lunedì 31 luglio 2017

Harold Bloom

Antonello Guerrera per Robinson - la Repubblica

Delle tre cifre del numero civico è rimasto solo il 9. Si sono perse anche loro in questo elegante viale alberato vicino all’università di Yale, ben distante dal triste centro di New Haven, dove le abitazioni sono bianche, gialle, rosa. Casa sua, invece, è di un’antracite livida e austera, tra la freschezza dei tigli, delle querce e delle magnolie. Alla porta, candida come le finestre, non risponde nessuno.

Dopo un minuto, dietro la zanzariera prende forma una donna cauta, con un caschetto di capelli bianchi e gli occhi azzurri. Si chiama Jeanne. Non sa dell’appuntamento del marito. «Vado a chiedere, lei entri intanto», dice, sbattendo l’anta. All’ingresso, come in ogni casa anglosassone, c’è subito la rampa per il piano superiore, ma con una poltroncina montascale. Nel soggiorno ligneo illuminato dalle enormi finestre americane, tra un divano rigonfio, una grande credenza, scaffali colmi di libri e un tappeto scuro, c’è un vecchio impianto stereo che diffonde il concerto n. 1 di Wolfgang Amadeus Mozart.

Sulla cassa marrone c’è un cd beige di Bach. «Harold», chiede al marito, «c’è un giornalista italiano. L’hai invitato tu?». Harold Bloom, il più famoso critico letterario insieme a George Steiner, l’inventore del “Western Canon” che ha eletto ventisei scrittori occidentali (da Dante a Shakespeare, da Molière a Goethe, da Proust a Joyce) a modello ed essenza della cultura degli Stati Uniti e dell’Europa, colui che ha rivoluzionato lo studio e la bussola della letteratura in America e nel mondo, è lì, di spalle, fermo sulla soglia di una porta, nascosto dalla sedia a rotelle. Bloom non è più paffuto come molti anni fa. Le patologie e l’età l’hanno rimpicciolito, la maglia e il pantalone neri lo smagriscono ancor più ed è attaccato al lungo filo del respiratore. Ripete ossessivamente di avere ottantasette anni e di aver subìto di recente «due difficili interventi chirurgici».

Ma Harold Bloom non si arrende. Come non ha mai mollato le sue decennali battaglie accademiche. Professore e totem indiscusso a Yale da oramai mezzo secolo, Bloom è stato il celebre teorico dell’Anxiety of Influence, che ha ribaltato la critica mondiale: i poeti che si fanno troppo influenzare dai loro bardi preferiti sono deboli. Quelli forti sono, invece, coloro che si ribellano all’ansia di somigliare ai loro padri letterari.

Di qui il concetto e la necessità della “letteratura autoritaria”, altro decennale pallino di Bloom: «Ma oggi la letteratura non sa più esserlo, non sposta più gli equilibri», ammette contrariato, «e diventa sempre più irrilevante». Perché? «Gli studi umanistici sono morti a causa della loro eccessiva politicizzazione, dal marxismo al femminismo. Del resto, tutto ciò che viene politicizzato muore».

Da sempre, Bloom detesta quella che lui ha battezzato e poi condannato come la School of Resentment, la “scuola del risentimento”, e cioè i colleghi e accademici che inquinano la purezza della letteratura con le loro ideologie. Questo per il grande intellettuale americano è il male assoluto della critica, l’antiletteratura per eccellenza. Che però, per Bloom, ha vinto purtroppo. «Sì, non sono riuscito a sconfiggerli. Saranno sempre lì, a rovinare tutto».

Bloom non ama la contemporaneità. Non chiedetegli del Nobel a Bob Dylan. «Tutto il mondo mi ha chiesto un commento, dal New York Times ai cinesi. Non ho mai risposto. Perché è meglio che taccia». Ma almeno la sua musica le piace? «No».

Accetta invece di aggiornare il “Canone occidentale”. I ventisei eletti di quel capolavoro generazionale della saggistica oggi li cambierebbe? «Certo, potrei sostituirli con altri cinquanta, altri cento. Ma è inutile fare nomi adesso, sono quasi tutti morti». E un Canone contemporaneo quale potrebbe essere? «Mi limito agli americani: Cormac McCarthy con Meridiano di sangue, Il teatro di Sabbath di Philip Roth, Underworld di DeLillo e poi Pynchon con L’incanto del lotto 49 e Mason & Dixon».

Intanto, la musica classica veleggia ancora dal soggiorno. “Parigi, o cara, noi lasceremo”, atto terzo della Traviata di Verdi. Bloom ne ascolta molta più del solito, ora che non può andare all’università: «Ma presto starò meglio, a gennaio torno in cattedra», promette. Intanto, il suo regno temporaneo è diventato questa piccola anticamera tra il soggiorno e la cucina, con vista giardino. I muri bianchi, i quadri densi e scuri, l’intonaco consumato dietro la sua sedia. È uno spazio minimo e indiscreto.

A destra c’è un sottile divano letto su cui riposa una montagna incantata di libri, soprattutto edizioni inglesi Penguin: Cervantes, Blake, Spencer, Auden, Marlowe, Tolstoj, Shaw, Bellow, Lindsay, Shelley. Al centro un tavolo frastagliato: una pila di giornali e riviste (il New York Times, la London Review of Books, Harper’s), scatole di medicine, un computer portatile Mac, sciroppi, garze, un pulsossimetro da dito, un block notes, matite appuntite, due mele, una banana, pillole rosse e gialle. Seduto al tavolo c’è anche un omone nero, con camicia di jeans e cappellino da baseball blu.

I Bloom lo chiamano “Coffee”, caffè. Bada alla salute del grande intellettuale americano. Coffee tace, ma annota misteriosi appunti su un quaderno. Sigle incomprensibili.
«Venga più vicino, non ci sento bene», dice con respiro paterno Bloom mentre le sue parole fluttuano sugli occhi verdeacqua. La sua ultima opera in libreria si chiama Falstaff, dammi la vita. Falstaff, lo smargiasso pingue e irresistibile dell’Enrico IV di Shakespeare e, guarda caso, ultima opera di Verdi, che ancora echeggia dal soggiorno. Non è un caso.

Perché Bloom, nonostante tutto, non ha bloccato la sua inesauribile produzione letteraria. Di recente ha pianificato l’uscita di una collezione di cinque libretti sui suoi personaggi preferiti di Shakespeare. Il primo, già pubblicato, è Falstaff, per lui «l’immagine vera e perfetta della vita. Perché il suo spirito esuberante è l’umanità». «Poi a ottobre sarà il turno di Cleopatra Sono aria e fuoco», aggiunge, «ad aprile 2018 Lear La grande immagine dell’autorità e infine Iago e Macbeth».


Tutto questo perché, secondo Bloom, Shakespeare ha inventato l’umano. Non è solo la vita come palcoscenico, ma la letteratura che diventa vita, come il critico scriveva già in un suo vecchio libro: «Il Bardo è la tripla invenzione», dice. «Montaigne ha inventato un personaggio della letteratura, se stesso; Cervantes due, don Chisciotte e Sancho Panza; mentre Shakespeare decine».

Ma Bloom, la cui lucida follia per la letteratura è nata all’età di quattro anni, quando viveva nel Bronx e gli capitarono tra le mani Hart Crane e William Blake nonostante parlasse solo yiddish, sta lavorando anche a un’opera che lui stesso definisce gigantesca: «Si chiamerà, forse, Presenza. Ma è indescrivibile: una sorta di memoir, con le letture di una vita e i miei amici in letteratura. Lo faccio perché Oscar Wilde diceva che la critica è l’unica forma civile di autobiografia».

Già, gli amici. Bloom ne ha pochi. Molti erano poeti che non ci sono più. «Robert Penn Warren, Hart Crane, Mark Strand, James Merrill: mi hanno lasciato tutti. È rimasto solo John Ashbery, un grande poeta anche lui. Ma ha novant’anni oramai, e di salute sta messo male come me». Bloom non è religioso, o almeno non lo è più. Ma per lui almeno la letteratura ora sa essere anche preghiera, laica.

E così, quando l’afflizione è insopportabile, i versi e le pagine adorate da Bloom diventano salmi, espiazione, un mistico fiume di parole e speranza: «Sto male la notte. Mi sveglio e ho dolore. Allora cerco sempre conforto recitando Whitman, Shakespeare, ma anche Wallace Stevens, Yeats, García Lorca, Machado, Neruda, Lope de Vega, Calderón de la Barca, Cervantes». Sono la sua religione, professor Bloom? «Sì, ora è così. Ma forse il migliore di tutti è il Dottor Johnson. Con lui mi trovo meglio di tutti. A parte mia moglie, i miei figli e pochi amici, queste sono le persone che mi stanno più a cuore. Ma sono tutte morte ed è questo, a ottantasette anni, l’unico rimpianto della mia vita».

Harold Bloom e Jeanne Gould si sono incontrati nel 1958, all’università di Yale. Lei era studentessa, lui era al primo anno da professore con un corso tutto suo. «Da allora non ci siamo più lasciati», dice lei, e ritorna subito in cucina. Il fragore dei piatti nel lavello elettrizza La suite española di Isaac Albéniz, nuova colonna sonora dal soggiorno. Harold e Jeanne hanno due figli, grandi. «Sono interessati alla letteratura», dice Bloom, «ma non sono dei “professionisti”».

È riuscito a trasmettergli l’amore per la letteratura come fa con i suoi studenti? «No. Non credo», replica con disappunto, fissando il giardino fuori dalla finestra. Nel frattempo, da questa anticamera della coscienza, Bloom continua a fare lezione a un piccolo gruppo di studenti appassionati via Skype: «Non ce la faccio a stare senza di loro, non ce la faccio a stare senza l’università, non ce la faccio a non insegnare e trasmettere quello che so».

Bloom ha un unico desiderio adesso. Anzi una certezza: «L’anno prossimo sarò di nuovo a Yale. Ce la farò. Perché sono soprattutto un insegnante, non un critico. È la mia professione, la mia vocazione. Insieme alla letteratura, è l’unico senso della mia vita. Non ho altri interessi. Nessuno. Se proprio devo morire, preferirei accadesse all’università mentre insegno. E sì, uscire di scena in un sacco nero, dall’aula, dal mondo, dal mio mondo». 

sabato 29 luglio 2017

Enzo Bettiza

ALDO CAZZULLO PER IL "CORRIERE DELLA SERA"

Enzo Bettiza ha sotto gli occhi le bozze dell'ultimo libro, in uscita oggi per Mondadori, che chiude una trilogia. Prima il 1956 ungherese. Poi il «vero Sessantotto », quello di Praga. E ora 1989. La fine del Novecento (pp. 161, e 18). «Un anno formidabile. A Berlino crolla quel Muro che Stalin non avrebbe mai edificato, e travolge sotto le sue macerie l'Unione Sovietica. In Romania finisce nel sangue la tragedia dei Ceausescu, marito e moglie. La Jugoslavia comincia a sfasciarsi, la Germania si riunisce. Il mondo è sottosopra. Due soli Paesi non hanno mai conosciuto l'Ottantanove: la Cina di Deng, e l'Italia del Pci».

Per quale motivo, Bettiza? L'89 è anche l'anno di Tienanmen e, più modestamente, della svolta di Occhetto.
«Il vero '89 cinese è di tredici anni prima. La Cina è il primo Paese a uscire già nel 1976 dal comunismo assoluto, con la morte di Mao e l'ennesima resurrezione di DengTienanmen fu una strana e per molti aspetti ambigua ribellione, un drammatico incidente di percorso, provocato da studenti idealisti ma inquinato da teppisti ed epigoni più o meno consapevoli delle guardie rosse».

Il suo è un giudizio duro. Quella protesta fu stroncata nel sangue, tra le proteste dell'Occidente.
«L'Occidente condannò l'eccidio, anche se appariva come una goccia nell'oceano di massacri subiti dai cinesi nel Novecento, e fu una condanna doverosa e giusta. Deng esitò a lungo prima di muovere l'esercito, e questo fece crescere la rivolta sino al punto di non ritorno. Poi le grandi riforme continuarono. E i lamenti più alti furono quelli degli orfani e in particolare delle vedove del maoismo, che vedevano nelle riforme un male e nella Tienanmen quasi una seconda Rivoluzione culturale in chiave iperdemocratica».

Vedove?
«Rossana Rossanda la più intelligente, Enrica Colletti Pischel la più fanatica, Renata Pisu la più indignata, Maria Antonietta Macciocchi la più ingenua. Da anni andavo invece scrivendo che il vero modernizzatore del comunismo postmaoista era stato Deng. E conservo tre telegrammi di felicitazioni giunti da New York e firmati Oriana Fallaci».

E in Italia?
«Il Pci, finalmente libero dai condizionamenti, avrebbe potuto precedere Mosca. Invece, come sempre, la inseguì. Il risultato fu che gli amendoliani della destra comunista piansero su Bettino Craxi, a ragione, dopo che la vendicativa maggioranza berlingueriana lo aveva distrutto alleandosi con i giudici. Ma così hanno creato Berlusconi».

Craxi preparava davvero l'unità delle sinistre, anche negli anni dell'alleanza con la Dc?
«Sì, ne sono certo. La Dc era per lui l'espediente tattico. Una sinistra unita e socialdemocratica era l'ambizioso disegno strategico della sua vita».
Nel libro è raccontato l'ultimo viaggio di Giancarlo Pajetta a Mosca, nella delegazione dell'Europarlamento guidata da lei.
«In quei giorni crepuscolari Pajetta era nervosissimo. La sera in albergo si metteva a litigare in russo con portieri e camerieri: "Tra poco, per arrangiarvi, venderete al museo delle cere di New York pure la mummia di Lenin!". Poi, nella sala di presidenza del Soviet supremo, al cospetto del presidente Lukianov, di Zagladin e dell'intera nomenklatura gorbacioviana, Pajetta ruppe il protocollo: afferrò di prepotenza il microfono e cominciò una lunghissima concione in cui rinfacciò ai nostri ospiti sette decenni di inutili inganni, dalla morte di Bukharin in poi. I russi erano allibiti».

E Ceausescu, che lei intervistò tre volte?
«Aveva fama di eretico, ma era diversissimo da Tito. Era il più staliniano dei tiranni comunisti balcanici. Umili origini. Ferocia da impalatore. In sintonia con le radici della sua terra, l'Oltenia, landa di foreste oscure e di atrocità ottomane ».

Il suo giudizio su John Kennedy è negativo.
«Krusciov lo giocò clamorosamente, a Berlino e alla Baia dei Porci. Poi volle stravincere, e sui missili a Cuba Kennedy ebbe il polso di fermarlo. Ma quell'irlandese elegante e sorridente resta un prodotto artificiale dei laboratori elettoralistici americani».

Pare la descrizione di Obama.
«Infatti. Ma anche Ronald Reagan era un'invenzione da laboratorio hollywoodiano, e si rivelò un buon presidente. Speriamo che il giovane Barack assomigli almeno un poco a Reagan e non soltanto e troppo a Kennedy».

Lei ha invece un'ottima opinione di Eltsin.
«Boris Nikolaievic è sottovalutato. In realtà, è un gigante del Novecento. Ci voleva un essere biologicamente anomalo, eccessivo, forte bevitore, molto carnale, più adatto a distruggere che a costruire, per abbattere il corpaccione del comunismo sovietico».

Non fu Wojtyla, non fu Reagan?
«Ma no. Il comunismo è morto di comunismo. Il moloch ha divorato se stesso ».

Montanelli nei «Diari» scrive che lei l'aveva previsto sin dal ‘66. Però in altre pagine mette in dubbio la sua lealtà, ai tempi del «Giornale». Ad esempio scrive: «Frane Barbieri se n'è andato e Bettiza non mi ha detto nulla». Che cos'era accaduto tra lei e Montanelli?
«In effetti fui io a spalleggiare l'amico Frane, che avevo ingaggiato a Belgrado, ad andare alla 'Stampa'. Tra Indro e me si profilava da qualche tempo una rottura che doveva diventare irreparabile. Rottura politica, e di gestione. Nei lunghi giorni del ricovero di Indro, ferito dai brigatisti, la responsabilità della conduzione politica del 'Giornale' cadde su di me, e io, sostenuto da Frane e da Francesco Damato, accentuai la linea lib-lab favorevole all'incontro tra i liberali e Craxi; ma, al ritorno dalla clinica, Indro virò invece verso l'anticraxismo di De MitaSpadolini La Malfa.
Non tenne conto che in veste di cofondatore e condirettore avevo operato per anni al suo fianco. Quando fui eletto senatore, colleghi e amministratori malevoli spinsero Indro ad allontanarsi da me. Lui affidò parte dei miei compiti a uomini come Gian Galeazzo Biazzi Vergani: quattro nomi; tutti inutili. Tra l'altro, lo tradì schierandosi con Berlusconi».

E lei?
«Io non tradii Montanelli: lo affrontai a viso aperto e gli sbattei la porta in faccia. Il nostro dissenso politico, con le lettere personali che lo accompagnavano, finì sui giornali. Lo stesso Indro salutò la mia precipitosa uscita dal 'Giornale', dopo un decennio dalla fondazione, con un articolo cavalleresco e accorato. Anni dopo, molto dopo, ci siamo riconciliati e abbiamo riconosciuto che quella brusca separazione era stata anche umanamente dannosa per ambedue».

giovedì 27 luglio 2017

Le falsità dei politici

Gianluca Veneziani per Libero

Chi credesse che la post-verità sia nata con Brexit e Trump compirebbe errori di prospettiva, limitandosi a guardare in maniera miope il presente.
L' arte del convincimento basata sulla diffusione di notizie verosimili e l' occultamento di fatti veri nasce insieme alla politica e si potenzia con i mass media.

Per comprenderne la funzione e contenerne gli effetti, occorre fare un lavoro genealogico come quello di Fabio Martini ne La fabbrica delle verità (Marsilio, pp. 206, euro 16). Il saggio, che analizza metodi della propaganda in un secolo di storia italiana, si radica sulla convinzione che la verità in politica sia sempre qualcosa di costruito, al fine di mantenere e far crescere il consenso.

Al primo metodo hanno fatto ricorso il fascismo e la Dc. Il regime, più che reprimere, tendeva a rimuovere ciò che avrebbe potuto gettare cattiva luce sull' Italia. E così dai giornali scomparivano notizie di cronaca nera, riferimenti alle condizioni economiche difficili e perfino comunicazioni relative al maltempo.

Esemplificativa è la censura cui venne sottoposto il giornale Stampa Sera, «reo» di aver pubblicato il titolo Tempesta sull' Etiopia, che riferiva solo la cronaca di un temporale ma suonava di cattivo auspicio per la futura conquista dell' Abissinia. Allo stesso modo la Democrazia Cristiana, anche se in maniera più felpata, favoriva «la narcosi di ciò che appariva pessimistico».

I contenuti televisivi passavano una selezione ferrea prima di vedere la luce; e molti film del Neorealismo vennero accusati di disfattismo e soggetti a censura. Significativo è l' intervento di Giulio Andreotti, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, contro il film Umberto D. di Vittorio De Sica, storia di un anziano vittima della miseria che tenta di suicidarsi.

Intervenendo su Libertas, Andreotti scriveva: «Se nel mondo si sarà indotti a ritenere che quella di Umberto D. è l' Italia, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla Patria». E ancora: «Non dispiaccia a De Sica se noi lo preghiamo di non dimenticare questo minimo impegno di ottimismo», avendo «lui il dovere di perseguirlo».


Da questo atteggiamento censorio si è passati, durante la Seconda Repubblica, alla produzione deliberata di «balle». I talk show, in primis, sono diventati fucine di una realtà parallela, usati dai politici per delegittimare l' avversario e dai conduttori - vedi Samarcanda di Santoro - per gettare discredito sulla classe politica, con tesi spesso non aderenti ai fatti.

Un approccio poi seguito da Grillo, che ha costruito il suo successo sulla demonizzazione della Casta, ma anche su invenzioni tese ad accreditarlo come leader spendibile. Su tutte, il post sul suo blog in cui compariva una lettera di Papa Benedetto XVI il quale avrebbe espresso sostegno al comico «sul tema delle energie rinnovabili». La lettera, evidentemente, era un falso.

Ma in fatto di produzione di verità parziali il re indiscusso resta Renzi. Durante la visita della Merkel a Firenze nel 2015, l' allora premier chiede di farsi riprendere solo dalle telecamere di Palazzo Chigi, in modo da edulcorare la realtà e sottolineare la concordia tra i due leader. Una tattica non dissimile da quella usata da Mussolini allorché ospitò a Firenze, nello stesso palazzo, l' allora capo di governo tedesco: un certo Adolf Hitler.

Il problema del potere

GRECIA ANTICA LABORATORIO DELLA POLITICA

Nelle Supplici di Euripide l’araldo di Tebe chiede a Teseo: «Chi è il signore di questa terra?». Nessuno, risponde Teseo, «Atene è governata democraticamente dal popolo». Da queste parole e dalla discussione che ne segue (l’araldo sostiene la monarchia, Teseo la democrazia) prende il titolo e le mosse il nuovo, bellissimo libro di Mario Vegetti — Chi comanda nella città (Carocci, pagine 128, 12) — dedicato a un problema la cui centralità nel dibattito pubblico ateniese fa della Grecia «uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico dell’Occidente»: il problema della legittimazione del potere.
La società e la cultura greca, spiega Vegetti, si sono formate a partire dal IX secolo a. C. in uno spazio vuoto, definito da un sistema di assenze. Per cominciare, una crisi di sovranità, che rende impossibile la trasmissione dinastica del potere. Non a caso a Itaca ben 108 pretendenti aspirano alla mano di Penelope nella speranza, grazie al matrimonio con lei, di ereditare di fatto il potere di Ulisse. E così come non esiste tra i mortali, non esiste un criterio di trasmissione neppure del potere divino, caratterizzato (ci racconta Esiodo) da atroci crimini di sangue tra padri e figli. Accanto a questa prima assenza si pongono poi, non meno rilevanti, quella di un’autorità sacerdotale in grado di consacrare le dinastie e quella di un libro sacro di natura o ispirazione divina. Sono le circostanze dalle quali discende la necessità di legittimare il potere, spiega Vegetti, che quindi organizza i tentativi di farlo in cinque tipologie, rispettivamente basate sul principio di maggioranza (plethos), su quello di legalità (nomos), su quello della forza (kratos), su quello della eccellenza (aretè) e su quello della competenza (episteme). Ciascuno dei quali, peraltro, ha delle controindicazioni, che Vegetti analizza, a partire da quello di maggioranza, prendendo le mosse dal famoso colloquio tra Pericle e il giovane Alcibiade nei Memorabili di Senofonte: la legge approvata a maggioranza, sostiene Alcibiade, mettendo in non poche difficoltà Pericle, è violenza, è prepotenza di una parte su un’altra parte della popolazione. E a questa critica se ne aggiungono altre, quale, su un piano diverso, ma non meno significativa, quella sul valore di plethos: cosa si deve intendere con questo termine? Forse l’intero corpo civico deliberante, riunito in assemblea? O, invece, la parte più numerosa e meno fortunata della popolazione? La democrazia è forse il governo dei poveri, secondo l’opinione di Platone? A questa critica vi era chi rispondeva affermando che «la città educa gli uomini» (andra polis didaskei, secondo una celebre frase di Simonide): la città educava i cittadini, formandoli grazie alla partecipazione alle assemblee, alle giurie dei tribunali, ai festival teatrali…
Impossibile qui, purtroppo, riferire per intero il dibattito su ciascuno dei diversi criteri di legittimazione del potere, analizzati da Vegetti in un’appassionante sequela di pro e di contro e descritti con un’imparzialità che rende difficile (per dichiarata volontà dell’autore) risalire alla soluzione da lui preferita. Ma quanto si è visto, sia pur brevemente, è più che sufficiente a dar conto della importanza di questo libro, con il quale un grande accademico, con autorevolezza pari alla chiarezza e piacevolezza di linguaggio, affronta un tema che, accanto agli specialisti, interesserà tutti coloro che, inevitabilmente, si interrogano sui problemi odierni legati alla legittimazione del potere. E che conferma, una volta di più, l’insostituibile importanza dello straordinario, inesauribile «laboratorio» greco. 


La battaglia di Abukir

Marco Zatterin per la Stampa

«Il più grandioso e terribile degli spettacoli», ebbe modo di ricordare Ralph Willet Miller, il newyorchese che comandava la due ponti britannica Theseus a cui il destino offrì la ventura di osservare la scena da vicino. Dopo quattro ore di bordate a bruciapelo, nel buio che aveva già avvolto la baia di Abukir, esplose con un fragore infernale l' Orient, l' ammiraglia francese, proiettando legno, ferro e centinaia di cadaveri nell' acqua salata egiziana.

Successe alle dieci e mezza della sera e, secondo un testimone oculare della squadra napoleonica, «la luce durò così a lungo da permettere di vedere con chiarezza i corpi che piovevano dal cielo».

Quando l' oscurità si reimpossessò di quella notte di mezza estate, quel giorno era già stato catapultato nella Storia.

Era il primo agosto 1798 e la battaglia navale del Nilo era conclusa, vinta dal più grande degli ammiragli, il genio senza un occhio e con un braccio solo: Horatio Nelson.

In realtà la contesa era finita prima di cominciare, segnata dai capricci del meteo, dagli errori francesi e dalla furia della flotta di Giorgio III. Cessate le salve dei cannoni, Nelson riassunse gli eventi in un dispaccio stringato, scrisse che «il Signore nella sua Grandezza ha benedetto l' Armata di Sua Maestà il Re con una grande vittoria nella battaglia con la Flotta nemica che ho attaccato al tramonto presso la foce del Nilo».

Coi suoi ufficiali, assunse un tono diverso, svelò tutto il carattere ambizioso concedendo che «Vittoria» gli pareva «un nome del tutto inadeguato per quanto successo». L' armata di mare francese era annientata e non sarebbe stata in grado di sfidare gli inglesi per sette lunghi anni. L' ammiragliato incassò una disfatta anche morale impossibile da sanare.

Nulla, in mare, sarebbe più stato come prima. Appena qualche mese prima nessuno lo avrebbe previsto. Napoleone aveva conquistato il Nord Italia e ora le ambizioni di espansione, nutrite dalla voglia di egemonia solleticata dal futuro imperatore, miravano alla Gran Bretagna.

All' inizio del '98 il direttorio aveva chiesto ai suoi generali di disporsi ad attraversare la Manica per una invasione da avviare al più presto. In marzo, le manovre facevano vibrare la costa del «Canale» fra Ostenda e Calais. Soldati, cannoni e navi si raggruppavano, sebbene la strategia d' attacco non fosse stata davvero definita. In primavera, Napoleone sfruttò il disordine per persuadere Parigi che sarebbe stato meglio e più utile colpire il nemico nel Mediterraneo, occupando l' Egitto. Il futuro imperatore sapeva essere convincente e nella capitale decisero di scommettere sul suo talento, in fondo era meglio che restare fermi.

Fecero in fretta. Nel porto di Tolone, in un 19 maggio che si voleva indimenticabile, l' ex caporale corso arringò marinai e fanti invitandoli a sentirsi come le legioni romane quando si imbarcarono per conquistare Cartagine. Il morale era alto e tutto parve subito facile.

L' 11 giugno la flotta francese sbarcava a Malta, conquistando l' isola senza fatica. Il primo luglio l' approdo era Alessandria, inizio del blitz egiziano. Ventuno giorni più tardi l' Armée, in inferiorità numerica, sbaragliò i mamelucchi di Murad Bey all' ombra delle piramidi perdendo 29 uomini. L' ingresso nella capitale fu grandioso, seguito dall' usuale saccheggio. Gli scampati dell' esercito ottomano fuggirono in Siria. La campagna di sabbia era finita.

Erano stati valorosi, i francesi. E fortunati. Per terra e per mare. Il 20 giugno, mentre si trovava a Messina, Nelson fu informato della missione francese. L' ammiraglio si convinse che fossero diretti in Egitto e fece salpare di gran corsa la sua squadra verso Oriente. Sei giorni dopo era ad Alessandria dove non trovò nessuno e cominciò a dubitare della sua intuizione.

In realtà, aveva superato i lenti avversari senza vederli pochi giorni prima, cosa che risuccesse quando si persuase a tornare verso la Sicilia: il 30 giugno mancò i vascelli nemici per pochi chilometri, quanti ne bastarono per nasconderli oltre l' orizzonte. Era solo questione di tempo.

Dopo il trionfo delle Piramidi, l' ammiraglio François-Paul-Gérard Joseph de Lorient et Saint-Louis Brueys d' Aigalliers, conte di Brueys, capo della flotta francese, dispose le navi nella baia di Abukir in modo che, pensava, lo avrebbe garantito da qualunque attacco. Mise le 13 navi col tricolore in fila lungo il litorale, su fondali di 10 metri, ancorate di prua. In tal modo, formavano una sorta di linea mobile di difesa che replicava la costa. Sembrava un piano perfetto, tuttavia il vento della buona sorte era girato.

Napoleone mandò un messaggero con l' ordine di trasferire la squadra ad Alessandria o Corfù, ma l' uomo fu ucciso e l' informazione non giunse a destinazione. Sentendosi protetto, Brueys aveva lasciato che una parte dei marinai scendesse a terra. Credeva che la posizione fosse inattaccabile.

Ovviamente non aveva fatto i conti con Nelson. Gli inglesi, anche loro con tredici navi di linea si tuffarono i primo agosto da Nord nella baia di Abukir alle sei e mezza del pomeriggio, una manciata di minuti prima del tramonto. L' ammiraglio non conosceva la zona, ma non ebbe dubbi. Divise in due la squadra e impartì una disposizione molto semplice: «Nessun comandante inglese sbaglierà se porterà la nave a fianco del vascello nemico».

Così, in ordine non perfetto ma efficace, le vele britanniche sfilarono di controbordo verso le francesi avvolgendole da destra e sinistra, col vento in poppa, miracoloso per loro, fatale per il nemico.

Battaglia nella notte. Inedita. Quattro navi sfilarono sulla destra della linea napoleonica.
Altre sei, in testa la Vanguard di Nelson, incrociarono sul bordo opposto, quello esterno.
Brueys e i suoi uomini non credevano ai propri occhi. Tutto fu rapido e inatteso. Ogni regola di ingaggio era stata capovolta.

Alle otto e trenta sei navi francesi risultavano disalberate e tre erano state catturate dopo essere finite sotto un fuoco possente. I cannonieri inglesi erano più rapidi e precisi. E i capitani ancoravano le navi quando la preda era a tiro, così da considerare di moltiplicare la potenza di fuoco. Un massacro. L' attenzione si concentrò sulla L' Orient, che Brueys aveva avuto la pessima idea - col senno di poi - di far riverniciare la mattina stessa. Alle nove, la grande nave, infiammabile come una torcia, cominciò a bruciare. Alle dieci le fiamme raggiunsero un deposito di polveri e l' ammiraglia esplose come sputata da un vulcano.

Brueys non vide tutto questo, era già stato spezzato in due da una palla di cannone. Come tutti i veri capitani, era sul ponte. La morte in battaglia era considerata una accadimento ordinario e probabile con cui misurarsi a testa alta.

Era finita. Le schermaglie durarono sino all' alba, fra epiche scene di eroismo, come il comandante del vascello francese Tonnant, Dupetit-Touhars, che dopo aver perso entrambe le gambe si fece mettere in un barile di crusca per continuare a combattere, condizione che evidentemente durò pochissimo. I francesi persero undici navi di linea su tredici, e due fregate, con un bilancio di 1700 morti fra marinai e ufficiali, 1500 feriti e 3000 prigionieri. Gli inglesi, ora signori incontrastati del Mediterraneo, contarono 218 decessi e 677 feriti.

Per Nelson chiamarla «vittoria» sembrò poco. Era stato un trionfo senza precedenti, destinato a consolidare il potere navale britannico inglese. Fu un duello cruciale, impressionante per violenza e strategia, risolutrice solo in parte. Ad Abukir si consacrò l' indiscutibile superiorità degli inglesi in alto mare. E si cominciò la marcia verso lo scontro finale di sette anni più tardi in cui l' ammiraglio Villeneuve - il solo a scampare «al massacro egiziano con tre navi - tentò la rivincita con Nelson, che nel frattempo aveva pronta per se una bara fatta con legno dell' albero maestro de L' Orient.

Si incontrarono il 21 ottobre 1805 a Capo Trafalgar, in un' altra battaglia scontata in cui il francese si giocò l' onore (senza mostrarsi mai vigliacco), il britannico la vita, Re Giorgio guadagnò il dominio sull' acqua e Napoleone perse la speranza di invadere la terra di Albione. Avrebbe dominato con determinazione e piacimento sulla terra sino al 1815, in Italia, Francia, territori tedeschi e belgi, forte al punto da osare l' impresa fatale in Russia. Ma alla fine, senza poter ambire ad essere re sui mari e del commercio, saldamente in mano britannica, il tavolo imperiale avrebbe sempre avuto una gamba in meno.

martedì 25 luglio 2017

Guerra di Spagna

Marco Nese per il Corriere della Sera
“Ma che senso ha la richiesta della sindaca di Durango, in Spagna?”.
Dalla sua campagna, a San Sepolcro, in Toscana, parla Bernardo Monti, figlio di Luigi Monti, uno dei piloti che il 31 marzo 1937 parteciparono ai bombardamenti degli S81, i Savoia-Marchetti, sul centro abitato di Durango, in territorio basco.
La sindaca Aitziber Irigoras vuole far causa agli aviatori italiani che provocarono distruzioni e, secondo una ricostruzione, ben 289 morti. Come ha raccontato l’altro giorno Aldo Cazzullo sul nostro giornale. “Di quei piloti - dice Bernardo Monti - non ne è rimasto in vita neppure uno, mio padre morì nel 1980, e allora contro chi si può far causa?”.
I piloti fascisti andarono in Spagna a combattere per Franco quasi come privati, sui loro velivoli le insegne italiane erano sostituite da simboli, per non compromettere Mussolini. Una squadriglia per esempio sfoggiava sulla fusoliera uno scarafaggio, la Cucaracha. 
Gli ufficiali che guidarono i loro aerei a sganciare tonnellate di esplosivi furono elogiati e decorati. E non hanno mai rinnegato i loro eccidi. “Mio padre - racconta Bernardo Monti - parlava poco delle operazioni alle quali aveva preso parte. Io sono venuto a conoscenza di qualcosa grazie a un suo compagno, il generale Aurili. E quello che ho appreso erano sentimenti di orgoglio, si trattava di giovani volontari, convinti di stare dalla parte giusta, avevano degli ideali che non si possono valutare con la mentalità di adesso”.
Forse però l’ufficiale Luigi Monti, nel suo intimo, immaginava che in futuro lo avrebbero accusato di aver provocato la morte di gente inerme. Scrisse un diario dei primi tre mesi del 1937 e per quelle pagine concepì un titolo che suona quasi a propria giustificazione: “Sono un aviatore, non un criminale”. 
Ciò che colpisce nelle parole che l’aviatore Monti annota su un quaderno a quadretti, con inchiostro blu, è la freddezza, l’assenza di emozioni, sia quando descrive uno scontro aereo che quando ci dà notizia di bombardamenti sui villaggi spagnoli. Frasi secche, una burocratica registrazione dei fatti. 
Il 9 gennaio 1937 si lamenta perché non ha “avuto il piacere di vedere apparecchi rossi nemmeno per poter osservare come sono fatti”. E quando gli capita per la prima volta di ingaggiare battaglia con un Polykarpov sovietico, “lo mitraglio e gli vado addosso fin quasi a investirlo”. Da questo punto di vista, la guerra di Spagna fu anche un assaggio della Seconda guerra mondiale, un’occasione per valutare i rispettivi mezzi bellici. 
L’11 febbraio l’ufficiale Monti rischiò seriamente di morire. Ebbe uno scontro prolungato con aerei nemici, fu una di quelle battaglie infernali che piacciono ai registi cinematografici, ne uscì vincitore ma finì in territorio nemico, a corto di carburante e si salvò in modo avventuroso. L’episodio è stato poi raccontato nel romanzo L’espoir, La speranza, dallo scrittore e politico francese André Malraux, che partecipò alla guerra di Spagna contro Franco e con lo schieramento repubblicano. 
La squadriglia aerea di Monti, inizialmente dislocata nel Sud della  Spagna, risalì il Paese verso il territorio basco. E il 31 marzo si rese responsabile dell’attacco devastante su Durango. Anche in questo caso  il diario ci consegna la notizia secca, senza un briciolo di turbamento. Anzi, con una vena di compiacimento. “E’ questo - scrive Monti - il secondo bombardamento di Durango, l’azione è veramente spettacolare e il paese viene nuovamente centrato. I danni debbono essere stati enormi”.
Per la verità, oltre ai due attacchi italiani che si accanirono contro uomini, donne e bambini di Durango, in precedenza il villaggio era stato preso di mira anche dai tedeschi. “La legione Condor tedesca -, spiega Ferdinando Pedriali, storico della guerra di Spagna, che ha dedicato pagine proprio agli attacchi su Durango - mirava a distruggere la stazione ferroviaria, ma commise uno sbaglio madornale e le bombe finirono sul centro abitato”.

Marco Nese

Il Gattopardo

Bruno Giurato per Linkiesta
Un paradosso che dice tutto: un libro che entra nell'immaginazione comune per una cosa che non ha detto. A cui tutti, dalla vulgata giornalistica in poi, attribuiscono una morale che nel testo non c’è. La famosa frase: “bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com’è”, da cui nascono i vari "gattoperdesco", "gattoperdismo", "gattopardi", è l'esatto contrario di quanto mosta (e dimostra) il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, di cui si celebrano i 60 anni dalla scomparsa.
Il gattopardo non esprime nessuna continuità e nessuna sopravvivenza dei vecchi. Anzi dalla prima all’ultima pagina è il racconto di una decadenza e di una fine di un mondo. La frase famosa viene continuamente smentita: nel libro niente rimane com’è, tutto invece decade e finisce come il cane Bendicò, prima imbalsamato e poi buttato via: “in un mucchietto di polvere livida”. 
L’altro aspetto originale del libro è che a raccontare questa decadenza di una classe sociale sia un autore che appartiene alla medesima classe sociale, attraverso un personaggio anche lui interno a quel mondo. Il Gattopardo è l’autofiction di una morte, individuale e sociale. Altro che romanzo del “tutto rimanga com’è”.
Un romanzo sulla decadenza della nobiltà, e sulla morte, raccontato da un nobile. Ma cos’è la nobiltà? Secondo lo stesso Lampedusa è il “miglior sistema inventato dall’uomo per avvicinarsi all’immortalità fisica”: un nobile è l’unto di una tradizione culturale che vuole farsi naturale: porta nel nome, nel casato, nei tratti del viso, nella galleria dei ritratti degli antenati, negli usi di famiglia, lo stigma di una continuità che si vorrebbe durasse da sempre e per sempre. Qualsiasi ripetizione -ovvio- è una rivalsa contro il “devouring time”. Dalle rime di una lirica al giro di frase di un proverbio, dall’oscillazione di un ritmo di tamburo alla ritualità della festa. Tutti modi per perpetuare un contenuto. Spesso sono modi anonimi. Solo nella nobiltà il “da sempre e per sempre” assume i connotati fisici di una persona. Il nobile in un certo senso è un dio, la sua fine raccontata in forma di autobiografia è un documento fuori dal comune. 
La grandezza del Gattopardo, e di chi l’ha scritto, sarebbe tutta qui se non ci fossero mille cementiere di immondizia e incomprensioni da rimuovere.
Una bella frase di Kant nella Critica del Giudizio: le “idee estetiche”, cioè le opere d’arte, sono “quelle rappresentazioni dell’immaginazione che danno occasione di pensare molto senza che però un qualunque pensiero o concetto possa esser loro adeguato”. La grande opera stimola l’interpretazione infinita, quella fallita ci lascia con dei monconi di pensiero.
Ora, a dare uno sguardo alla bibliografia sul Gattopardo ci si fa l’idea di un’opera non riuscita. Alla pubblicazione del romanzo, nel 1958, il “caso Gattopardo” ha tenuto banco tra i critici letterari italiani. Centinaia gli interventi d’occasione sulle pagine dei quotidiani e delle riviste, a volte intelligenti, altre meno, ma analisi lunghe, esempi di ‘molto pensare’ ce ne sono pochissimi. Ad oggi gli unici libri di rilievo su Lampedusa ed il suo romanzo sono quello di Giuseppe Paolo Samonà (“Il Gattopardo, i racconti, Lampedusa”, La nuova Italia, 1974) e quello di Francesco Orlando (L’intimità e la storia, lettura del Gattopardo, Einaudi, 1998). Qui casi sono due: o il Gattopardo è un cattivo romanzo, o la critica letteraria italiana, spesso così zelante nel dare giudizi di valore, ha dato nel complesso una misera prova quando si trattava semplicemente di leggere un libro importante. Siamo per la seconda ipotesi.
E perché i critici italiani, salvo pochissime eccezioni non hanno capito il libro? Perché il tessuto stilistico e narrativo del Gattopardo è fatto di dissimulazione e di umorismo molto più di quanto comunemente si creda, caratteristiche formali che la critica italiana ha sempre digerito male.
Le parti che sembrano dichiarazioni d’autore vengono sempre contraddette dai fatti, in una trama in cui il non-detto ha un’importanza essenziale. Per leggere il romanzo ci vuole molta attenzione al testo. E magari alla biografia dell’autore: non come “causa” e verità del testo, piuttosto come romanzo parallelo. Il Gattopardo è una sorta di reazione chimica implosiva tra reticenza meridionale e umorismo e understatement inglese.
Tra l'altro Giuseppe Tomasi di Lampedusa, con la cultura italiana aveva poco a che vedere, la considerava troppo astratta e accademica. Non sopportava l’opera (“l’urlo di amore e d’odio si incontra solo nell’opera e presso la gente più incolta, che sono poi la stessa cosa”), detestava giganti delle patrie lettere come Carducci (“Guglielmo dall’ardua fronte serena, dice di Shakespeare. E’ la sua mille e unesima fesseria”), mal soffriva Ariosto (“uno dei non pochi difetti del Furioso è l’assoluta ignoranza di Ariosto del problema temporale: non si sa se l’azione si prolunghi per un pomeriggio o per venti anni”).
Per Lampedusa delizia storica essenziale sono gli scrittori minori: i “fornitori di spirito” di un’epoca (“Per conto mio, pazienza, cattivo gusto e stomaco forte aiutanti ho letto molta di questa roba...Sgrammaticati, illogici, isterici, ignoranti, fatui, snob...essi sono il ritratto di Demos, nostro signore e padrone. Occorre conoscerli”). Uno dei peccati originali della letteratura italiana è proprio la mancanza di minori leggibili (“La letteratura italiana è come un grande palazzo in cui vi sia soltanto un quadro di Raffaello... tre vasi cinesi e due maioliche. Senza una tavola, senza una sedia, senza un armadio. Inabitabile...Se dovete compiere un viaggio di sei ore in treno Marryat o Ainsworth vi saranno piacevoli compagni. Mentre se avrete in tasca la Teresa Strozzi di Rosini vi ritroveranno impiccati al portabagagli”).
Il fatto è che questo nobile dell’arte aveva un concetto per nulla sacrale. Per lui il sublime è un incidente di percorso, non una missione o un programma. Il Gattopardo è figlio non del conato verso l’assoluto, ma del gusto manovalesco per la letteratura. Il cugino Lucio Piccolo aveva ottenuto riconoscimenti con le sue poesie. Così Lampedusa: “avendo la matematica certezza di non essere più fesso di lui mi sono seduto al tavolino e ho scritto un romanzo”. Eppure i capolavori nascono anche così: chiedete ai rapsodi greci, ai guitti del teatro elisabettiano, agli ex galeotti spagnoli. Chiedete a quel galoppino londinese che a ventidue anni scrisse i Pickwick Papers un boccone a settimana, per pagarsi la pagnotta.
Nato a Palermo nel 1896, cresciuto in buona parte all’estero, sposato con la baronessa lettone Alessandra Wolff Stommersee, Lampedusa aveva letto in originale e per sport praticamente tutta la letteratura europea (Francesco Orlando parla di “pacato dominio di tre o quattro letterature”). Quando il cugino Lucio Piccolo, scoperto poeta da Montale, andò ad una riunione di letterati a San Pellegrino, Lampedusa lo accompagnò, ed ebbe l’occasione di conversare con i “marescialli”. “Adesso sono matematicamente sicuro di essere il solo in Italia ad aver letto Martin Tupper. Cecchi e Montale lo ignorano, sia detto a loro lode”. I cugini Piccolo celiavano sul suo aver letto tutti i libri: chiamavano Giuseppe “il Mostro”
La testimonianza la si trova nella Letteratura inglese e nella Letteratura franceseche Lampedusa scrisse per un ciclo di lezioni al diciottenne Francesco Orlando. Milletrecento pagine fitte, nell’edizione Meridiani Mondadori delle opere complete di Lampedusa, che si leggono, come si dice, in un soffio, piene di umorismo, cattiverie gratuite, idiosincrasie, entusiasmi. Lampedusa racconta Stendhal e Keats, Racine e Blake, Shakespeare (i Sonnets quasi uno per uno), ma anche Eliot e Joyce, Virgina Woolf. Si diverte assai con i diari di Samuel Pepys, e con l'inquietante risata metafisica che è il Pickwick.
Ed è nella letteratura inglese che si trovano i primi antecedenti al Gattopardo. Il paragone sempre tirato in ballo tra il Gattopardo e Stendhal è più esteriore che sostanziale. Ha ragione il figlio adottivo di Lampedusa, Gioacchino Lanza Tomasi quando scrive: “Dickens più di Stendhal è il vero biglietto d’accesso per chi voglia comprendere il fenomeno Lampedusa”. Tre titoli per leggere il Gattopardo: Il circolo Pickwick per l’umorismoAmleto per il senso di finitezza, Misura per misura per l’ambiguità etica. Ne aggiungiamo un quarto: Gli Anni della Woolf per la struttura ‘a salti’.
E torniamo a bomba. Dell’umorismo –nero- del Gattopardo qualcosa abbiamo già detto sopra. “Bisogna che tutto cambi se vogliamo che tutto rimanga com’è” dice Tancredi, disinvolto e pieno di charme all’inizio del libro. Falso: tutto crollerà, persino la memoria del prestigio familiare. Con tanti amari sberleffi: nella parte ottava del libro, quella che si svolge dopo la morte di Don Fabrizio, notiamo il nipote dei Salina “rabbiosi e superbi”, Fabrizietto, sfilare per le celebrazioni dello sbarco dei Mille davanti ad un cartello con tanto di scritta “Salina” a “lettere di scatola”. Ma gli omina finis nel Gattopardo si nascondono ovunque, e i più efficaci sono proprio quelli che saltano meno all’occhio, come la scena quasi comica in cui Don Fabrizio annuncia a Stelluccia il matrimonio ‘ignobile’ che unirà i Salina ai Sedara.
Perfino la struttura del romanzo è fatta di non detto. Rubiamo una considerazione a Gabriele Pedullà: “Corriamo dall’analessi alla prolessi, mentre ai fatti principali [lo sbarco dei Mille, il matrimonio di Angelica e Tancredi, eccetera..], che avrebbero attirato l’attenzione del romanziere tradizionale sono riservate le pagine bianche che separano un capitolo da quello che lo segue o lo precede”.
Al centro di tutta questa dialettica irrisolta, spaesante, irritante, c’è naturalmente Don Fabrizio Salina. Come nota Francesco Orlando si tratta di un personaggio “intellettuale”, un “critico”, un insoddisfatto della realtà; ma da Edipo ad Amleto, fino al Bazarov di Tugenev, l’intellettuale è tradizionalmente un figlio, mentre Don Fabrizio è un padre, anzi di più: un pater familias nobile, custode delle tradizioni e della memoria di un casato. Intellettuale e padre: come dire progressista e conservatore, sognatore dell’età dell’oro e cosciente della finitezza, “cipiglio zeusiano” e uomo senza qualità.
Il principe-astronomo cerca consolazione nelle stelle, docili al calcolo, paradigma di conoscibilità del mondo. Ma una sera “invece di vederle atteggiarsi nei loro usati disegni, ogni volta che alzava gli occhi scorgeva lassù un unico diagramma: due stelle sopra, gli occhi; una sotto, la punta del mento; lo schema beffardo di un volto triangolare che la sua anima proiettava nelle costellazioni quando era sconvolta”. Altro che lirismo di cui vanno dicendo alcuni critici: qui c’è il cosmo che si ribella, il ‘rimpicciolimento’ progressivo di un protagonista sempre più affannato, la caduta di un mondo. Il libro è la narrazione analitica di una morte e di una decadenza riflesse nel protagonista.
C’è bisogno di Don Fabrizio della sua angoscia per tendere i fili alla macchina narrativa, per dispiegare il racconto umoristico ed ellittico: la sua sofferenza accettata, il suo “corteggiamento della morte” sono la struttura portante del libro.
Non a caso l’atto finale del romanzo è un atto simbolico di rifiuto dell'angoscia. Così Concetta, dopo la morte di Don Fabrizio, nell’ultima parte: “Continuò a non sentire niente...soltanto dal mucchietto di pelliccia [il cane Bendicò, impagliato dopo la morte] esalava una nebbia di malessere...financo il povero Bendicò insinuava ricordi amari. Suonò il campanello. ‘Annetta’ disse ‘questo cane è diventato veramente troppo tarlato e polveroso, portatelo via, buttatelo’”.
La figlia che non vuole sapere nulla della morte, che immagina un oltretomba “completo di magistratura, cuochi, conventi e orologiai” distrugge la possibilità di rappresentare. L’esperire si appiattisce sulle cose. Il libro, né più né meno, collassa su se stesso, crolla. Il Gattopardo è una narrazione/ossidazione, che finisce “in un mucchietto di polvere livida”. Tutto non rimane com’è. Tutto finisce.

IL PANE

  Maurizio Di Fazio per il  “Fatto quotidiano”   STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...