Bruno Giurato per Linkiesta
Un paradosso che dice tutto: un libro che entra nell'immaginazione comune per una cosa che non ha detto. A cui tutti, dalla vulgata giornalistica in poi, attribuiscono una morale che nel testo non c’è. La famosa frase: “bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com’è”, da cui nascono i vari "gattoperdesco", "gattoperdismo", "gattopardi", è l'esatto contrario di quanto mosta (e dimostra) il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, di cui si celebrano i 60 anni dalla scomparsa.
Il gattopardo non esprime nessuna continuità e nessuna sopravvivenza dei vecchi. Anzi dalla prima all’ultima pagina è il racconto di una decadenza e di una fine di un mondo. La frase famosa viene continuamente smentita: nel libro niente rimane com’è, tutto invece decade e finisce come il cane Bendicò, prima imbalsamato e poi buttato via: “in un mucchietto di polvere livida”.
Il gattopardo non esprime nessuna continuità e nessuna sopravvivenza dei vecchi. Anzi dalla prima all’ultima pagina è il racconto di una decadenza e di una fine di un mondo. La frase famosa viene continuamente smentita: nel libro niente rimane com’è, tutto invece decade e finisce come il cane Bendicò, prima imbalsamato e poi buttato via: “in un mucchietto di polvere livida”.
L’altro aspetto originale del libro è che a raccontare questa decadenza di una classe sociale sia un autore che appartiene alla medesima classe sociale, attraverso un personaggio anche lui interno a quel mondo. Il Gattopardo è l’autofiction di una morte, individuale e sociale. Altro che romanzo del “tutto rimanga com’è”.
Un romanzo sulla decadenza della nobiltà, e sulla morte, raccontato da un nobile. Ma cos’è la nobiltà? Secondo lo stesso Lampedusa è il “miglior sistema inventato dall’uomo per avvicinarsi all’immortalità fisica”: un nobile è l’unto di una tradizione culturale che vuole farsi naturale: porta nel nome, nel casato, nei tratti del viso, nella galleria dei ritratti degli antenati, negli usi di famiglia, lo stigma di una continuità che si vorrebbe durasse da sempre e per sempre. Qualsiasi ripetizione -ovvio- è una rivalsa contro il “devouring time”. Dalle rime di una lirica al giro di frase di un proverbio, dall’oscillazione di un ritmo di tamburo alla ritualità della festa. Tutti modi per perpetuare un contenuto. Spesso sono modi anonimi. Solo nella nobiltà il “da sempre e per sempre” assume i connotati fisici di una persona. Il nobile in un certo senso è un dio, la sua fine raccontata in forma di autobiografia è un documento fuori dal comune.
La grandezza del Gattopardo, e di chi l’ha scritto, sarebbe tutta qui se non ci fossero mille cementiere di immondizia e incomprensioni da rimuovere.
Una bella frase di Kant nella Critica del Giudizio: le “idee estetiche”, cioè le opere d’arte, sono “quelle rappresentazioni dell’immaginazione che danno occasione di pensare molto senza che però un qualunque pensiero o concetto possa esser loro adeguato”. La grande opera stimola l’interpretazione infinita, quella fallita ci lascia con dei monconi di pensiero.
Ora, a dare uno sguardo alla bibliografia sul Gattopardo ci si fa l’idea di un’opera non riuscita. Alla pubblicazione del romanzo, nel 1958, il “caso Gattopardo” ha tenuto banco tra i critici letterari italiani. Centinaia gli interventi d’occasione sulle pagine dei quotidiani e delle riviste, a volte intelligenti, altre meno, ma analisi lunghe, esempi di ‘molto pensare’ ce ne sono pochissimi. Ad oggi gli unici libri di rilievo su Lampedusa ed il suo romanzo sono quello di Giuseppe Paolo Samonà (“Il Gattopardo, i racconti, Lampedusa”, La nuova Italia, 1974) e quello di Francesco Orlando (L’intimità e la storia, lettura del Gattopardo, Einaudi, 1998). Qui casi sono due: o il Gattopardo è un cattivo romanzo, o la critica letteraria italiana, spesso così zelante nel dare giudizi di valore, ha dato nel complesso una misera prova quando si trattava semplicemente di leggere un libro importante. Siamo per la seconda ipotesi.
Una bella frase di Kant nella Critica del Giudizio: le “idee estetiche”, cioè le opere d’arte, sono “quelle rappresentazioni dell’immaginazione che danno occasione di pensare molto senza che però un qualunque pensiero o concetto possa esser loro adeguato”. La grande opera stimola l’interpretazione infinita, quella fallita ci lascia con dei monconi di pensiero.
Ora, a dare uno sguardo alla bibliografia sul Gattopardo ci si fa l’idea di un’opera non riuscita. Alla pubblicazione del romanzo, nel 1958, il “caso Gattopardo” ha tenuto banco tra i critici letterari italiani. Centinaia gli interventi d’occasione sulle pagine dei quotidiani e delle riviste, a volte intelligenti, altre meno, ma analisi lunghe, esempi di ‘molto pensare’ ce ne sono pochissimi. Ad oggi gli unici libri di rilievo su Lampedusa ed il suo romanzo sono quello di Giuseppe Paolo Samonà (“Il Gattopardo, i racconti, Lampedusa”, La nuova Italia, 1974) e quello di Francesco Orlando (L’intimità e la storia, lettura del Gattopardo, Einaudi, 1998). Qui casi sono due: o il Gattopardo è un cattivo romanzo, o la critica letteraria italiana, spesso così zelante nel dare giudizi di valore, ha dato nel complesso una misera prova quando si trattava semplicemente di leggere un libro importante. Siamo per la seconda ipotesi.
E perché i critici italiani, salvo pochissime eccezioni non hanno capito il libro? Perché il tessuto stilistico e narrativo del Gattopardo è fatto di dissimulazione e di umorismo molto più di quanto comunemente si creda, caratteristiche formali che la critica italiana ha sempre digerito male.
Le parti che sembrano dichiarazioni d’autore vengono sempre contraddette dai fatti, in una trama in cui il non-detto ha un’importanza essenziale. Per leggere il romanzo ci vuole molta attenzione al testo. E magari alla biografia dell’autore: non come “causa” e verità del testo, piuttosto come romanzo parallelo. Il Gattopardo è una sorta di reazione chimica implosiva tra reticenza meridionale e umorismo e understatement inglese.
Le parti che sembrano dichiarazioni d’autore vengono sempre contraddette dai fatti, in una trama in cui il non-detto ha un’importanza essenziale. Per leggere il romanzo ci vuole molta attenzione al testo. E magari alla biografia dell’autore: non come “causa” e verità del testo, piuttosto come romanzo parallelo. Il Gattopardo è una sorta di reazione chimica implosiva tra reticenza meridionale e umorismo e understatement inglese.
Tra l'altro Giuseppe Tomasi di Lampedusa, con la cultura italiana aveva poco a che vedere, la considerava troppo astratta e accademica. Non sopportava l’opera (“l’urlo di amore e d’odio si incontra solo nell’opera e presso la gente più incolta, che sono poi la stessa cosa”), detestava giganti delle patrie lettere come Carducci (“Guglielmo dall’ardua fronte serena, dice di Shakespeare. E’ la sua mille e unesima fesseria”), mal soffriva Ariosto (“uno dei non pochi difetti del Furioso è l’assoluta ignoranza di Ariosto del problema temporale: non si sa se l’azione si prolunghi per un pomeriggio o per venti anni”).
Per Lampedusa delizia storica essenziale sono gli scrittori minori: i “fornitori di spirito” di un’epoca (“Per conto mio, pazienza, cattivo gusto e stomaco forte aiutanti ho letto molta di questa roba...Sgrammaticati, illogici, isterici, ignoranti, fatui, snob...essi sono il ritratto di Demos, nostro signore e padrone. Occorre conoscerli”). Uno dei peccati originali della letteratura italiana è proprio la mancanza di minori leggibili (“La letteratura italiana è come un grande palazzo in cui vi sia soltanto un quadro di Raffaello... tre vasi cinesi e due maioliche. Senza una tavola, senza una sedia, senza un armadio. Inabitabile...Se dovete compiere un viaggio di sei ore in treno Marryat o Ainsworth vi saranno piacevoli compagni. Mentre se avrete in tasca la Teresa Strozzi di Rosini vi ritroveranno impiccati al portabagagli”).
Per Lampedusa delizia storica essenziale sono gli scrittori minori: i “fornitori di spirito” di un’epoca (“Per conto mio, pazienza, cattivo gusto e stomaco forte aiutanti ho letto molta di questa roba...Sgrammaticati, illogici, isterici, ignoranti, fatui, snob...essi sono il ritratto di Demos, nostro signore e padrone. Occorre conoscerli”). Uno dei peccati originali della letteratura italiana è proprio la mancanza di minori leggibili (“La letteratura italiana è come un grande palazzo in cui vi sia soltanto un quadro di Raffaello... tre vasi cinesi e due maioliche. Senza una tavola, senza una sedia, senza un armadio. Inabitabile...Se dovete compiere un viaggio di sei ore in treno Marryat o Ainsworth vi saranno piacevoli compagni. Mentre se avrete in tasca la Teresa Strozzi di Rosini vi ritroveranno impiccati al portabagagli”).
Il fatto è che questo nobile dell’arte aveva un concetto per nulla sacrale. Per lui il sublime è un incidente di percorso, non una missione o un programma. Il Gattopardo è figlio non del conato verso l’assoluto, ma del gusto manovalesco per la letteratura. Il cugino Lucio Piccolo aveva ottenuto riconoscimenti con le sue poesie. Così Lampedusa: “avendo la matematica certezza di non essere più fesso di lui mi sono seduto al tavolino e ho scritto un romanzo”. Eppure i capolavori nascono anche così: chiedete ai rapsodi greci, ai guitti del teatro elisabettiano, agli ex galeotti spagnoli. Chiedete a quel galoppino londinese che a ventidue anni scrisse i Pickwick Papers un boccone a settimana, per pagarsi la pagnotta.
Nato a Palermo nel 1896, cresciuto in buona parte all’estero, sposato con la baronessa lettone Alessandra Wolff Stommersee, Lampedusa aveva letto in originale e per sport praticamente tutta la letteratura europea (Francesco Orlando parla di “pacato dominio di tre o quattro letterature”). Quando il cugino Lucio Piccolo, scoperto poeta da Montale, andò ad una riunione di letterati a San Pellegrino, Lampedusa lo accompagnò, ed ebbe l’occasione di conversare con i “marescialli”. “Adesso sono matematicamente sicuro di essere il solo in Italia ad aver letto Martin Tupper. Cecchi e Montale lo ignorano, sia detto a loro lode”. I cugini Piccolo celiavano sul suo aver letto tutti i libri: chiamavano Giuseppe “il Mostro”
La testimonianza la si trova nella Letteratura inglese e nella Letteratura franceseche Lampedusa scrisse per un ciclo di lezioni al diciottenne Francesco Orlando. Milletrecento pagine fitte, nell’edizione Meridiani Mondadori delle opere complete di Lampedusa, che si leggono, come si dice, in un soffio, piene di umorismo, cattiverie gratuite, idiosincrasie, entusiasmi. Lampedusa racconta Stendhal e Keats, Racine e Blake, Shakespeare (i Sonnets quasi uno per uno), ma anche Eliot e Joyce, Virgina Woolf. Si diverte assai con i diari di Samuel Pepys, e con l'inquietante risata metafisica che è il Pickwick.
Ed è nella letteratura inglese che si trovano i primi antecedenti al Gattopardo. Il paragone sempre tirato in ballo tra il Gattopardo e Stendhal è più esteriore che sostanziale. Ha ragione il figlio adottivo di Lampedusa, Gioacchino Lanza Tomasi quando scrive: “Dickens più di Stendhal è il vero biglietto d’accesso per chi voglia comprendere il fenomeno Lampedusa”. Tre titoli per leggere il Gattopardo: Il circolo Pickwick per l’umorismo, Amleto per il senso di finitezza, Misura per misura per l’ambiguità etica. Ne aggiungiamo un quarto: Gli Anni della Woolf per la struttura ‘a salti’.
E torniamo a bomba. Dell’umorismo –nero- del Gattopardo qualcosa abbiamo già detto sopra. “Bisogna che tutto cambi se vogliamo che tutto rimanga com’è” dice Tancredi, disinvolto e pieno di charme all’inizio del libro. Falso: tutto crollerà, persino la memoria del prestigio familiare. Con tanti amari sberleffi: nella parte ottava del libro, quella che si svolge dopo la morte di Don Fabrizio, notiamo il nipote dei Salina “rabbiosi e superbi”, Fabrizietto, sfilare per le celebrazioni dello sbarco dei Mille davanti ad un cartello con tanto di scritta “Salina” a “lettere di scatola”. Ma gli omina finis nel Gattopardo si nascondono ovunque, e i più efficaci sono proprio quelli che saltano meno all’occhio, come la scena quasi comica in cui Don Fabrizio annuncia a Stelluccia il matrimonio ‘ignobile’ che unirà i Salina ai Sedara.
Perfino la struttura del romanzo è fatta di non detto. Rubiamo una considerazione a Gabriele Pedullà: “Corriamo dall’analessi alla prolessi, mentre ai fatti principali [lo sbarco dei Mille, il matrimonio di Angelica e Tancredi, eccetera..], che avrebbero attirato l’attenzione del romanziere tradizionale sono riservate le pagine bianche che separano un capitolo da quello che lo segue o lo precede”.
Al centro di tutta questa dialettica irrisolta, spaesante, irritante, c’è naturalmente Don Fabrizio Salina. Come nota Francesco Orlando si tratta di un personaggio “intellettuale”, un “critico”, un insoddisfatto della realtà; ma da Edipo ad Amleto, fino al Bazarov di Tugenev, l’intellettuale è tradizionalmente un figlio, mentre Don Fabrizio è un padre, anzi di più: un pater familias nobile, custode delle tradizioni e della memoria di un casato. Intellettuale e padre: come dire progressista e conservatore, sognatore dell’età dell’oro e cosciente della finitezza, “cipiglio zeusiano” e uomo senza qualità.
Il principe-astronomo cerca consolazione nelle stelle, docili al calcolo, paradigma di conoscibilità del mondo. Ma una sera “invece di vederle atteggiarsi nei loro usati disegni, ogni volta che alzava gli occhi scorgeva lassù un unico diagramma: due stelle sopra, gli occhi; una sotto, la punta del mento; lo schema beffardo di un volto triangolare che la sua anima proiettava nelle costellazioni quando era sconvolta”. Altro che lirismo di cui vanno dicendo alcuni critici: qui c’è il cosmo che si ribella, il ‘rimpicciolimento’ progressivo di un protagonista sempre più affannato, la caduta di un mondo. Il libro è la narrazione analitica di una morte e di una decadenza riflesse nel protagonista.
C’è bisogno di Don Fabrizio della sua angoscia per tendere i fili alla macchina narrativa, per dispiegare il racconto umoristico ed ellittico: la sua sofferenza accettata, il suo “corteggiamento della morte” sono la struttura portante del libro.
Non a caso l’atto finale del romanzo è un atto simbolico di rifiuto dell'angoscia. Così Concetta, dopo la morte di Don Fabrizio, nell’ultima parte: “Continuò a non sentire niente...soltanto dal mucchietto di pelliccia [il cane Bendicò, impagliato dopo la morte] esalava una nebbia di malessere...financo il povero Bendicò insinuava ricordi amari. Suonò il campanello. ‘Annetta’ disse ‘questo cane è diventato veramente troppo tarlato e polveroso, portatelo via, buttatelo’”.
Non a caso l’atto finale del romanzo è un atto simbolico di rifiuto dell'angoscia. Così Concetta, dopo la morte di Don Fabrizio, nell’ultima parte: “Continuò a non sentire niente...soltanto dal mucchietto di pelliccia [il cane Bendicò, impagliato dopo la morte] esalava una nebbia di malessere...financo il povero Bendicò insinuava ricordi amari. Suonò il campanello. ‘Annetta’ disse ‘questo cane è diventato veramente troppo tarlato e polveroso, portatelo via, buttatelo’”.
La figlia che non vuole sapere nulla della morte, che immagina un oltretomba “completo di magistratura, cuochi, conventi e orologiai” distrugge la possibilità di rappresentare. L’esperire si appiattisce sulle cose. Il libro, né più né meno, collassa su se stesso, crolla. Il Gattopardo è una narrazione/ossidazione, che finisce “in un mucchietto di polvere livida”. Tutto non rimane com’è. Tutto finisce.
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