Michela Tamburrino per La Stampa
Peter Greenaway mette i piedi in un mare di lacrime, reminiscenze ancestrali, richiami al ventre materno, continua lotta tra il bene e il male dove speranza e finale salvifico si allontanano e si avvicinano, separati da stanze di dolore. È la performance che apre, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, un' opera mastodontica fortemente voluta da Carla Fendi, scomparsa in questi giorni, per la Fondazione che porta il suo nome e che a Spoleto trova l' esemplificazione più alta del termine mecenatismo.
«Genesi e Apocalisse / L' inizio e il compimento», opera di Sandro Chia (Genesi) e di Suskia Boddeke e di suo marito, Peter Greenaway, per quanto riguarda l' Apocalisse, progetto e regia di Quirino Conti con le voci narranti rispettivamente di Erri De Luca e di Massimo Cacciari. Dunque, all' ex Museo Civico di Spoleto si entra in una stalla allagata di pianto, lacrime salate di dolore dove i quattro cavalieri degli squilibri hanno messo a riposo i loro cavalli-speranze, (Horse e Hope) giocando così con l' assonanza dei nomi in inglese. La salvezza che viene dal mare, i profughi, il Dio che usa parole di Donald Trump e la rinascita affidata ai bambini. L' inizio del tutto e la sua fine, il libro dei libri in ebraico e in aramaico.
Greenaway, lei pittore, sceneggiatore, regista, considerato uno dei più significativi cineasti contemporanei, perché ha pensato a questa performance?
«L' idea è stata di mia moglie Saskia. Quando ha visto questo luogo sotterraneo che assomigliava a una prigione dell' anima, e che in origine era l' armeria di Lucrezia Borgia, ha ritenuto di poter simboleggiare l' Apocalisse mettendo in scena una scuderia metaforica, evocando finimenti, selle, cavalieri, la valle di lacrime e le carestie, Dio che si nasconde in una tana e il cavaliere della morte. Una performance familiare perché nel video della speranza c' è nostra figlia Pip».
Che cosa l' ha influenzata oltre al luogo?
«A 17 anni avevo visto Il settimo sigillo di Bergman con i Cavalieri dell' Apocalisse che mi aveva molto colpito e mi sono lasciato andare a questa suggestione. Abbiamo ricostruito lo spazio in modo tridimensionale, al computer».
C' entra più la sensibilità del regista o quella del pittore?
«Il regista è un artista e io ho realizzato che il cinema non è abbastanza per un artista.
Dagli anni Novanta faccio installazioni che esprimono meglio il mio credo. Cerco di lavorare facendo in modo che i miei film abbraccino la gente. Il cinema va molto velocemente, è visione, è suono eppure è superato persino quando lo vedi al telefonino. Il cinema sta morendo».
Così catastrofico? La tv va meglio?
«Quando mia figlia è andata ad abitare da sola le abbiamo chiesto: "Dove vuoi mettere la tv?" e lei: "La tv è antica, non la voglio". La verità è che la gente ha perso la capacità di attendere. Tutto va velocissimo, nessuno sa più guardare le immagini, bisognerebbe recuperare la lentezza dell' occhio».
Meglio il teatro?
«Il teatro è un' occupazione minore. Difficile essere nella sospensione della realtà, nella sospensione del credere. Sai che quello che stai vedendo non potrà mai succedere ma ti persuadi che succederà. Lì, seduto in poltrona, neghi la tua intelligenza».
Ma il cinema non è uguale?
«Il cinema è molto più illusionista, ti fa credere a quello che ti fa vedere con più realismo. L' installazione finalmente ti lega alla realtà, l' illusione è totale, hai l' umidità, senti l' acqua, tocchi gli oggetti, tutto collabora a creare la tua immaginazione, tutti i sensi sono coinvolti. Io non so quale sarà il futuro del linguaggio e della comunicazione. Di certo so che bisogna esplorare, trovare quello che potrà essere. Che poi è il bello ed è quello che ho fatto per tutta la vita».
I giovani sono più avvantaggiati.
«Quelli di Silicon Valley conoscono tutti i trucchetti tecnologici ed è verso quello che ci si sta orientando. Il cinema che veniva dal varietà andrebbe riportato appunto alle sue origini. Negli ultimi anni ho fatto il vee-jay e adesso voglio inserire i video giochi nel cinema».
Che cosa significa?
«Ho visto la gente ballare per strada, un video con diecimila persone in Brasile. Erano coinvolti direttamente e non seduti su una sedia a guardare in modo passivo l' irraltà. Il cinema non è come viviamo noi e non dovrebbe mai essere narrativo ma rappresentativo; lo storytelling non esiste».
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