domenica 20 agosto 2017

Plutarco

Consigli pratici per dire no

Plutarco (Cheronea, 46/48 d.C.– Delfi, 125/127 d.C.), biografo, scrittore, filosofo e sacerdote greco, vissuto sotto l’Impero Romano
Plutarco (Cheronea, 46/48 d.C.– Delfi, 125/127 d.C.), biografo, scrittore, filosofo e sacerdote greco, vissuto sotto l’Impero Romano 
La più perfetta e amabile descrizione delle Opere morali ovvero filosofiche di Plutarco si trova nel decimo capitolo del secondo libro dei Saggi di Montaigne. Esse, scrive Montaigne, sono «la parte più bella dei suoi scritti». Il loro autore possiede il fior fiore della filosofia e la presenta con la massima facilità e posatezza, senza mai affrettare il passo; ci guida senza mai sospingerci con e attraverso le sue idee platoniche in un universo sterminato di scienze, di storie, di lettere e di morale. 
Chi perciò si trova di fronte le 3200 pagine della nuova edizione di Tutti i moralia, la prima completa in italiano e col greco a fronte, non si scoraggi. Prenda, come faceva Montaigne, e lasci ciò che vuole. Si può sentirsi paghi dell’altro e assai più famoso monumento, le Vite parallele; però qui si completa e si perfeziona la personalità umana e letteraria dello storico di Cheronea. 
Le dimensioni accennate rappresentano da se stesse anche l’eccezionalità dell’impresa progettata una decina di anni fa da Giovanni Reale e compiuta da un’équipe di trenta collaboratori coordinati da Emanuele Lelli e Giuliano Pisani; pioniere quest’ultimo fin dagli anni Ottanta con tre volumi nelle Edizioni Biblioteca dell’Immagine, e qui presente direttamente per una trentina di Opere. 
Il diletto e il profitto rilevati da Montaigne stanno appunto nella grande varietà degli argomenti e nella rapidità dell’esposizione. E nella virtù eccezionale di questo scrittore, di istruire con un pensiero e con questioni serie, di interessare con la curiosità e di incuriosire e divertire con una divagazione, una storiella, un motto, qualsiasi lettore, chi coltiva e ama le lettere come le scienze, la poesia come l’etica, la solitudine come la società; chi ha difficoltà in famiglia e chi è incerto se da vecchio gli convenga o meno fare politica; chi ha problemi di debiti e chi si occupa di climi; chi ama i romanzi d’amore e chi il matrimonio; chi coltiva l’astronomia o la religione. E sempre col suo stile di trattare ogni problema attinente all’uomo concretamente e senza suscitare affanni, portandolo a soluzione pacatamente. Il banchetto da lui servito è come quello dei Sette Sapienti descritto in una delle più deliziose e più ampie di queste operette – ma non più di quindici pagine, farcito di cibi e di dispute: qual è la cosa più vecchia? indaga qualcuno: beh, il tempo: ah no, Dio; e la più grande? lo spazio, no meglio l’universo; e la più saggia? la virtù, o il tempo, che pian piano scopre tutto; la più comune? la morte, o la speranza; la più forte? la fortuna, o la necessità; la più facile? il piacere… 
Si può ben intendere come fosse molto semplice gradire e ammirare anche l’uomo Plutarco, che, immigrato a Roma dalla natìa Beozia e dagli studi accademici ad Atene, ottenne la stima di Adriano e la familiarità di Traiano, per poi tornarsene tranquillamente in patria fra il rispetto dei suoi concittadini ed esercitare il sacerdozio nel santuario di Apollo a Delfi, interessandosi di oracoli. Il suo garbo e la sua esperienza del mondo erano tali che inserì fra le Morali anche una guida sull’Arte di saper dire di no – per non fare la fine di Antipatro figlio di Cassandro, il quale per non aver saputo rifiutare un invito a pranzo, al termine del convito fu assassinato dall’ospite.
Chi, i giovani soprattutto, vuole imparare a gustare i poeti è servito in un apposito trattato. La poesia, siano accorti, ha del bello e del brutto, come nella testa del polipo c’è del buono e del cattivo e squisita al palato essa è poi nociva allo stomaco. Nutre e delizia, ma si badi, non si cura di per se stessa della verità; e l’estasi da lei suscitata non deve abbagliare e far perdere di vista per lo splendore delle forme gli elementi utili che in essa pur si nascondono, come i grappoli dell’uva sotto le foglie dei tralci. 
Per la musica Plutarco offre dapprima un’ampia inquadratura storica nell’ultimo dei Moralia (la paternità plutarchea incerta per alcuni è qui asserita dal curatore Giuliano Pisani); per svilupparne poi l’utilità nella vita sia individuale che sociale come strumento di elevazione e medicina dello spirito, se anch’essa ben regolata: come Achille rappresentato da Omero nell’Iliade, che, istruito dal sapiente centauro Chirone maestro anche di giustizia e di medicina, stempera il risentimento del suo animo contro Agamennone col suono della cetra.
Quanto all’altro nutrimento, quello del corpo, qui ci sono i Precetti igienici Sul mangiar carne. Anche per una buona salute vale l’aureo detto del giusto mezzo: le cose più salutari per il corpo sono le più semplici, e le dosi quelle parche. Certo non è sempre facile mantenersi in quei limiti, tanto più se invitati a tavola da personaggi importanti o nelle feste tra amici. Si proceda allora con cautela, pensando ad ogni portata a lasciare spazio per la successiva; non arrendersi alle convenienze per non gemere poi grandemente, secondo l’espressione di Creonte nella Medea di Euripide. 
In ogni caso, mai carne (Plutarco, per conto suo, campò fino a ottant’anni, età ragguardevole per quei tempi). Le due parti del trattato Sul mangiar carne, in cui viene suggerito il vegetarianesimo pitagorico, sono ancor più un aspro manifesto contro la “crudele sarcofagia”, come dice qui nell’Introduzione il traduttore Lorenzo Ciolfi. Poco prima, nel Sono più intelligenti gli animali di terra o di mare Plutarco ha dimostrato che tutti gli animali sono intelligenti. Se così è, ed è così, tanto più riesce rivoltante oltreché malsano e illogico il comportamento dei molti che «toccano il sangue con la bocca e imbandiscono le tavole di cadaveri chiamandoli cibi e tanto più prelibatezze», condendoli di olio, vino, miele, spezie orientali come imbalsamando un cadavere per la sepoltura (che infatti avviene, nel loro ventre).
Gli altri Consigli politici composti alla fine del secolo dall’Autore ormai rimpatriato e lontano dai grandi affari del mondo ma con grande esperienza alle spalle, insegnano a un altro giovane che vuole intraprendere quella carriera e che si è rivolto a lui per consiglio, le motivazioni, il retto fine e la retta condotta da tenere da chi vi si dedica, anzi dal “filosofo” che vi si dedica. Primo punto e fondamentale è che quella scelta abbia come base stabile e solida un movente fondato sul giudizio e sulla ragione, non un capriccio dettato da vanagloria o ambizione, o dalla mancanza di altre occupazioni. E si sappia che quel cammino è minato da complotti e inimicizie, da fazioni interne ai partiti, dalla stoltezza stessa del popolo, il cui amore più forte va spesso, come quello delle cortigiane, a chi elargisce spettacoli o regali, mentre di tutti gli amori il più forte e divino è quello che città e popoli nutrono per una sola persona a causa delle sua virtù. Non per questo il politico buono e saggio deve nemmeno incedere arcigno, arrogante e odioso, bensì, come del resto ogni uomo dabbene, egli sarà affabile e disponibile verso chiunque, mostrerà premura e umanità rendendosi utile agli altri e condividendo «il dolore di chi fallisce e la gioia di chi ha successo».
Tutto ciò è trasferito ed esposto nella pratica e nella vivezza della storia in un gruppo centrale di queste Opere morali comprendente detti di re e generali (qui tradotti dai “Ragazzi del liceo Tasso di Roma”) e i costumi dei Romani e dei Greci. Plutarco incide in poche righe un ritratto o racchiude un’azione sublime o perfida, un contegno disgustoso o più spesso ammirevole: per giovare ancora una volta ai suoi simili, anzi soprattutto ai personaggi affaccendati negli affari pubblici come l’amico imperatore Cesare Traiano seduto sul trono del mondo.
Ma tutto è così in questa immane congerie. La scienza più profonda, soggiungeva Montaigne alle righe citate più sopra, vi è trattata a brani scuciti, che non richiedono e non costringono a un lungo impegno, «cosa di cui sono incapace»; perciò non stancano mai.

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