Emanuele Trevi per il Corriere della Sera – La Lettura
Tutti gli scrittori di argomenti bellici, che siano romanzieri o cronisti, poeti o storici, dovrebbero, prima di mettersi all' opera, meditare profondamente sull' episodio iniziale della Certosa di Parma di Stendhal, uno scrittore che la guerra l' aveva sperimentata sulla propria pelle prima che sulla pagina bianca.
Il giovanissimo protagonista del romanzo, Fabrizio Del Dongo, fervente ammiratore di Napoleone Bonaparte, scappa di casa nel 1815 per unirsi alle armate francesi, proprio alla vigilia della decisiva battaglia di Waterloo.
Sembra una mossa inaugurale vincente per una vita all' insegna delle passioni: una fuga dal conformismo sociale e familiare, una di quelle ribellioni che inaugurano un intero destino. Ma l' inesperto Fabrizio aveva sottovalutato una verità che, per essere paradossale, non è meno vera: più noi ci collochiamo nel cuore stesso delle cose, e meno le vediamo.
Gli storici potranno raccontarci la battaglia di Waterloo nei minimi dettagli, come si fa da duecento anni alla ricerca del particolare decisivo che ha risolto l' incertezza dello scontro a favore del duca di Wellington.
Intesa in senso classico, ogni narrazione si avvale di una comoda prospettiva aerea. Fabrizio, invece, vede solo la polvere alzata dai cavalli, il fango, e una serie di dettagli indecifrabili. Poteva restarsene a casa, e ne avrebbe capito molto di più dalle gazzette.
Infaticabile viaggiatore oltre che scrittore coltissimo e raffinato, Stefano Malatesta conosce benissimo questi problemi di rappresentazione. L' avvincente galleria di ritratti di guerrieri e di scene di battaglia raccolta nel suo ultimo libro, La vanità della cavalleria (Neri Pozza), ha il merito (letterario prima ancora che culturale) di rendere evidente ciò che non è affatto evidente.
Dalle battaglie dell' antichità alla Seconda guerra mondiale, collabora all' efficacia del tour de force la brevità imposta dalle originarie misure da articolo di giornale poi trasformato in capitolo del libro. E questo non è affatto un limite: come ci ha insegnato il Borges degli Scritti prigionieri, si può fare dell' ottima prosa impiegando in maniera estetica, se non addirittura poetica, i dannati limiti di spazio.
Se ho a disposizione non più di qualche decina di righe per raccontare (faccio un esempio tra mille pescando in questo libro così ricco) la distruzione di ben tre legioni romane nella selva di Teutoburgo, dovrò puntare su un numero ristretto di particolari circoscritti ma significativi, finendo per somigliare di più al pittore o al regista di cinema che allo storico.
Nel corso di una lunga carriera, Malatesta ha trasformato in modo magistrale la necessità in virtù. Com' è abbastanza evidente fin dal titolo, non sono rari in questo libro gli squarci di ironia o di sarcasmo. Come ogni arte, anche quella della guerra non si può certo definire immune dalla vanità. E come in ogni arte, non è infrequente la presenza attiva della nullità o del raccomandato a fianco del genio.
Per non parlare dei casi di fama del tutto o in parte usurpata (paga il suo dazio, nel libro di Malatesta, anche una figura quasi mitica come Lawrence d' Arabia. E in generale, considerando la situazione della Siria e dell' Iraq, si rimane sconcertati nel constatare come le tragedie attuali affondino le loro radici nelle scelte demenziali di Francia e Gran Bretagna ormai risalenti a un secolo fa).
Non meno della letteratura o della musica, gli eserciti sono anche dei prodotti culturali, riflettono modi di vita e mentalità. Solo una civiltà splendida ma intimamente minata come quella asburgica poteva concepire l' idea di mandare dei soldati in guerra impeccabilmente vestiti di bianco, come se fossero concorrenti di Masterchef . E dunque nei racconti di Malatesta i fili, più prevedibili, del valore e del coraggio si intrecciano sapientemente a quelli dell' imbecillità, dell' arroganza, dell' incapacità di interpretare i segnali più evidenti di ciò che sta accadendo.
Accennavo prima al disastro romano di Teutoburgo (in molti ricorderanno, dai tempi della scuola, il lamento di Ottaviano Augusto: «Varo, Varo, rendimi le mie legioni!»). Ebbene, stando al racconto bene informato del grande e misconosciuto storico romano Velleio Partercolo, così bene messo a frutto da Malatesta, sembra proprio di capire che contarono molto meno il valore e la furbizia del vincitore, il terribile Arminio, della supponenza e della cecità di Quintilio Varo, archetipo dell' idiota al comando, questa figura ahimè eterna della storia umana.
In molte altre storie che ci racconta, Malatesta è abilissimo nel rendere per pochi minuti ancora incerti gli esiti di battaglie che sappiamo benissimo come siano andate a finire. Personalmente, confesso che ogni volta che leggo qualcosa sull' andamento di Waterloo, spero sempre che alla fine Napoleone ce la faccia.
Ma questa è proprio la suprema abilità dello scrittore di cose belliche: rendere incerto anche il risaputo. Non è un semplice trucchetto narrativo: la verità è che non solo le battaglie, ma tutte le cose umane vanno in un modo mentre potevano benissimo andare al contrario. Non c' è nulla di più prezioso da imparare e meditare nella storia delle battaglie, antiche e moderne.
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