sabato 29 luglio 2017

Enzo Bettiza

ALDO CAZZULLO PER IL "CORRIERE DELLA SERA"

Enzo Bettiza ha sotto gli occhi le bozze dell'ultimo libro, in uscita oggi per Mondadori, che chiude una trilogia. Prima il 1956 ungherese. Poi il «vero Sessantotto », quello di Praga. E ora 1989. La fine del Novecento (pp. 161, e 18). «Un anno formidabile. A Berlino crolla quel Muro che Stalin non avrebbe mai edificato, e travolge sotto le sue macerie l'Unione Sovietica. In Romania finisce nel sangue la tragedia dei Ceausescu, marito e moglie. La Jugoslavia comincia a sfasciarsi, la Germania si riunisce. Il mondo è sottosopra. Due soli Paesi non hanno mai conosciuto l'Ottantanove: la Cina di Deng, e l'Italia del Pci».

Per quale motivo, Bettiza? L'89 è anche l'anno di Tienanmen e, più modestamente, della svolta di Occhetto.
«Il vero '89 cinese è di tredici anni prima. La Cina è il primo Paese a uscire già nel 1976 dal comunismo assoluto, con la morte di Mao e l'ennesima resurrezione di DengTienanmen fu una strana e per molti aspetti ambigua ribellione, un drammatico incidente di percorso, provocato da studenti idealisti ma inquinato da teppisti ed epigoni più o meno consapevoli delle guardie rosse».

Il suo è un giudizio duro. Quella protesta fu stroncata nel sangue, tra le proteste dell'Occidente.
«L'Occidente condannò l'eccidio, anche se appariva come una goccia nell'oceano di massacri subiti dai cinesi nel Novecento, e fu una condanna doverosa e giusta. Deng esitò a lungo prima di muovere l'esercito, e questo fece crescere la rivolta sino al punto di non ritorno. Poi le grandi riforme continuarono. E i lamenti più alti furono quelli degli orfani e in particolare delle vedove del maoismo, che vedevano nelle riforme un male e nella Tienanmen quasi una seconda Rivoluzione culturale in chiave iperdemocratica».

Vedove?
«Rossana Rossanda la più intelligente, Enrica Colletti Pischel la più fanatica, Renata Pisu la più indignata, Maria Antonietta Macciocchi la più ingenua. Da anni andavo invece scrivendo che il vero modernizzatore del comunismo postmaoista era stato Deng. E conservo tre telegrammi di felicitazioni giunti da New York e firmati Oriana Fallaci».

E in Italia?
«Il Pci, finalmente libero dai condizionamenti, avrebbe potuto precedere Mosca. Invece, come sempre, la inseguì. Il risultato fu che gli amendoliani della destra comunista piansero su Bettino Craxi, a ragione, dopo che la vendicativa maggioranza berlingueriana lo aveva distrutto alleandosi con i giudici. Ma così hanno creato Berlusconi».

Craxi preparava davvero l'unità delle sinistre, anche negli anni dell'alleanza con la Dc?
«Sì, ne sono certo. La Dc era per lui l'espediente tattico. Una sinistra unita e socialdemocratica era l'ambizioso disegno strategico della sua vita».
Nel libro è raccontato l'ultimo viaggio di Giancarlo Pajetta a Mosca, nella delegazione dell'Europarlamento guidata da lei.
«In quei giorni crepuscolari Pajetta era nervosissimo. La sera in albergo si metteva a litigare in russo con portieri e camerieri: "Tra poco, per arrangiarvi, venderete al museo delle cere di New York pure la mummia di Lenin!". Poi, nella sala di presidenza del Soviet supremo, al cospetto del presidente Lukianov, di Zagladin e dell'intera nomenklatura gorbacioviana, Pajetta ruppe il protocollo: afferrò di prepotenza il microfono e cominciò una lunghissima concione in cui rinfacciò ai nostri ospiti sette decenni di inutili inganni, dalla morte di Bukharin in poi. I russi erano allibiti».

E Ceausescu, che lei intervistò tre volte?
«Aveva fama di eretico, ma era diversissimo da Tito. Era il più staliniano dei tiranni comunisti balcanici. Umili origini. Ferocia da impalatore. In sintonia con le radici della sua terra, l'Oltenia, landa di foreste oscure e di atrocità ottomane ».

Il suo giudizio su John Kennedy è negativo.
«Krusciov lo giocò clamorosamente, a Berlino e alla Baia dei Porci. Poi volle stravincere, e sui missili a Cuba Kennedy ebbe il polso di fermarlo. Ma quell'irlandese elegante e sorridente resta un prodotto artificiale dei laboratori elettoralistici americani».

Pare la descrizione di Obama.
«Infatti. Ma anche Ronald Reagan era un'invenzione da laboratorio hollywoodiano, e si rivelò un buon presidente. Speriamo che il giovane Barack assomigli almeno un poco a Reagan e non soltanto e troppo a Kennedy».

Lei ha invece un'ottima opinione di Eltsin.
«Boris Nikolaievic è sottovalutato. In realtà, è un gigante del Novecento. Ci voleva un essere biologicamente anomalo, eccessivo, forte bevitore, molto carnale, più adatto a distruggere che a costruire, per abbattere il corpaccione del comunismo sovietico».

Non fu Wojtyla, non fu Reagan?
«Ma no. Il comunismo è morto di comunismo. Il moloch ha divorato se stesso ».

Montanelli nei «Diari» scrive che lei l'aveva previsto sin dal ‘66. Però in altre pagine mette in dubbio la sua lealtà, ai tempi del «Giornale». Ad esempio scrive: «Frane Barbieri se n'è andato e Bettiza non mi ha detto nulla». Che cos'era accaduto tra lei e Montanelli?
«In effetti fui io a spalleggiare l'amico Frane, che avevo ingaggiato a Belgrado, ad andare alla 'Stampa'. Tra Indro e me si profilava da qualche tempo una rottura che doveva diventare irreparabile. Rottura politica, e di gestione. Nei lunghi giorni del ricovero di Indro, ferito dai brigatisti, la responsabilità della conduzione politica del 'Giornale' cadde su di me, e io, sostenuto da Frane e da Francesco Damato, accentuai la linea lib-lab favorevole all'incontro tra i liberali e Craxi; ma, al ritorno dalla clinica, Indro virò invece verso l'anticraxismo di De MitaSpadolini La Malfa.
Non tenne conto che in veste di cofondatore e condirettore avevo operato per anni al suo fianco. Quando fui eletto senatore, colleghi e amministratori malevoli spinsero Indro ad allontanarsi da me. Lui affidò parte dei miei compiti a uomini come Gian Galeazzo Biazzi Vergani: quattro nomi; tutti inutili. Tra l'altro, lo tradì schierandosi con Berlusconi».

E lei?
«Io non tradii Montanelli: lo affrontai a viso aperto e gli sbattei la porta in faccia. Il nostro dissenso politico, con le lettere personali che lo accompagnavano, finì sui giornali. Lo stesso Indro salutò la mia precipitosa uscita dal 'Giornale', dopo un decennio dalla fondazione, con un articolo cavalleresco e accorato. Anni dopo, molto dopo, ci siamo riconciliati e abbiamo riconosciuto che quella brusca separazione era stata anche umanamente dannosa per ambedue».

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