domenica 20 agosto 2017

Piano Marshall

La mania di imitare Marshall Il Piano che cambiò la storia

Visioni Settant’anni fa mutò il corso del nostro continente. Un programma simile è stato invocato per Europa orientale, Africa e mondo intero. Ecco come andarono le cose

Fu un’acuta intuizione politica del presidente americano, Harry S. Truman, un democratico, quella di nominare segretario di Stato, nel 1947, George P. Marshall e di volere che il più grande piano di cooperazione internazionale mai realizzato venisse denominato «Piano Marshall» e non «Piano Truman». Disse Truman: puoi immaginare quale possibilità di essere approvato avrebbe avuto, in un anno di elezioni, in un Congresso repubblicano, se fosse stato chiamato «Piano Truman», invece di «Piano Marshall»? Truman ha lasciato scritto nelle sue memorie che «Marshall è il più grande uomo della Seconda guerra mondiale», l’«architetto della vittoria», l’uomo che ha saputo andare d’accordo con Roosevelt, Churchill, il Congresso americano, la Marina e lo Stato maggiore.
L’European Recovery Program, quello che viene definito correntemente Piano Marshall, aveva alle spalle un programma delle Nazioni Unite — United Nations Relief and Rehabilitation Administration (Unrra) — del 1943, a capo del quale fu Fiorello La Guardia, geograficamente più vasto, ma finanziariamente più limitato.
Il Piano Marshall — di cui festeggiamo il settantennio — fu un misto di calcolo politico e di generosità. Ispirato da George Kennan, che reggeva l’ambasciata americana a Mosca, e temeva che l’Europa cadesse nell’orbita sovietica (una preoccupazione che nel 1949 spinse anche a istituire la North Atlantic Treaty Organization — Nato), fu annunciato il 5 giugno 1947 da Marshall in un discorso di 11 minuti, tenuto durante una cerimonia alla Harvard University. Marshall spiegava in quel discorso, rivolto ai suoi concittadini, che in Europa c’erano povertà, fame, disperazione, caos; che vi era bisogno di una cura per tutto questo, non di un palliativo; che lo scopo era di restaurare un futuro economico per l’Europa, senza farsi prendere da passioni o pregiudizi.
Il Piano ebbe dimensioni finanziarie gigantesche, circa 13 miliardi di dollari dell’epoca, corrispondenti a 150 miliardi attuali di dollari (più del 10 per cento del budget federale). Durò quattro anni. Fu guidato da un’apposita amministrazione, l’Economic Cooperation Administration. Fu offerto anche ai Paesi dell’Europa dell’Est e all’Unione Sovietica, che rifiutarono. Ne beneficiarono, quindi, sedici Paesi dell’Europa occidentale (non la Spagna, allora sotto il dittatore Francisco Franco). Fornì all’Europa cibo, carbone, acciaio, petrolio, fertilizzanti, macchinari, risorse finanziarie in forma di sovvenzioni e di prestiti.
Ciò che oggi stupisce del Piano Marshall non è tanto la dimensione finanziaria, quanto quella organizzativa e amministrativa. Richiese l’invenzione di nuovi modelli di cooperazione internazionale e uno sforzo gestionale enorme, che coinvolgeva sedici Paesi, alcuni dei quali erano stati fino a poco tempo prima in guerra tra loro. Dovette superare forti contraddizioni: basti dire che, dopo la guerra, alla Germania, allora divisa in due, era stata imposta la smobilitazione industriale. Fu possibile perché Marshall aveva ben riconosciute doti non solo militari, ma anche amministrative e diplomatiche: non era stato solo 45 anni nell’esercito, capo di Stato maggiore dal 1939 al 1945, ma aveva trattato anche con la Cina e con le Filippine, era consapevole dei disastri che un mondo diviso avrebbe provocato.
Il Piano Marshall è stato all’origine dellari presa economica dell’Europa, duramente colpita dal secondo conflitto mondiale e all’inizio del miracolo economico italiano, nonché dei progetti di cooperazione europea. Nel Rapporto della Brookings Institution di Washington per la commissione Affari esteri del Senato americano, del 22 gennaio 1948, che presentò le linee guida del Piano, si legge, infatti, che uno dei risultati attesi del Piano era che «l’Europa si dia una organizzazione permanente sulla base di un accordo multilaterale».
L’Organizzazione per la cooperazione economica europea (Oece) fu infatti istituita il 16 aprile 1948 per controllare la distribuzione degli aiuti del Piano Marshall e favorire la cooperazione e la collaborazione fra i Paesi membri. Fu la prima organizzazione sovranazionale a svilupparsi in Europa nel dopoguerra. Nel 1961 l’ Oecef uri organizzata e trasformatane ll’ Organizzazione perla cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Nel frattempo (1951), era nata la prima delle comunità europee, la Comunità del carbone e dell’acciaio (Ceca).
Oggi, Piano Marshall è divenuto una metafora per indicare ogni intervento su larga scala per risolvere un problema sociale che riguardi più nazioni, tanto che
sono state affacciate proposte di un «Piano Marshall per l’Europa orientale», di uno per l’Africa e persino di un «Piano Marshall globale».
Sul Piano Marshall la Brookings Institution di Washington, il più antico think
tank americano (1916), che collaborò a suo tempo all’ideazione del Piano, ha ora pubblicato un piccolo volume a cura di Bruce Jones The Marshall Plan and the
Shaping of American Strategy («Il Piano Marshall e la definizione della strategia americana»), in cui sono raccolti tre fondamentali documenti: il discorso di George Marshall del 5 giugno 1947 ad Harvard, il rapporto Brookings alla commissione senatoriale degli Affari esteri del 22 gennaio 1948, e il discorso di Marshall a Oslo, il 10 dicembre 1953, alla cerimonia in cui gli venne consegnato il premio Nobel per la pace. Tre documenti preceduti e seguiti da una prefazione e da una postfazione di inquadramento storico dei documenti e di esame della lezione che oggi può trarsi dall’esperienza del Piano Marshall.
Gli insegnamenti di questa grande impresa sono tre. Il primo riguarda la sua concezione. Essa fu possibile per il confluire di tre diversissimi elementi. L’esigenza degli Stati Uniti di far fronte comune con l’Europa nel contenere l’espansionismo sovietico. L’ispirazione umanitaria di quegli americani che avevano visto con i propri occhi le condizioni disastrate dell’Europa. L’idealismo e la capacità di analisi di gruppi di intellettuali e collaboratori di uomini politici: tra questi, in primo luogo, Leo Pasvolsky, che era stato uno dei redattori della Carta delle Nazioni Unite, aveva lavorato alla Brookings. Ma con lui persone come Isaiah Berlin, Jean Monnet, Charles P. Kindleberger, che, in vario modo e con diverse responsabilità, lavorarono per il grande progetto.
Il secondo insegnamento riguarda la lezione di metodo. La lettura del Rapporto Brookings per la Commissione senatoriale è un’autentica lezione di scienza amministrativa e di tecnica di governo per la straordinaria lucidità con la quale furono esaminati i problemi che si ponevano e passate in rassegna le soluzioni possibili.
Il terzo insegnamento riguarda le alternative aperte all’America di quegli anni:
America on its own, cioè isolazionismo (ma, nello stesso tempo, assunzione di responsabilità internazionali americane); Union of Democracies, cioè modello Nazioni Unite; oppure global network of regional arrangements, cioè un ordine multipolare. Sono alternative ancora oggi aperte. E qui si può apprezzare il fine scopo politico del libro, che si chiude con i riferimenti alla Trans-Pacific Partnership (Tpp) e con evidenti cenni critici alle scelte dell’attuale presidente americano.
Il 10 dicembre 1953, ricevendo a Oslo il Premio Nobel per la Pace, George Marshall, il primo soldato a ricevere tale riconoscimento, cominciò il suo discorso ricordando la pax romana, durata due secoli, e affermando che l’umanità aveva camminato a occhi chiusi, ignorando la lezione del passato. Ricordò i morti del secondo conflitto mondiale. Auspicò tre great essentials to peace, grandi fattori essenziali di pace. In primo luogo, una migliore educazione. Poi, l’apertura delle nazioni alla cooperazione. Infine, reggimenti democratici, ma aggiungendo che «i principi della democrazia non fioriscono in stomaci vuoti».
Il presidente Truman, allo scoppio della guerra di Corea, nel 1950, nominò George Marshall ministro della Difesa e, una volta lasciata la carica presidenziale, richiesto, in una intervista televisiva, di chi fosse la persona che più stimava, rispose che questo era Marshall, perché non vi era stato, nel corso della sua vita, un amministratore più grande di lui, né un uomo che conoscesse meglio di lui i problemi militari.

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