ARTE
Il timido mestier del «conciatetti»
Tra i suoi ricordi dell’isola di Laputa, uno in particolare era rimasto fortemente impresso nella memoria di Gulliver: quello dell’«architetto molto ingegnoso che aveva escogitato un nuovo metodo per costruire le case, cominciando dal tetto e lavorando all’ingiù, fino alle fondamenta».
Per Jonathan Swift, caustico autore dei Gulliver’s Travels, Laputa - i cui abitanti non erano in grado di affrontare l’aspetto pratico della vita - era la rappresentazione della «scienza inutile», di quell’accademismo vuoto che confonde la sperimentazione con l’evasione deliberata dalla realtà. A Laputa infatti scienziati e filosofi perdono tempo ad inseguire teorie tanto astruse quanto astratte (dall’estrazione di raggi di sole dalle zucche alla produzione di polvere da sparo dal ghiaccio), di cui quella dell’architetto «all’incontrario» era l’epitome più significativa.
Eppure al “paradosso del tetto” - la parte più visibile ma anche la più oscura di ogni costruzione - si è voluto riferire l’architetto cremasco Marco Ermentini nel suo progetto di restauro conservativo del castello di Pandino (in provincia di Cremona), che è partito appunto dal tetto per scendere poi gradualmente alla messa in sicurezza delle mura e delle fondamenta.
«Quando ci ricordiamo di un grande monumento - ricorda Ermentini - non ci viene mai in mente la sua copertura, al punto che neppure esiste una storia dell’architettura basata sui tetti. Tuttavia le coperture, oltre a costituire la vera essenza degli edifici, sono le parti più vere: qui non l’inutile ha ispirato l’architettura ma la necessità».
Una convinzione maturata sul campo, anzi sul cantiere del suo lavoro più impegnativo, visto che proprio il restauro del castello visconteo è il protagonista di un libro che ne narra la storia della rinascita sotto forma di diario . Una “storia di tetti”, però, non un trattato scientifico né una nuova teoria, che anzi di entrambi nutre una profonda diffidenza per la tendenza a generalizzare e a prescrivere comportamenti che mal si adattano alla specificità di ogni singolo caso. «Quella dei tetti - confessa- è diventata per me una vera e propria ossessione: se ci pensiamo bene il tetto è per i nostri edifici un elemento fondamentale quanto dimenticato o sottovalutato al rango di elemento tecnico. In realtà penso che il tetto sia a suo modo la quinta facciata di un edificio, che ne consente la conservazione mentre predispone ambienti che in molti casi costituiscono una sorprendente passeggiata architettonica: luoghi da esplorare in silenzio e con circospezione, armati solo di una torcia».
La passeggiata nei sottotetti del castello che Bernabò Visconti fece erigere a partire dal 1361, assume nelle parole di Ermentini il tono ispirato che Le Corbusier aveva usato per descrivere la promenade architecturale della sua famosa Ville Savoye: ma con il segno invertito. Tra gli intrecci di travi maestose, di travetti e di listelli e le fila dei coppi, si scopre e si tocca con mano la continuità della storia, non la sua lacerazione. È la riscoperta della ripetizione di gesti semplici ispirati dalla sperimentazione dell’uso, dal tramandarsi delle tecniche costruttive e dall’adeguatezza dei materiali: il legno delle strutture portanti, il cotto dei coppi delle coperture. L’accurata analisi delle condizioni di ogni singola porzione di tetto è come l’auscultazione del corpo praticata dalla medicina tradizionale prima che la diagnostica fatta dalle macchine sostituisse gli atti elementari del toccare, annusare e manipolare: l’unico mezzo, ancor oggi, per individuare debolezze e punti critici prima di intervenire con risolutezza per salvaguardarne gli elementi originali ancora integri e sani. Una formula che ha convinto Fondazione Cariplo a finanziare con generosità il progetto di recupero, che ha consentito di risolvere l’annoso problema delle infiltrazioni d’acqua che rischiava di compromettere in maniera irreparabile le pareti affrescate e di condizionare il ritorno del castello alla sua antica vita. In termini più generali è quella che il Codice dei beni culturali del 2004 chiama conservazione programmata e manutenzione costante, sottolineandone il valore di buona pratica anche dal punto di vista dello sviluppo della conoscenza e raccomandandone il ricorso contro l’idea del restauro “miracoloso” che promette soluzioni radicali ed eterne contro la faticosa preoccupazione della cura giornaliera.
Non a caso Ermentini ha evocato la figura del sarcitector raccontata da Isidoro da Siviglia nella sua Enciclopedia del mondo antico: il riparatore dei tetti che, issato da funi sulla sommità della fabbrica, ispeziona una ad una coppe e tegole, ne verifica lo stato e ne sostituisce gli elementi ammalorati. Le funi oggi sono speciali reti in nylon come quelle usate dai trapezisti nei circhi: autorizzate dalla normativa europea , evitano i costosi ponteggi e consentono ai “riparatetti” di operare agevolmente in sicurezza nel loro lavoro di ispezione e si smontaggio del manto di coppi. In tal modo a Pandino si è potuto recuperare il 60% degli elementi esistenti, mantenendo quello che in ogni restauro dovrebbe essere obiettivo primario, la conservazione della materia storica. «Non sembrava giusto - spiega Ermentini- sacrificare una trave di rovere di 600 anni , che forse è stata tagliata quando l’albero ne aveva già 100, per sostituirla con una nuova di abete tagliata solo il giorno prima. Si tratta di un discorso di durata e di ciclo di vita di un materiale, quindi di un parametro economico e morale. Inoltre, se incominciassimo a sostituire pezzo per pezzo ogni parte del castello, ci troveremmo ancora di fronte all’originale o ad un falso?».
Sono questi i principi di quello che Ermentini ha chiamato “restauro timido”, dove teoria e pratica sono la doppia faccia di uno mestiere che all’arte del costruire attribuisce il valore di antidoto a una professione che ha anteposto il mondo delle idee a quello del costruito , delle sue tecniche e dei suoi bisogni.
Nel settembre del 2000, insieme al filosofo Andrea Bortolon e all’artista Aldo Spoldi, Ermentini ha fondato all’Accademia milanese di Belle Arti di Brera, l’associazione Shy Architecture, per promuovere quell’atteggiamento “timido” che si ispira alla lapidaria risposta del protagonista dell’omonimo racconto di Herman Melville, Bartleby lo scrivano: «I would prefer no to» (preferirei di no).
A che cosa dice di no, il restauro timido? Alla mania del demolitore, innanzitutto. Poi alla “sindrome della norma” che, con la scusa dell’aggiornamento tecnologico, impone al patrimonio storico il flagello di modifiche senza fine. Alle smanie di grandezza degli sponsor - che hanno sostituito col marketing il mecenatismo del passato - costringendo gli edifici ad usi(in realtà abusi) che ne distruggono il valore di memoria per esaltarne quello d’uso. Alle malattie della “decorticazione”, infine, già aspramente condannate duecento anni fa dall’ «anti-scrape movement» di William Morris per difendere i monumenti dalla deprecabile tendenza a spogliarli dalle loro stratificazioni storiche e restituirli a una presunta purezza originaria che di fatto si configura come un falso storico.
La ricchezza del restauro (ma in generale dell’architettura) “timido” sta dunque in pochi ma fermi precetti, ispirati alla conoscenza materiale delle fabbriche e al buon senso: saper intervenire con poco (non cedendo alla lusinga dei grandi interventi e dei restauri costosi), ricorrere all’intervento solo quando strettamente necessario, sapersi fermare al momento opportuno, evitare la spettacolarizzazione, accettare la consapevolezza di non poter capire tutto, adottare la prudenza come linea d’azione. E ancora, rifuggire dalla bulimia del restauro che considera l’esistente come una semplice base per la pavloviana mania degli architetti di «lasciare il proprio segno», contrapporre all’economia del consumo la produzione di senso.
Avendo scelto il “coniglio” come metafora dell’architetto timido, Ermentini qualche anno fa si è messo a propagandare un nuovo medicinale - la Timidina- reclamizzandolo come «contraccettivo orale dall’alto contenuto conservativo: assunto nelle dosi prescritte, sopprime la libido demolitoria nei soggetti professionalmente a rischio e modifica le caratteristiche psichiche del soggetto ostacolando decisioni affrettate». Renzo Piano - con cui collabora nel progetto di rammendo delle periferie - intervistato in televisione, ne raccomandò l’assunzione mostrandone la scatola alle telecamere. Incredibile ma vero: il giorno dopo i farmacisti di tutta la penisola furono subissati da richieste e da telefonate. Nessuno ha saputo dire però chi erano gli aspiranti acquirenti.
© RIPRODUZIONE RISER VATA
Marco Ermentini, La Vita dei Tetti e il castello visconteo di Pandino , Associazione Giovanni Secco Suardi, Bergamo, pagg. 104, sip
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