disse una volta che «di quanto non si può descrivere, bisogna narrare»; principio al quale molto concede senz’altro anche Nelson Martinico nel libro Le per
gamene di Sertorio (Edizioni Spartaco). È una biografia romanzata (forse un po’ troppo) del ribelle romano, che si addentra piacevolmente, secondo un ben noto
cliché letterario, in uno pseudobiblion, un testo fittizio, cioè le pergamene ricordate nel titolo. Quindi un’autobiografia immaginaria non priva di qualche inesattezza ma ben scritta e arricchita da una simpatica e arguta confidenza con il latino.
Ma chi era Sertorio? Certo, il Sabino di Norcia avviato giovane alla professione forense, poi soldato ed eroe delle lotte contro i barbari Teutoni e Cimbri, un capo dello schieramento popularis. Dopo il trionfo in Italia di Silla (82 a.C.), che era sostenuto dal fronte rivale degli optima
tes, Sertorio, ormai esule in Spagna, guidò i Lusitani contro Roma, nella prima metà del I secolo a.C., creando una base ai compagni di fazione. E poi? Nelle prime pagine, costruendo un dialogo di fantasia fra Traiano (in quanto spagnolo interessato a Sertorio) e Plutarco, Martinico riprende proprio da Plutarco, sua fonte primaria, l’immagine del condottiero con un occhio solo, orgoglioso della deformità riportata in battaglia, che lo accomunava a Filippo II, ad Antigono, ad Annibale.
Non tutti i grandi generali sono stati monocoli; così come, malgrado un topos dell’età antica, non tutti i guerci sono stati fraudolenti né tutti i maestri d’astuzia hanno sofferto di traumi visivi. Ma l’astuzia rimane, di Sertorio, il tratto principale. Rispetto ai modelli accostati a lui da Plutarco, l’esule resta infatti ben lontano dai vertici attinti da Filippo II e soprattutto Annibale; che fu, certo, abilissimo tessitore di insidie, ma fu, in primo luogo, inarrivabile tattico, capace di adattare la manovra di stampo macedone ai guerrieri individuali dell’Occidente, rimpiazzando il blocco della falange con un centro elastico che, ripiegando, invischiasse il nemico, lo paralizzasse e consentisse di avvolgerlo fino ad annientarlo.
L’abilità di manovra alla base delle grandi vittorie in acie, negli scontri campali, mancava invece a Sertorio, o almeno non era peculiare in lui. Ricorda ancora Plutarco che, di fronte agli avversari romani più abili, come Metello Pio o Gneo Pompeo, egli rifiutò sempre lo scontro aperto. Lo induceva a questa strategia la sua estrema abilità nella pratica della guerriglia (termine non a caso di origine spagnola…), che gli consentiva di profittare degli aspri terreni della provincia, della frugalità dei montanari lusitani, più tolleranti delle truppe di Roma di fronte a stenti e disagi, e soprattutto delle caratteristiche migliori di questi guerrieri.
Quella che, con termine greco, Plutarco chiama pelta era, in realtà, la caetra, il piccolo scudo rotondo da pugno delle genti iberiche; oltre al quale i formidabili peltasti da lui ricordati portavano però il gladio ispaniense o la falcata, la micidiale sciabola iberica, e fors’anche il soliferreum, il giavellotto interamente metallico, armi che li mettevano in grado di essere fanterie da montagna leggere e agilissime e, insieme, solide truppe di linea in grado di affrontare persino le legioni.
Il nemico romano era avvezzo a «schieramenti rigidi e immobili», ma non ad «arrampicarsi su per le montagne… per incalzare o fuggire… uomini leggeri come il vento»; sicché, dato che «voleva combattere ma non poteva, dovette subire tutti i danni che soffrono i vinti, mentre Sertorio, che evitava la battaglia, godette di tutti i vantaggi... Tagliava al nemico i rifornimenti d’acqua, impediva di far provviste di viveri; se l’altro avanzava, si dileguava, se si accampava lo costringeva a spostarsi, se poneva l’assedio a una città compariva alle sue spalle e lo assediava a sua volta» (Plutarco, Sertorio). Con lui si era tornati al pyrinòs polemos, alla «guerra di fuoco», la serie di scontri senza respiro e senza regole di cui, per la Spagna, già aveva parlato Polibio. E in questo modo resistette per dieci anni agli eserciti nemici.
Questo fu Sertorio come generale. Imitando più o meno consciamente il ritratto di Annibale in Livio, Plutarco lo accosta al Cartaginese anche nel carattere, dicendolo libero dalla schiavitù del piacere, e dunque frugale nel cibo e resistente al sonno, di costituzione forte e sobria a un tempo, esente dalla paura e dunque imperterrito nei pericoli così come, al bisogno, maestro in rapidità e astuzia, generoso nel riconoscere i meriti e moderato nel punire quanto restìo ad esaltarsi in caso di vittoria. Del grande punico Sertorio ebbe inoltre l’abilità di imporre carisma e volontà a truppe difficili, mostrando attitudine nell’uso strumentale della superstizione, attraverso cui gli riuscì a lungo di controllare gli indigeni.
Più che con Annibale egli va però confrontato forse prima con il cognato, poi con il fratello del cartaginese, che avevano lo stesso nome. Come Asdrubale il Vecchio (il cognato), che aveva dato vita in Spagna a un’altra Cartagine e aveva cercato di cementare in una nuova identità la coesione tra Iberi e Punici, Sertorio puntò dapprima a trasformare i Lusitani, raccogliendone a Osca (Huesca) i figli per educarli alla romana. Purtroppo, però, durante l’ultima parte della vita finì per somigliare invece ad Asdrubale il Giovane; il quale, forse per diffidenza, forse per un immotivato senso di superiorità verso gli Iberi, certo perché incapace di comprendere il disegno del suo omonimo, ne aveva compromesso l’azione, finendo per vedersi preferito dagli ex alleati il giovane romano Scipione. Così anche Sertorio, «durante l’ultima parte della sua vita… trattò… con selvaggia ferocia gli ostaggi che aveva nelle mani, e ciò sembra dimostrare che la mitezza non fosse, per lui, una virtù genuina e conforme a ragione» (Plutarco, Spartaco); e non lo fosse stata forse neppure quando, prima dell’esilio, l’aveva esercitata nei confronti degli avversari politici a Roma o aveva contrastato — pur appartenendo alla stessa fazione — la superbia e la spietatezza dimostrate in ultimo dal leader popularis Mario.
A uccidere Sertorio furono infine nel 72 a.C., quando già i Lusitani si erano in parte staccati da lui, i sodali cui pure, fuggiasco ma mai avverso alla Repubblica, era andato «a preparare un rifugio» in Spagna. Gli resta, malgrado la svolta finale, il merito di avere tra i primi, con la sua scuola in Osca, aperto il modello di Roma al mondo oltremare.

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