domenica 16 luglio 2017

Cubo di Rubik

Marco Imarisio per il Corriere della Sera

L'uomo è enigmatico come la sua invenzione. Al secondo piano dei Docks di Aubervilliers, Christine, la sua assistente inglese, apre la porta di un salone sobrio e discreto, insomma vuoto, e mette le mani avanti: «Il professore non ama gli ambienti arredati, sostiene che sono una distrazione». Il tempo dell' intervista è contingentato. Erno Rubik è una delle persone più famose del mondo, ma per via indiretta. Non parla quasi mai, schiva i media in ogni modo possibile.

Se entrasse in un vagone della metropolitana, nessuno riconoscerebbe quel distinto signore di 71 anni, dai capelli bianchi, gli occhi limpidi, lo sguardo distaccato e giusto un filo di pancetta a tradire una forma altrimenti ottima. «Ma se in quello stesso vagone della metro un ragazzo tirasse fuori il mio cubo, gli altri passeggeri solleverebbero la testa dai loro telefonini per guardarlo, cercando di capire se ce la fa a risolverlo. In fondo il segreto è questo. Tutto quel che riguarda la mente e il suo funzionamento affascina e ipnotizza». A volerlo cercare, c' è anche un anniversario. Era il 13 luglio 1977. In un negozio del centro di Budapest, nella Ungheria che era ancora Oltrecortina, appare per la prima volta Buvos Kocka, prodotto dalla Politechnika, azienda di Stato come tutte le altre, un oggetto che ben presto sarà ribattezzato Magic cube. «Era lui, magari in una versione più rozza di quelle seguenti.

Nell' autunno del 1974 facevo il professore di architettura all' Accademia delle Arti. Cercavo un modo per dimostrare i movimenti tridimensionali ai miei studenti. Una sera, ricordo che pioveva, mi ritrovai sulla riva del Danubio, a guardare come l' acqua si muoveva intorno ai sassolini. L' ispirazione per il movimento di torsione del cubo mi venne in quel momento. Mi chiusi nell' appartamento di mia madre per tre settimane. Per il prototipo usai legno, elastici e pezzetti di carta. Ma per dare un senso alle rotazioni del cubo, avevo bisogno di un' idea forte. E scelsi i colori primari» .

Il cubo di Rubik è il giocattolo più venduto del mondo, quasi un miliardo di esemplari senza contare le contraffazioni. In Italia è forse l' oggetto definitivo degli anni Ottanta, uno dei pochi simboli sopravvissuti a quella decade e ancora in ottima salute. Ma quanta fatica, per far raccontare al suo inventore come ebbe l' idea, come andò all' inizio. Il professor Erno è diventato uno degli uomini più ricchi d' Europa grazie al cubo, ma ha un rapporto complicato con la sua creazione, come se quel successo così enorme gli avesse segnato la strada e tolto ogni altra possibile aspirazione, mettendo fine alla sua carriera di artista e inventore.

«Ci vollero tre anni per farlo uscire dall' Ungheria. Un mio amico commerciante riuscì a venderlo in Francia e Inghilterra. Poi, nel 1982, vennero gli altri Paesi, compresa l' Italia. La prima volta che mi chiamarono negli Usa per un congresso, sulla targhetta davanti al mio posto c' era scritto Rubik Cube. Non sono geloso del cubo. Certo, mi stanco a fare da testimonial rispondendo sempre alle stesse domande. In quanto tempo riesce a risolverlo? Quante combinazioni aveva previsto? Si aspettava che durasse così tanto?

Per me è come se fosse uno dei miei figli. Ho cercato di seguirlo, mi sono impegnato perché avesse successo. Ma ormai io e lui abbiamo vite diverse» . Al pianterreno è appena cominciata la terza giornata dei campionati mondiali del cubo di Rubik, nona edizione, la prima a Parigi, 1.110 partecipanti. Sul palco al centro di una sala enorme e affollata, i contendenti si sfidano seduti a tavolini sui quali campeggia un cronometro. Come per gli scacchi. «Ci sono delle similitudini evidenti tra i due giochi.

Risolvere il cubo non è questione di destrezza, ma di forza mentale. Mi interessa l' esplorazione delle potenzialità umane, saperle riconoscerle e infine realizzarle. Credo che sia una buona definizione del concetto di futuro». La prosa può sembrare ardita, in effetti lo è. Quando decide di parlare, il taciturno Erno Rubik parla da filosofo, perché si considera tale. «Cerco di volare alto senza mai perdere di vista la terra. Mi piace usare il cervello, chiedermi il perché di ogni cosa. Anche il cubo è nato così».

A Budapest lo considerano una Greta Garbo moderna, per via della riservatezza maniacale, della vita ritirata nella sua villa sul lago Balaton, dove insieme alla moglie riceve soltanto la visita delle quattro figlie e colleziona i tentativi di imitazione delle sue invenzioni, che sono tutte dirette discendenti del cubo o a lui ispirate. I suoi connazionali guardano il professor Erno da lontano, senza nemmeno sapere a quanto ammonta il suo ingente patrimonio. «Non sono mai andato via perché le radici sono importanti. Ci sono alcune cose che mi piacciono del mio Paese. Le tradizioni, la natura.

Altre mi piacciono molto meno». Il sorriso che accompagna l' ultima frase è definitivo, non bisogna fare altre domande sul tema. Al tempo di Orbán la politica è tabù anche per l' ungherese più celebre del mondo. «Guardi che si sbaglia. Non sono io a essere famoso, ma il cubo che porta il mio nome». A proposito professore, abbia pazienza: lei quanto ci mette a risolverlo? Rubik, l' uomo, risponde con un sorriso di commiserazione, alzando gli occhi al cielo. «È da tanto tempo che non lo faccio più».

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