lunedì 31 luglio 2017

Harold Bloom

Antonello Guerrera per Robinson - la Repubblica

Delle tre cifre del numero civico è rimasto solo il 9. Si sono perse anche loro in questo elegante viale alberato vicino all’università di Yale, ben distante dal triste centro di New Haven, dove le abitazioni sono bianche, gialle, rosa. Casa sua, invece, è di un’antracite livida e austera, tra la freschezza dei tigli, delle querce e delle magnolie. Alla porta, candida come le finestre, non risponde nessuno.

Dopo un minuto, dietro la zanzariera prende forma una donna cauta, con un caschetto di capelli bianchi e gli occhi azzurri. Si chiama Jeanne. Non sa dell’appuntamento del marito. «Vado a chiedere, lei entri intanto», dice, sbattendo l’anta. All’ingresso, come in ogni casa anglosassone, c’è subito la rampa per il piano superiore, ma con una poltroncina montascale. Nel soggiorno ligneo illuminato dalle enormi finestre americane, tra un divano rigonfio, una grande credenza, scaffali colmi di libri e un tappeto scuro, c’è un vecchio impianto stereo che diffonde il concerto n. 1 di Wolfgang Amadeus Mozart.

Sulla cassa marrone c’è un cd beige di Bach. «Harold», chiede al marito, «c’è un giornalista italiano. L’hai invitato tu?». Harold Bloom, il più famoso critico letterario insieme a George Steiner, l’inventore del “Western Canon” che ha eletto ventisei scrittori occidentali (da Dante a Shakespeare, da Molière a Goethe, da Proust a Joyce) a modello ed essenza della cultura degli Stati Uniti e dell’Europa, colui che ha rivoluzionato lo studio e la bussola della letteratura in America e nel mondo, è lì, di spalle, fermo sulla soglia di una porta, nascosto dalla sedia a rotelle. Bloom non è più paffuto come molti anni fa. Le patologie e l’età l’hanno rimpicciolito, la maglia e il pantalone neri lo smagriscono ancor più ed è attaccato al lungo filo del respiratore. Ripete ossessivamente di avere ottantasette anni e di aver subìto di recente «due difficili interventi chirurgici».

Ma Harold Bloom non si arrende. Come non ha mai mollato le sue decennali battaglie accademiche. Professore e totem indiscusso a Yale da oramai mezzo secolo, Bloom è stato il celebre teorico dell’Anxiety of Influence, che ha ribaltato la critica mondiale: i poeti che si fanno troppo influenzare dai loro bardi preferiti sono deboli. Quelli forti sono, invece, coloro che si ribellano all’ansia di somigliare ai loro padri letterari.

Di qui il concetto e la necessità della “letteratura autoritaria”, altro decennale pallino di Bloom: «Ma oggi la letteratura non sa più esserlo, non sposta più gli equilibri», ammette contrariato, «e diventa sempre più irrilevante». Perché? «Gli studi umanistici sono morti a causa della loro eccessiva politicizzazione, dal marxismo al femminismo. Del resto, tutto ciò che viene politicizzato muore».

Da sempre, Bloom detesta quella che lui ha battezzato e poi condannato come la School of Resentment, la “scuola del risentimento”, e cioè i colleghi e accademici che inquinano la purezza della letteratura con le loro ideologie. Questo per il grande intellettuale americano è il male assoluto della critica, l’antiletteratura per eccellenza. Che però, per Bloom, ha vinto purtroppo. «Sì, non sono riuscito a sconfiggerli. Saranno sempre lì, a rovinare tutto».

Bloom non ama la contemporaneità. Non chiedetegli del Nobel a Bob Dylan. «Tutto il mondo mi ha chiesto un commento, dal New York Times ai cinesi. Non ho mai risposto. Perché è meglio che taccia». Ma almeno la sua musica le piace? «No».

Accetta invece di aggiornare il “Canone occidentale”. I ventisei eletti di quel capolavoro generazionale della saggistica oggi li cambierebbe? «Certo, potrei sostituirli con altri cinquanta, altri cento. Ma è inutile fare nomi adesso, sono quasi tutti morti». E un Canone contemporaneo quale potrebbe essere? «Mi limito agli americani: Cormac McCarthy con Meridiano di sangue, Il teatro di Sabbath di Philip Roth, Underworld di DeLillo e poi Pynchon con L’incanto del lotto 49 e Mason & Dixon».

Intanto, la musica classica veleggia ancora dal soggiorno. “Parigi, o cara, noi lasceremo”, atto terzo della Traviata di Verdi. Bloom ne ascolta molta più del solito, ora che non può andare all’università: «Ma presto starò meglio, a gennaio torno in cattedra», promette. Intanto, il suo regno temporaneo è diventato questa piccola anticamera tra il soggiorno e la cucina, con vista giardino. I muri bianchi, i quadri densi e scuri, l’intonaco consumato dietro la sua sedia. È uno spazio minimo e indiscreto.

A destra c’è un sottile divano letto su cui riposa una montagna incantata di libri, soprattutto edizioni inglesi Penguin: Cervantes, Blake, Spencer, Auden, Marlowe, Tolstoj, Shaw, Bellow, Lindsay, Shelley. Al centro un tavolo frastagliato: una pila di giornali e riviste (il New York Times, la London Review of Books, Harper’s), scatole di medicine, un computer portatile Mac, sciroppi, garze, un pulsossimetro da dito, un block notes, matite appuntite, due mele, una banana, pillole rosse e gialle. Seduto al tavolo c’è anche un omone nero, con camicia di jeans e cappellino da baseball blu.

I Bloom lo chiamano “Coffee”, caffè. Bada alla salute del grande intellettuale americano. Coffee tace, ma annota misteriosi appunti su un quaderno. Sigle incomprensibili.
«Venga più vicino, non ci sento bene», dice con respiro paterno Bloom mentre le sue parole fluttuano sugli occhi verdeacqua. La sua ultima opera in libreria si chiama Falstaff, dammi la vita. Falstaff, lo smargiasso pingue e irresistibile dell’Enrico IV di Shakespeare e, guarda caso, ultima opera di Verdi, che ancora echeggia dal soggiorno. Non è un caso.

Perché Bloom, nonostante tutto, non ha bloccato la sua inesauribile produzione letteraria. Di recente ha pianificato l’uscita di una collezione di cinque libretti sui suoi personaggi preferiti di Shakespeare. Il primo, già pubblicato, è Falstaff, per lui «l’immagine vera e perfetta della vita. Perché il suo spirito esuberante è l’umanità». «Poi a ottobre sarà il turno di Cleopatra Sono aria e fuoco», aggiunge, «ad aprile 2018 Lear La grande immagine dell’autorità e infine Iago e Macbeth».


Tutto questo perché, secondo Bloom, Shakespeare ha inventato l’umano. Non è solo la vita come palcoscenico, ma la letteratura che diventa vita, come il critico scriveva già in un suo vecchio libro: «Il Bardo è la tripla invenzione», dice. «Montaigne ha inventato un personaggio della letteratura, se stesso; Cervantes due, don Chisciotte e Sancho Panza; mentre Shakespeare decine».

Ma Bloom, la cui lucida follia per la letteratura è nata all’età di quattro anni, quando viveva nel Bronx e gli capitarono tra le mani Hart Crane e William Blake nonostante parlasse solo yiddish, sta lavorando anche a un’opera che lui stesso definisce gigantesca: «Si chiamerà, forse, Presenza. Ma è indescrivibile: una sorta di memoir, con le letture di una vita e i miei amici in letteratura. Lo faccio perché Oscar Wilde diceva che la critica è l’unica forma civile di autobiografia».

Già, gli amici. Bloom ne ha pochi. Molti erano poeti che non ci sono più. «Robert Penn Warren, Hart Crane, Mark Strand, James Merrill: mi hanno lasciato tutti. È rimasto solo John Ashbery, un grande poeta anche lui. Ma ha novant’anni oramai, e di salute sta messo male come me». Bloom non è religioso, o almeno non lo è più. Ma per lui almeno la letteratura ora sa essere anche preghiera, laica.

E così, quando l’afflizione è insopportabile, i versi e le pagine adorate da Bloom diventano salmi, espiazione, un mistico fiume di parole e speranza: «Sto male la notte. Mi sveglio e ho dolore. Allora cerco sempre conforto recitando Whitman, Shakespeare, ma anche Wallace Stevens, Yeats, García Lorca, Machado, Neruda, Lope de Vega, Calderón de la Barca, Cervantes». Sono la sua religione, professor Bloom? «Sì, ora è così. Ma forse il migliore di tutti è il Dottor Johnson. Con lui mi trovo meglio di tutti. A parte mia moglie, i miei figli e pochi amici, queste sono le persone che mi stanno più a cuore. Ma sono tutte morte ed è questo, a ottantasette anni, l’unico rimpianto della mia vita».

Harold Bloom e Jeanne Gould si sono incontrati nel 1958, all’università di Yale. Lei era studentessa, lui era al primo anno da professore con un corso tutto suo. «Da allora non ci siamo più lasciati», dice lei, e ritorna subito in cucina. Il fragore dei piatti nel lavello elettrizza La suite española di Isaac Albéniz, nuova colonna sonora dal soggiorno. Harold e Jeanne hanno due figli, grandi. «Sono interessati alla letteratura», dice Bloom, «ma non sono dei “professionisti”».

È riuscito a trasmettergli l’amore per la letteratura come fa con i suoi studenti? «No. Non credo», replica con disappunto, fissando il giardino fuori dalla finestra. Nel frattempo, da questa anticamera della coscienza, Bloom continua a fare lezione a un piccolo gruppo di studenti appassionati via Skype: «Non ce la faccio a stare senza di loro, non ce la faccio a stare senza l’università, non ce la faccio a non insegnare e trasmettere quello che so».

Bloom ha un unico desiderio adesso. Anzi una certezza: «L’anno prossimo sarò di nuovo a Yale. Ce la farò. Perché sono soprattutto un insegnante, non un critico. È la mia professione, la mia vocazione. Insieme alla letteratura, è l’unico senso della mia vita. Non ho altri interessi. Nessuno. Se proprio devo morire, preferirei accadesse all’università mentre insegno. E sì, uscire di scena in un sacco nero, dall’aula, dal mondo, dal mio mondo». 

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