Marco Zatterin per la Stampa
«Il più grandioso e terribile degli spettacoli», ebbe modo di ricordare Ralph Willet Miller, il newyorchese che comandava la due ponti britannica Theseus a cui il destino offrì la ventura di osservare la scena da vicino. Dopo quattro ore di bordate a bruciapelo, nel buio che aveva già avvolto la baia di Abukir, esplose con un fragore infernale l' Orient, l' ammiraglia francese, proiettando legno, ferro e centinaia di cadaveri nell' acqua salata egiziana.
Successe alle dieci e mezza della sera e, secondo un testimone oculare della squadra napoleonica, «la luce durò così a lungo da permettere di vedere con chiarezza i corpi che piovevano dal cielo».
Quando l' oscurità si reimpossessò di quella notte di mezza estate, quel giorno era già stato catapultato nella Storia.
Era il primo agosto 1798 e la battaglia navale del Nilo era conclusa, vinta dal più grande degli ammiragli, il genio senza un occhio e con un braccio solo: Horatio Nelson.
In realtà la contesa era finita prima di cominciare, segnata dai capricci del meteo, dagli errori francesi e dalla furia della flotta di Giorgio III. Cessate le salve dei cannoni, Nelson riassunse gli eventi in un dispaccio stringato, scrisse che «il Signore nella sua Grandezza ha benedetto l' Armata di Sua Maestà il Re con una grande vittoria nella battaglia con la Flotta nemica che ho attaccato al tramonto presso la foce del Nilo».
Coi suoi ufficiali, assunse un tono diverso, svelò tutto il carattere ambizioso concedendo che «Vittoria» gli pareva «un nome del tutto inadeguato per quanto successo». L' armata di mare francese era annientata e non sarebbe stata in grado di sfidare gli inglesi per sette lunghi anni. L' ammiragliato incassò una disfatta anche morale impossibile da sanare.
Nulla, in mare, sarebbe più stato come prima. Appena qualche mese prima nessuno lo avrebbe previsto. Napoleone aveva conquistato il Nord Italia e ora le ambizioni di espansione, nutrite dalla voglia di egemonia solleticata dal futuro imperatore, miravano alla Gran Bretagna.
All' inizio del '98 il direttorio aveva chiesto ai suoi generali di disporsi ad attraversare la Manica per una invasione da avviare al più presto. In marzo, le manovre facevano vibrare la costa del «Canale» fra Ostenda e Calais. Soldati, cannoni e navi si raggruppavano, sebbene la strategia d' attacco non fosse stata davvero definita. In primavera, Napoleone sfruttò il disordine per persuadere Parigi che sarebbe stato meglio e più utile colpire il nemico nel Mediterraneo, occupando l' Egitto. Il futuro imperatore sapeva essere convincente e nella capitale decisero di scommettere sul suo talento, in fondo era meglio che restare fermi.
Fecero in fretta. Nel porto di Tolone, in un 19 maggio che si voleva indimenticabile, l' ex caporale corso arringò marinai e fanti invitandoli a sentirsi come le legioni romane quando si imbarcarono per conquistare Cartagine. Il morale era alto e tutto parve subito facile.
L' 11 giugno la flotta francese sbarcava a Malta, conquistando l' isola senza fatica. Il primo luglio l' approdo era Alessandria, inizio del blitz egiziano. Ventuno giorni più tardi l' Armée, in inferiorità numerica, sbaragliò i mamelucchi di Murad Bey all' ombra delle piramidi perdendo 29 uomini. L' ingresso nella capitale fu grandioso, seguito dall' usuale saccheggio. Gli scampati dell' esercito ottomano fuggirono in Siria. La campagna di sabbia era finita.
Erano stati valorosi, i francesi. E fortunati. Per terra e per mare. Il 20 giugno, mentre si trovava a Messina, Nelson fu informato della missione francese. L' ammiraglio si convinse che fossero diretti in Egitto e fece salpare di gran corsa la sua squadra verso Oriente. Sei giorni dopo era ad Alessandria dove non trovò nessuno e cominciò a dubitare della sua intuizione.
In realtà, aveva superato i lenti avversari senza vederli pochi giorni prima, cosa che risuccesse quando si persuase a tornare verso la Sicilia: il 30 giugno mancò i vascelli nemici per pochi chilometri, quanti ne bastarono per nasconderli oltre l' orizzonte. Era solo questione di tempo.
Dopo il trionfo delle Piramidi, l' ammiraglio François-Paul-Gérard Joseph de Lorient et Saint-Louis Brueys d' Aigalliers, conte di Brueys, capo della flotta francese, dispose le navi nella baia di Abukir in modo che, pensava, lo avrebbe garantito da qualunque attacco. Mise le 13 navi col tricolore in fila lungo il litorale, su fondali di 10 metri, ancorate di prua. In tal modo, formavano una sorta di linea mobile di difesa che replicava la costa. Sembrava un piano perfetto, tuttavia il vento della buona sorte era girato.
Napoleone mandò un messaggero con l' ordine di trasferire la squadra ad Alessandria o Corfù, ma l' uomo fu ucciso e l' informazione non giunse a destinazione. Sentendosi protetto, Brueys aveva lasciato che una parte dei marinai scendesse a terra. Credeva che la posizione fosse inattaccabile.
Ovviamente non aveva fatto i conti con Nelson. Gli inglesi, anche loro con tredici navi di linea si tuffarono i primo agosto da Nord nella baia di Abukir alle sei e mezza del pomeriggio, una manciata di minuti prima del tramonto. L' ammiraglio non conosceva la zona, ma non ebbe dubbi. Divise in due la squadra e impartì una disposizione molto semplice: «Nessun comandante inglese sbaglierà se porterà la nave a fianco del vascello nemico».
Così, in ordine non perfetto ma efficace, le vele britanniche sfilarono di controbordo verso le francesi avvolgendole da destra e sinistra, col vento in poppa, miracoloso per loro, fatale per il nemico.
Battaglia nella notte. Inedita. Quattro navi sfilarono sulla destra della linea napoleonica.
Altre sei, in testa la Vanguard di Nelson, incrociarono sul bordo opposto, quello esterno.
Brueys e i suoi uomini non credevano ai propri occhi. Tutto fu rapido e inatteso. Ogni regola di ingaggio era stata capovolta.
Alle otto e trenta sei navi francesi risultavano disalberate e tre erano state catturate dopo essere finite sotto un fuoco possente. I cannonieri inglesi erano più rapidi e precisi. E i capitani ancoravano le navi quando la preda era a tiro, così da considerare di moltiplicare la potenza di fuoco. Un massacro. L' attenzione si concentrò sulla L' Orient, che Brueys aveva avuto la pessima idea - col senno di poi - di far riverniciare la mattina stessa. Alle nove, la grande nave, infiammabile come una torcia, cominciò a bruciare. Alle dieci le fiamme raggiunsero un deposito di polveri e l' ammiraglia esplose come sputata da un vulcano.
Brueys non vide tutto questo, era già stato spezzato in due da una palla di cannone. Come tutti i veri capitani, era sul ponte. La morte in battaglia era considerata una accadimento ordinario e probabile con cui misurarsi a testa alta.
Era finita. Le schermaglie durarono sino all' alba, fra epiche scene di eroismo, come il comandante del vascello francese Tonnant, Dupetit-Touhars, che dopo aver perso entrambe le gambe si fece mettere in un barile di crusca per continuare a combattere, condizione che evidentemente durò pochissimo. I francesi persero undici navi di linea su tredici, e due fregate, con un bilancio di 1700 morti fra marinai e ufficiali, 1500 feriti e 3000 prigionieri. Gli inglesi, ora signori incontrastati del Mediterraneo, contarono 218 decessi e 677 feriti.
Per Nelson chiamarla «vittoria» sembrò poco. Era stato un trionfo senza precedenti, destinato a consolidare il potere navale britannico inglese. Fu un duello cruciale, impressionante per violenza e strategia, risolutrice solo in parte. Ad Abukir si consacrò l' indiscutibile superiorità degli inglesi in alto mare. E si cominciò la marcia verso lo scontro finale di sette anni più tardi in cui l' ammiraglio Villeneuve - il solo a scampare «al massacro egiziano con tre navi - tentò la rivincita con Nelson, che nel frattempo aveva pronta per se una bara fatta con legno dell' albero maestro de L' Orient.
Si incontrarono il 21 ottobre 1805 a Capo Trafalgar, in un' altra battaglia scontata in cui il francese si giocò l' onore (senza mostrarsi mai vigliacco), il britannico la vita, Re Giorgio guadagnò il dominio sull' acqua e Napoleone perse la speranza di invadere la terra di Albione. Avrebbe dominato con determinazione e piacimento sulla terra sino al 1815, in Italia, Francia, territori tedeschi e belgi, forte al punto da osare l' impresa fatale in Russia. Ma alla fine, senza poter ambire ad essere re sui mari e del commercio, saldamente in mano britannica, il tavolo imperiale avrebbe sempre avuto una gamba in meno.
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