Antonio Carioti - Corriere della Sera
I difensori austro-ungarici del Monte San Gabriele, un’altura di 646 metri a nord est di Gorizia, ritenevano di occupare una posizione inespugnabile. A lungo gli attacchi italiani erano falliti. Ma il 4 settembre 1917 i militari asburgici dovettero fronteggiare un nemico insolito: soldati agili e veloci, con le mostrine nere, che li colpirono all’improvviso con bombe a mano, pugnali e lanciafiamme, penetrando nei fortini e bloccando le gallerie scavate nella roccia. Poi, anche se isolati, respinsero i contrattacchi austriaci fino all’arrivo dei rinforzi. Erano gli arditi, le nuove truppe d’assalto che già erano entrate in azione un paio di settimane prima, ma quel giorno colsero un successo davvero eclatante.
I difensori austro-ungarici del Monte San Gabriele, un’altura di 646 metri a nord est di Gorizia, ritenevano di occupare una posizione inespugnabile. A lungo gli attacchi italiani erano falliti. Ma il 4 settembre 1917 i militari asburgici dovettero fronteggiare un nemico insolito: soldati agili e veloci, con le mostrine nere, che li colpirono all’improvviso con bombe a mano, pugnali e lanciafiamme, penetrando nei fortini e bloccando le gallerie scavate nella roccia. Poi, anche se isolati, respinsero i contrattacchi austriaci fino all’arrivo dei rinforzi. Erano gli arditi, le nuove truppe d’assalto che già erano entrate in azione un paio di settimane prima, ma quel giorno colsero un successo davvero eclatante.
L’idea era venuta al colonnello Giuseppe Bassi, confortato dal generale Francesco Saverio Grazioli e dal comandante della 2ª Armata, Luigi Capello. Creare reparti scelti duramente addestrati, dal forte spirito di corpo, votati ai colpi di mano contro postazioni ben munite. «Di fronte alle difficoltà della guerra di trincea, tutti gli eserciti costituirono unità specializzate per attaccare e occupare di slancio le prime linee nemiche, aprendo la strada all’avanzata della fanteria. Gli arditi divennero un mito sia per le loro azioni vittoriose, sia per l’atteggiamento entusiasta, che impressionava la stampa, in una situazione nella quale il morale delle truppe era in genere basso», dice al «Corriere» lo storico Giorgio Rochat, autore del testo di riferimento Gli arditi della Grande guerra(Feltrinelli, 1981; Libreria Editrice Goriziana, 1990).
Culla degli arditi fu il campo scuola di Sdricca, nel comune di Manzano (Udine). Qui si svolgerà una cerimonia per il centenario dei reparti d’assalto il 29 luglio, data in cui nel 1917 si tenne una esercitazione, davanti al re, al principe di Galles e al comandante supremo Luigi Cadorna, che viene considerata una sorta di battesimo degli arditi.
«L’arditismo crebbe in fretta: all’inizio erano tutti volontari, poi le varie unità ebbero l’ordine di dare una quota di uomini ai reparti d’assalto», ricorda Roberto Roseano, autore del romanzo L’ardito (finalista al premio Acqui) e, con Giampaolo Stacconeddu, del volume enciclopedico Arditi decorati e caduti 1917-1920. «Durante la guerra — prosegue — sorsero 34 reparti d’assalto per un totale di 30-35 mila uomini, cui vennero attribuite 3.625 decorazioni, tra le quali 20 medaglie d’oro e 1.510 d’argento. I caduti per i quali ci sono dati sicuri furono 3.145, più molti altri incerti. Circa il 10 per cento: un elevatissimo tributo di sangue».
Eppure, osserva Roseano, gli arditi erano oggetto d’invidia: «La loro condizione era privilegiata rispetto agli altri militari. Pagati di più, godevano di un vitto migliore, dormivano nelle baracche e non nelle trincee, non dovevano marciare con il pesante zaino, perché erano trasportati con i camion, ed erano esentati da servizi come quello di guardia. L’uniforme era più comoda, con il bavero aperto, per facilitare i movimenti. E la disciplina meno rigida, con un’estrema confidenza tra ufficiali e soldati. Anche da questi fattori derivava la superiore combattività».
Ma nell’autunno 1917 gli arditi se la videro brutta. «In seguito alla rotta di Caporetto — nota Roseano — molti s’immolarono per coprire la ritirata, specie davanti a Udine. Solo 1.700, su circa 5 mila effettivi, riuscirono a passare il Piave. Poi però il 28-29 gennaio 1918 gli arditi furono protagonisti della battaglia dei tre monti, sull’altopiano di Asiago, prima azione italiana di rilievo dopo la disfatta».
Mesi dopo scattò l’ultima offensiva nemica. Il 15 giugno 1918 gli austro-ungarici, nella zona del Grappa, erano giunti alle soglie della pianura veneta, occupando l’altura detta Col Moschin. E a ricacciarli indietro, con un’azione folgorante, fu il IX reparto degli arditi. «Operarono nelle condizioni ideali – osserva Rochat – per far valere le proprie doti, prendendo in contropiede e travolgendo un nemico in fase di avanzata. Quando invece dovevano attaccare posizioni solide e ben trincerate, subivano spesso perdite terribili».
Dall’impresa del Col Moschin, a cui è intitolato l’attuale reggimento degli assaltatori paracadutisti, parte il recente libro Arditi contro (Mursia) di Andrea Augello, senatore di ascendenza missina, dove si parla del successivo protagonismo politico di quei combattenti nella realtà di Roma: «Gli umori antiparlamentari del 1919 — ricorda Augello — trovarono un terreno fertile tra gli arditi. Uno di loro, il poeta futurista Mario Carli, fu il primo a usare il termine “casta” per squalificare la classe dirigente. Indisciplinati, spesso di estrazione sovversiva, gli arditi furono sciolti dopo la Grande guerra dall’esercito, che li considerava una mina vagante. Ma anche se la loro simbologia venne ereditata dal fascismo, tramite soprattutto Gabriele D’Annunzio, a lungo molti oscillarono tra destra e sinistra, cullando sogni insurrezionali un po’ ingenui di stampo ottocentesco».
Tra questi spicca Argo Secondari, ex ufficiale, che nel 1921 creò a Roma gli «arditi del popolo» in funzione antifascista. «Quell’esperienza — spiega Andrea Staid, autore del saggio Gli arditi del popolo (Milieu) — ebbe un grande successo iniziale, ma venne osteggiata dalla sinistra ufficiale: i socialisti preferivano il riformismo non violento, i comunisti non ritenevano affidabili gli arditi del popolo sul piano rivoluzionario. Poi venne il patto di pacificazione del 1921, che metteva al bando i gruppi paramilitari e fu utilizzato con grande severità contro gli arditi del popolo da una polizia ben più indulgente verso le camicie nere».
Allora come definire il rapporto tra arditi e fascismo? «La loro irrequietezza — risponde Rochat — poteva trovare sbocchi di ogni tipo, ma la nullità politica dei loro leader consentì al fascismo di egemonizzarne la maggioranza. Lo spontaneismo ribelle dei reparti d’assalto mal si conciliava però con la logica gerarchica e burocratica del regime. Infatti non ci furono arditi nella Seconda guerra mondiale».
20 luglio 2017 (modifica il 20 luglio 2017
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