Laura Laurenzi per il Venerdì-la Repubblica
Cosa cambia sapere che Beckett portava solo le Clarks, quelle morbide, di camoscio, e che Virginia Woolf ha ispirato la moda come nessuno mai prima di lei? O che Edgar Allan Poe vestiva - guarda caso - solo di nero e Tom Wolfe soltanto di bianco?
È uscito nei giorni scorsi negli Stati Uniti un libro che racconta il rapporto mai accidentale fra i grandi letterati e gli indumenti e gli accessori, anche soltanto gli occhiali o i cappelli, da loro prescelti per mettersi in scena, posare davanti al fotografo, consegnarsi ai posteri, definirsi, creare.
Si intitola Legendary Authors and the Clothes They Wore, scritto da Terry Newman (Harper Design editore, pp. 206, euro 27,21 su Amazon) un catalogo ragionato su gusti, tic, abiti e abitudini legati al narcisismo degli scrittori. Sarà uno di loro, Mark Twain, a spiegare come stanno le cose: «L' abito fa il monaco. In società le persone nude non contano quasi niente».
Cosa cambia nella nostra percezione sapere, per esempio, che Saul Bellow prediligeva i Borsalino italiani, solo modello Fedora, e che la ruvida e virile Gertrude Stein con i soldi guadagnati con il suo primo best-seller corse a comprare non solo una Ford otto cilindri, ma anche un sontuoso cappotto da Hermès?
Il legame fra moda e letteratura è molto più saldo di quanto non sembri; una influenza l' altra è l' assioma su cui è costruito questo saggio.«Leggere una collezione di moda può essere come leggere un libro: è una miniera d' oro di referenze, influenze, ricerca, creatività» scrive Terry Newman.
Il testo si apre con una frase di Diana Vreeland, incontrastata sacerdotessa della couture: «Dove sarebbe la moda senza la letteratura?». Il ragionamento è elementare: le scelte legate all' abbigliamento rivelano molto non solo sul gusto degli scrittori, ma anche sulla loro personalità, sulle loro emozioni, sul loro temperamento. È ovvio quindi che le case di moda guardino ai letterati come loro fonte di ispirazione, spesso molto in anticipo sui tempi.
George Sand, per esempio, fu un' antesignana dello stile transgender, fluttuando elasticamente da un sesso all' altro, felice di potersi abbigliare da uomo o da donna a suo piacimento: «La vanità è la più dispotica e la più iniqua dei padroni» riconobbe senza sottrarsi. Pioniere ante litteram della moda grunge fu senza dubbio Arthur Rimbaud, riottoso e insolente teenager precursore non solo della giacca destrutturata (leggi ridotta a un cencio) ma anche dei pantaloni istoriati di strappi e di buchi.
Usava gli abiti come un' armatura per proteggersi dal mondo Sylvia Plath, ma a nulla valsero i suoi twin-set così preppy, il suo doppio filo di perle, i suoi sforzi per somigliare a una mogliettina devota e convenzionale. Nulla riuscì a preservarla dal suicidio.
A fare di Virginia Woolf l' influencer numero uno - se riusciamo a dimenticare che anche lei si tolse la vita - è lo stile easy e soprattutto la naturalezza con cui la scrittrice mixava e contaminava generi opposti: gli scialli da sera con gli scarponcini infangati, i grembiali da giardinaggio con le stole di pelliccia, i lunghi cardigan oversize con le candide bluse di pizzo vittoriano. Fu così che l' autrice di Orlando anticipò di almeno 70 anni il geek chic lanciato sulle passerelle dalla nostra Miuccia Prada.
Attualissima è ancora oggi Zelda Scott Fitzgerald, non scrittrice ma moglie, e soprattutto musa, di scrittore. Non è un caso che per le sue nozze celebrate nel 2011 Kate Moss abbia preteso un abito da sposa anni Venti identico a quello indossato da Zelda, il che valse alla topmodel un servizio fotografico di 18 patinatissime pagine su Vogue UK. Non sembrano passate di moda neanche le mise di Dorothy Parker, i soprabiti da cocktail con ricami effetto maculato, le miniborse clutch, i cappellini a cloche.
Contraddittoria nello stile e discontinua risulta invece Simone de Beauvoir, che Sartre, poco dopo averla conosciuta, definì «la ragazza vestita male con i meravigliosi occhi azzurri». Nessuna tuttavia porterà il turbante con maggiore eleganza, nessuna andrà a una marcia pro aborto indossando una sontuosa pelliccia di visone come fece lei.
Se Hemingway viene catalogato come un hipster ante litteram, è a Proust e naturalmente a Oscar Wilde che va la palma dei più dandy. Il primo, Proust, con i suoi guanti bianchi, l' immancabile orchidea cattleya all' occhiello e il soprabito foderato di pelliccia. Il secondo, Oscar Wilde, perso a specchiarsi con il suo inenarrabile guardaroba fatto di cappe di velluto marezzato, cappelli a falde larghe, preziose giacche dal taglio esotico. «La moda è effimera» teorizzò «mentre l' arte è eterna. Che cos' è in realtà la moda? È una forma di bruttezza così assolutamente insopportabile che dobbiamo alterarla ogni sei mesi».
Per dirla in modo più chiaro: «Un vestito malfatto è esecrabile da guardare, costoso da comprare, inutile da indossare». C'era all' opposto chi perseguiva la sobrietà a ogni costo, tendenzialmente elevato. Il più impeccabile risulta certamente T.S. Eliot, con i suoi immutabili Three Piece Suits, sempre scuri, super classici.
Solo bianchi quelli di Mark Twain, meglio se di lino; solo bianchi, pure d' inverno, di uno speciale tweed candido, anche quelli di Tom Wolfe, la scelta di chi non vuole sporcarsi le mani; almeno cento, variati, quelli di Gay Talese, figlio di un sarto colpito da improvviso benessere. Scelse il tutto bianco, man mano che gli peggiorava il glaucoma, anche James Joyce, convinto che il chiarore della sua giacca potesse in qualche modo riflettersi sulla pagina che stava scrivendo, rendendogli più agevole la rilettura.
E in Italia? Il libro non cita nessun nostro scrittore e, a parte il basco di Ungaretti, il panama di Pirandello, i maglioni sgargianti di Moravia, il panorama si profila claustrofobico. Certo anche noi abbiamo il nostro dandy in Gabriele D' Annunzio: un dandy a luci rosse iperattivo come un fashion blogger. Nel suo campo era multitasking: un elegantone fanatico delle stoffe più raffinate, possessore - narra la leggenda - di 365 vestaglie in seta pura, una per ogni giorno dell' anno, e insieme, da giovane, cronista non solo di mondanità, merende di gala, duelli, ma anche di moda per la Tribuna, per La vita a Roma, per Capitan Fracassa. E infine creatore di moda egli stesso, per sé (non facile compito quando si è alti 1,60) ma soprattutto per le amanti cui disegnava speciali sete stampate, meglio se nei colori rosso e blu, i colori di Fiume.
Seguiva la moda degli anni Settanta Pierpaolo Pasolini, dal fisico tonico e allenato da calciatore: giubbotto di pelle (che ancora non si chiamava chiodo), polo aderente in maglina di jersey, pantaloni smilzi a lieve zampa d' elefante. Non deve stupire che a quarant' anni dalla sua morte a Pitti Uomo uno stilista lo abbia celebrato dedicandogli la sua nuova collezione, strategia commerciale di marketing che Pasolini avrebbe aborrito.
Alberto Moravia aveva un senso estetico molto sviluppato che gli impediva qualunque trasgressione. Il massimo che poteva concedersi era qualche colore forte, brillante, acrilico, come il rosso fuoco del maglione nel ritratto fedelissimo che gli fece Renato Guttuso nel 1982.
Era diventato quasi un' attrazione per turisti, nei primo scorcio della Dolce Vita, Vincenzo Cardarelli, soprannominato «il più grande poeta italiano morente» a causa del suo aspetto non in salute. Amava trascorrere le sue serate estive seduto al caffè Doney di via Veneto infagottato nel suo cappotto a spina di pesce con tanto di sciarpa e lobbia di lana, anche a ferragosto. Nessuna ricercatezza, nessun orpello, nessuna concessione frivola e nessun segnale di vulnerabile femminilità in Natalia Ginzburg. Era una donna frugale cui non piaceva mettersi in mostra, vestirsi in modo vistoso, figuriamoci truccarsi o esporsi a sguardi estranei. Preferiva stare in silenzio. E concentrarsi sulla parola scritta.
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