sabato 8 luglio 2017

Chiesa: Riformatori italiani

La fuga senza fine dei mancati Lutero italiani

ILLUSTRAZIONE DI CIAJ ROCCHI E MATTEO DEMONTE
Mentre tutti discutono di Lutero e dell’eredità della Riforma a distanza di 500 anni dalla presunta affissione delle tesi a Wittenberg (31 ottobre), spesso dimentichiamo il grande contributo al rinnovamento del pensiero e della teologia che arrivò da ogni Stato europeo. Molte idee provennero dalla penisola italiana, ormai sotto l’egemonia spagnola, e molti di quelli che partorirono queste idee morirono fuori dall’Italia, esuli per cause religiose. Tutti scapparono dal Sant’Uffizio dell’Inquisizione e molti si trovarono poi a fuggire dalla repressione degli Stati conquistati dalla Riforma di Lutero e di Calvino. Furono perseguitati per il loro appello alla riforma della Chiesa che nasceva dalla lettura filologica della Bibbia e dalle grandi conquiste dell’Umanesimo. In seguito sempre più si spinsero a rivendicare il diritto alla libertà di coscienza, trovando argomentazioni forti nel Vangelo.
In ogni parte d’Italia, in ogni ceto, ecclesiastici e laici, donne e uomini respirarono i germi contagiosi della Riforma e li diffusero, talvolta schierandosi e allineandosi con i Riformatori, ma più spesso allontanandosene. Seguendo le orme di questi pensatori, rimaniamo affascinati dall’intreccio di vite, di energico slancio al sapere, di meschine invidie accademiche, di continue ricerche di sostegni economici e di solidarietà insperate.
Si rimane sorpresi dallo scoprire che tra i più ricercati dal Sant’Uffizio ci fosse persino il generale dei Cappuccini, Bernardino Ochino, predicatore affascinante e animatore del circolo napoletano dell’esule spagnolo Juan de Valdés, frequentato anche da Michelangelo Buonarroti e da Vittoria Colonna. Contro dogmi e pratiche esteriori inutili, Valdés, che riportava Cristo al cuore della fede, conquistò tanti. Invitato a presentarsi davanti all’appena riorganizzato tribunale dell’inquisizione romana nel 1542, Ochino, sapendo di non essere al sicuro, prese la via dell’esilio e poi dichiarò di essere stato costretto a predicare Cristo in maschera, poiché aveva cercato di predicare le nuove dottrine (che nuove non erano affatto, dal momento che Lutero riprendeva Agostino) senza essere «scoperto». Ma Ochino non trovò rifugio nemmeno in terra protestante poiché chiedeva libertà di confronto su alcuni temi religiosi che non erano così certi e chiari. Le sue idee si scontravano con le altre Chiese e lo costrinsero a un lungo peregrinare in Europa finché morì povero e vecchio, in Moravia, nel 1564.
Meno drammatico fu il destino di Lelio e Fausto Sozzini: il primo (zio dell’altro) insolentì Calvino, che per questo condannò la curiositas degli italiani, mentre il secondo fondò la Chiesa unitariana in Polonia. Figlio dell’autorevole giurista senese Mariano, Lelio prese la via dell’esilio da Bologna nel 1547, si iscrisse all’Università di Basilea per studiare l’ebraico e poi si spostò di continuo fino a morire nel 1562 a Zurigo. Grazie a protezioni e alla pratica nicodemitica (simulava di appartenere alla Chiesa cattolica), Fausto rimase in Italia fino al 1575 e poi si rifugiò in Polonia, in tempo per evitare il processo inquisitoriale. Zio e nipote ritenevano che il dogma della Trinità fosse da respingere poiché era stato stabilito da un concilio; i Riformatori avevano chiarito che si doveva far riferimento soltanto alle Scritture e rifiutare tutto quello che era stato imposto dal magistero della Chiesa e quindi dai concili. Tuttavia, in questo caso, come già con gli anabattisti, i Riformatori (Calvino in prima linea) si contraddissero e affermarono la validità del dog-
ma trinitario. Perché i Sozzini negavano la Trinità? Non solo perché questione solo sfiorata nelle Scritture, ma anche perché, seguendo Erasmo da Rotterdam ed altri, si erano accorti che l’incipit del Vangelo di Giovanni si prestava a varie interpretazioni. Attraverso la critica razionalistica, i Sozzini mettevano così in discussione la natura divina di Gesù, del cui insegnamento però esaltavano il fondamentale valore etico.
La peste ereticale, come la chiamavano gli inquisitori e i pii cattolici, contagiò persino le donne e l’ammiratis- sima nobildonna Giulia Gonzaga, allieva di Valdés, visse e pagò la sua adesione al dissenso intellettuale e religioso. Fu accusata di conoscere il latino e di essere «curiosa di veder cose et scritture di heretici» e, per sottrarsi all’Inquisizione, Gonzaga si schermì come donna dedita alla casa e ignara di ogni discussione teologica.
Da Trento si mosse invece Iacopo (o Giacomo) Aconcio: prima si spostò in Svizzera e poi, nel 1559, riuscì a trovare asilo e sostegno economico in Inghilterra. Lì svolse attività come ingegnere militare per Elisabetta I, e pubblicò un’opera, presso un editore italiano, anch’egli esule per motivi religiosi, Pietro Perna, sugli stratagemmi di Satana che, per conquistare anime, provocava le dispute ed era fautore della persecuzione. Prefigurando una separazione tra Stato e Chiesa, Aconcio, conscio della possibilità di errare, invitava ad astenersi dal giudicare i dissidenti e a lasciare i segreti dei cuori a Dio.
Ci furono italiani che fuggirono a Basilea, dove l’eredità degli ideali erasmiani ancora resisteva, e a Ginevra, dove il rogo del medico spagnolo Miguel Serveto nel 1553 avrebbe fatto tramontare anche quella speranza di approdo, mentre naufragava, seppure per un breve periodo, il rifugio dell’Inghilterra, con la regina Maria Tudor che cercava di reintrodurre il cattolicesimo.
Chissà se Papa Bergoglio, quando ha voluto il giubileo della misericordia, pensava anche a Erasmo e a Celio Secondo Curione, che aveva dedicato un’opera molto importante all’ampiezza della misericordia divina. Forte di un impegno rigoroso nell’edizione di testi classici e sacri, Curione infondeva speranza a tutti, sostenendo che Dio non avrebbe dimenticato nessuno nel suo abbraccio misericordioso e salvifico.
Crocevia di vite, di idee e di aspirazioni religiose e politiche come quelli che segnarono l’umanista ferrarese Olimpia Morata o il coraggioso profeta siciliano Giorgio Siculo, che rifiutò di abiurare e fu ucciso a Ferrara nel 1551; sorti infauste come i roghi del calabrese Valentino Gentile, a Berna nel 1566, del fiorentino Francesco Pucci, a Roma nel 1597, e del corpo, riesumato e bruciato insieme alle opere e al ritratto, di Marcantonio De Dominis, arcivescovo di Zara, nel 1624. Insidie accademiche costellarono la vita del marchigiano Alberico Gentili, regius professor a Oxford, considerato uno dei padri del diritto internazionale.
Furono questi italiani che seminarono in Europa i migliori frutti del vivace umanesimo: pur in fuga, avendo abbandonato famiglie che spesso subivano le conseguenze della loro scelta ereticale, affrontarono sospetti e rappresaglie, ma non rinunciarono a offrire stimoli e spunti di riflessione, difendendo la libertà della coscienza e promuovendo il dubbio come metodo per giungere alla verità. Ma di questo ricchissimo e complesso patrimonio intellettuale la penisola italiana, che ne era stata culla, non poté beneficiare per via della Chiesa (almeno di una parte), che giunse a mettere la Bibbia al rogo con il bando del volgare, come ci ha mostrato Gigliola Fragnito. Alle dottrine riformate mancò l’appoggio del potere politico e per questo un avversario dei Riformatori, il predicatore Francesco Panigarola, avrebbe scritto: «In libertà siamo noi; che sotto la paterna cura de sacri inquisitori dormiamo sicuri, viviamo quieti, godiamo le nostre facoltà, non sentiamo strepiti d’armi, e conserviamo intatto il fondamento istesso della salute nostra, che è la fede».

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