domenica 2 luglio 2017

All'origine

All’inizio Un viaggio di 13.820 milioni di anni

Il fisico Jim Baggott affronta la storia delle origini in un volume che ha l’ambizione, su solide basi scientifiche, della teogonia di Esiodo e della cosmologia di Lucrezio. Ecco (più o meno) da dove veniamo...

L’universo e le stelle, la vita e il genere Homo e la coscienza del genere Homo (e, forse, la fine del genere Homo). Alcuni libri, usciti in questi giorni, si possono leggere come un unico filo rosso: una meravigliosa avventura, in gran parte ancora da scoprire, dal Big Bang ai giorni nostri, fino all’immaginazione del futuro. Ma quale futuro? Ne parliamo in queste prime sei pagine
Nella Teogonia di Esiodo (VIII-VII secolo a.C.), «in principio fu Caos»: dove Caos è alla lettera il «vuoto» (la «voragine»), ma anche la «nebulosità informe» preesistente al generarsi degli dèi e del mondo: la notte e il giorno, la Terra e gli Inferi. Qualche secolo più tardi, eleggendo proprio Esiodo a modello, Lucrezio espande quella «genesi», nel De rerum natura, in un «poema sinfonico» cosmologico, configurando un universo dinamico e drammatico, in cui — eliminato ogni residuo trascendente — gli elementi si delineano da una lentissima, remota scrematura della materia. Non solo: in coerenza con la prospettiva naturalistico-materialistica della dottrina epicurea (suo faro filosofico), Lucrezio va molto oltre, indagando diverse altre «origini»: la vita sulla Terra, la comparsa dell’uomo, l’emersione delle «funzioni superiori» della mente, secondo una prospettiva che oggi unirebbe molti ambiti del pensiero scientifico. Ora un libro- monstre del fisico inglese Jim Baggott,
Origini (Adelphi, magnifica traduzione di Isabella C. Blum), sembra muoversi, più o meno consciamente, in quel solco. L’irraggiungibile modello lucreziano, va da sé, è più che altro un riferimento di merito e metodo (e del resto Baggott bilancia la «volontà di potenza» del suo
tour de force con un registro spesso ironico-disincantato). Ma il percorso che propone — una storia materiale dell’universo dal Big Bang ai correlati neurali della consapevolezza in Homo sapiens — è di portata e ambizione inedite, tanto da condurlo, sull’esempio di Lucrezio, ben oltre i propri domini abituali (la fisica, specie quantistica) verso molte altre aree: astrobiologia e astrochimica, biofisica e biologia (evoluzionistica e molecolare), geologia e paleontologia, genetica e neuroscienze. E va detto che l’esito — nonostante qualche défaillance, specie nella parte finale — è oggettivamente ammirevole.
Il percorso (in tutto dodici «origini») è diviso in due parti simmetriche di sei capitoli l’una. La prima («cosmologica») conduce dalla «grande esplosione» iniziale allo
strutturarsi del sistema solare, passando per la genesi della massa, della luce, delle prime formazioni astronomiche (galassie e stelle) e della «complessità» chimica interstellare. La seconda (biochimico-biologica) copre invece il tratto esteso dalle «origini» di una Terra abitabile a quelle della coscienza umana, passando per quelle della vita organica, delle cellule complesse (e degli organismi pluricellulari), delle specie animali e del genere Homo.
In questa prospettiva di continuità «narrativa» (modulata sull’estendersi della materia come una successione in cui — di nuovo Lucrezio — «nulla nasce dal nulla»), le «origini» sembrano sfumare in «passaggi»: anche se — specie in ottica umana — passaggi decisivi.
E passaggi — almeno da un certo punto in poi — tutt’altro che scontati. Baggott è infatti disposto a riconoscere l’incidenza dei vincoli fisico-chimici e dell’«imperativo cosmico» (formula del Nobel per la chimica de Duve) più o meno fino all’origine della vita: da lì, in accordo con Stephen J. Gould, crede invece che i sentieri si biforchino (che ci siano delle sliding doors evolutive), come mostrano le «discontinuità» che puntellano quella continuità. Esempi eclatanti, due estinzioni massicce: la Grande Moria del Permiano (252 milioni di anni fa, con la perdita del 95% della fauna marina) e quella ancora più nota del Cretaceo (66 milioni di anni fa), quando un meteorite determina l’estinzione dei dinosauri, consentendo la successiva affermazione dei mammiferi e quindi la nostra. Ne deriva un apparente paradosso: nella lunga catena di Inferni climatici freddi o vulcanici (che Baggott denomina, citando il Trono di Spade, «cronaca del Ghiaccio e del Fuoco») i momenti di ascesa/ripresa della vita sono spesso favoriti da crash precedenti: vedi la formidabile «sperimentazione» morfologica del Cambriano (a partire da 540 milioni di anni fa), favorita dal «vuoto ecologico» (cioè dalle catastrofi) dell’Ediacarano.
Su alcuni di quei passaggi (di quelle «origini») ci sono poi altre sfocature, anzi vere lacune, a partire dagli inneschi delle due principali, quelle dell’universo e della vita: il trilionesimo di secondo iniziale del Big Bang, di cui al momento non si conosce nulla (così come ci sono solo speculazioni sul prima del Big Bang stesso e sull’incidenza della «materia oscura»); e l’abiogenesi, la transizione biochimica dal non-vivente al vivente. Il che non impedisce a Baggott di toccare proprio in quei passaggi alcuni dei suoi vertici visionari. Nel caso dell’universo, descrive come pochi tutte le sequenze-chiave (l’esordio breve e violento; l’esplosione di spazio, tempo ed energia; l’emergere delle forze fondamentali e delle particelle elementari) che preludono alla cosiddetta «era della Ricombinazione» (380 mila anni dopo il Big Bang), in cui i fotoni — disaccoppiandosi dall’altra materia — rendono il paesaggio cosmico potenzialmente luminoso (non ci sono ancora occhi e cervelli per decifrarlo). Nel caso dell’origine della vita, invece, confronta le varie teorie (sciami cometari, pozze di superficie), dilungandosi poi su quella delle «bocche idrotermali» nelle profondità oceaniche, mini-labirinti di Creta dove certi batteri avrebbero sintetizzato sostanze inorganiche in sistemi biochimici complessi, in (quasi) totale assenza di luce.
Ma il testo di Baggott invita implicitamente a procedere oltre, fino a interrogarsi, secondo il fluire dai quark ai neuroni, sulla natura stessa della materia.
Tra i tanti snodi contro-intuitivi esplicati, spicca quello sull’origine della «massa»: proprietà che il credo galileiano vorrebbe «intrinseca» alla sostanza materiale, ma che il bosone di Higgs — e più ancora il relativo «campo» — rivela invece come proprietà secondaria, o meglio come un «comportamento» conseguente a un’interazione. È un’elusività estrema (nel nuovo libro, dedicato al tema, Baggott parla di «massa senza massa») già familiare alla meccanica quantistica (il dualismo onda-particella) e che si traduce in una «flessibilità» riscontrabile anche ad altri livelli scalari della materia, dalle molecole in su. A livello chimico e biochimico, nel brulichio delle reazioni pre-biotiche che procede per tentativi ed errori. A livello genetico-evoluzionistico, nelle mutazioni casuali che esplorano (anticipano) i mutamenti e le pressioni ambientali. E a livello neuroanatomico-neurobiologico, nella plasticità cerebrale che può surrogare funzioni compromesse con strutture diverse da quelle lesionate (come nelle compensazioni linguistiche).
In sintesi, è come se la materia tutta prelevasse dall’indeterminismo subatomico una specie di schema «strutturato/aperto», anche se, ovviamente, più si sale nelle dimensioni, più la «struttura» prevale sull’«apertura». Del resto, il rapporto tra la materia subatomica e quella a grandezze scalari superiori (che tanto esaspera il quadro teorico-sperimentale della fisica) emerge in una delle sequenze più suggestive del libro di Baggott: quella sulle «fluttuazioni quantistiche primordiali» che determinano nell’universo delle origini delle micro-differenze nella distribuzione della materia e nella temperatura della radiazione (il cui «eco» è la prova chiave del Big Bang), condizionandone così l’articolazione e l’architettura.
C’è un ultimo snodo, nel succedersi di «origini», tenuto nel libro un po’ troppo latente: l’interazione tra l’universo (inteso come massima espansione del «mondo esterno») e il cervello. Se la luce irradiata nell’Età della ricombinazione dai fotoni «liberati» può diventare da potenziale reale (così come, molto più tardi, quella di nebulose e galassie con le loro stelle accese dalle esplosioni nucleari, a partire dal Sole) è solo grazie all’apparato sensoriale e neurofisiologico di Homo e degli animali terrestri. È solo grazie a loro che un «mondo senza etichette» — un universo più neutro che oscuro — può tradursi in una tessitura non solo di luci, ma anche di colori, suoni e odori, secondo una fantasmagoria di categorizzazioni che va dall’occhio umano a quello della mosca, passando per l’olfatto dei cani o i sonar di pipistrelli e delfini.
È solo con il Sapiens, però — attraverso la fenditura della coscienza, o meglio della «coscienza di essere coscienti» — che la materia ha cominciato, dopo un viaggio di quasi 14 miliardi di anni (esattamente 13.820 milioni), a interrogarsi su se stessa. E ha cominciato a farlo molto prima di Esiodo o Lucrezio, molto prima persino dei racconti mitici sul «principio» e la «fine», come ci ricorda l’arte rupestre e in particolare una scoperta recentissima: il ritrovamento — nelle grotte dell’isola indonesiana di Sulawesi — di raffigurazioni animali risalenti a 35.400 anni fa, e di mani addirittura a 39 mila (il tutto forse più antico, quindi, rispetto ai siti rupestri europei). Dove le mani — da intendersi, secondo alcuni interpreti, come disperate cerniere affettive con il «regno dei morti» — indicano già una coscienza della finitezza e del tragico.
Certo, quella fenditura — che si è aperta, tra caso e necessità, nelle periferie di un universo in cui ogni punto è periferia, destinato al disordine entropico e alla morte termica — conta forse meno di una fluttuazione quantistica. È quasi insignificante: ma quel «quasi» è tutto.

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