Matteo Liberti per www.focus.it
Berlino, 27 giugno 1932. All’interno del Grunewald stadium 120 mila persone ascoltano rapite uno strano dialogo, sparato a tutto volume dagli altoparlanti. È un botta e risposta tra il militaresco e il religioso, con una voce che chiede: “Chi è responsabile della nostra miseria?” e un coro che replica all’unisono: “Il sistema!”. “E chi c’è dietro il sistema?” prosegue la voce. “Gli ebrei” fa eco il coro. Il dialogo continua grosso modo così: “Che cos’è per noi Adolf Hitler?”. “Una fede!”. “E cos’altro?”. “La nostra unica speranza”. Infine la voce grida “Germania!”. E l’intero stadio ribatte all’unisono: “Risvègliati!”.
A questo punto, accolto come una divinità dagli spettatori ormai in trance, appare sul palco al centro dello stadio un uomo. Ogni suo gesto viene imitato dalla folla come davanti a uno specchio: se si piega in avanti, il pubblico si piega in avanti; se fa una smorfia, lo stadio intero la ripete; se grida che lui è la soluzione ai mali della Germania, la platea gli crede. Quell’uomo si chiama Adolf Hitler.
Dopo Berlino, la scena si ripeterà in altre città. Considerando che quell’uomo è un leader politico senza alcuna carica, come si spiega tanta devozione? Come ha fatto a conquistare il cuore e la testa del popolo tedesco? La risposta va ricercata tornando indietro di 13 anni, quando Adolf Hitler era solo un nome sulle liste dei veterani di guerra, un oscuro caporale con il pallino della pittura.
INCOMPRESO. Nato il 20 aprile 1889 nel villaggio austriaco di Braunau am Inn, il futuro dittatore aveva un trascorso da pittore spiantato e incompreso (fallì per due volte l’ingresso all’Accademia di belle arti di Vienna). Le prime soddisfazioni gli vennero dai fucili piuttosto che dai pennelli.
Nel 1914, quando la Germania si gettò a capofitto nel primo conflitto mondiale, si arruolò come volontario nell’esercito tedesco, tornando con un paio di ferite in battaglia. Da quell’esperienza uscì con una convinzione: la sconfitta della sua nazione adottiva era frutto della mollezza dei governanti tedeschi e della “congiura ebraica”, un tormentone antisemita che per lui (e per molti altri tedeschi, francesi e russi) era una certezza scientifica.
Nel mirino del reduce Hitler, dal novembre del 1918, finì anche la corrotta Repubblica di Weimar (dal nome della località in cui fu redatta la nuova Costituzione). Come per quasi tutti i tedeschi, quel nome era per lui sinonimo di umiliazione: erano stati i governanti di Weimar a firmare il Trattato di Versailles che dopo la Prima guerra mondiale aveva imposto alla Germania condizioni di pace durissime.
«Inoltre, vi era il timore di una rivoluzione tedesca sulla scia di quella comunista russa del 1917» spiega il saggista tedesco Hans Magnus Enzensberger, che ha ricostruito l’ascesa al potere di Hitler nel libro Hammerstein, o dell’ostinazione (Einaudi).
Trasferitosi a Monaco di Baviera, Adolf cominciò a frequentare i circoli di estrema destra che definivano la firma dell’armistizio una pugnalata alla schiena del popolo tedesco. Ironia della sorte, nel 1919 fu incaricato dall’esercito di spiare uno di questi gruppi: il neonato Partito tedesco dei lavoratori (Dap), specializzato nel cavalcare la paura di una rivoluzione bolscevica e l’odio verso la politica. L’infiltrato Hitler passò dall’altra parte, abbandonò l’esercito e si iscrisse al Dap. Il 1° gennaio 1920 iniziò la sua carriera politica ricevendo una tessera sulla quale il suo nome era scritto con una t di troppo: “Hittler”.
GUIDA. Il 16 ottobre di quel 1920 Adolf parlò in pubblico per la prima volta. Mostrò subito un’abilità oratoria che fece mettere mano al portafoglio a molti, per sovvenzionare il partito. Pochi giorni dopo fece il bis attaccando in violenti comizi il Trattato di Versailles. In breve divenne il leader del partito, che ribattezzò Partito nazional-socialista dei lavoratori tedeschi (Nsdap, o Partito nazista).
Scelse come insegna la svastica, antico simbolo solare orientale. «Dimostrò subito di saperci fare come nessun altro» osserva Enzensberger. «A differenza dei politici di Weimar, Hitler fu abile nel convogliare le paure e l’energia distruttiva delle masse». E per farlo non disdegnò il ricorso alla violenza: “Ci dipingano pure come delinquenti. L’essenziale è che parlino di noi” spiegava ai suoi.
Nel 1921 riorganizzò il servizio d’ordine del partito in un gruppo paramilitare: le Sa (da Sturmabteilung, cioè “squadra d’assalto”), affidate all’amico Ernst Röhm (poi liquidato nel 1934). Le “camicie brune” (dal colore delle divise) nei primi Anni ’20 avevano un preciso ordine: “Terrorizzare gli avversari fino a quando i loro nervi crolleranno”. Semplice ed efficace, come il titolo di cui Hitler si fregiò nello stesso anno: führer, cioè “capo, guida”.
AVANZATA. A livello politico, l’ascesa di Hitler fu favorita dall’inflazione galoppante, innescata dalla crisi globale ma attribuita nei suoi discorsi ai risarcimenti imposti a Versailles. Gli imbelli di Weimar furono di nuovo attaccati quando, nel gennaio 1923, la Francia invase la regione industriale della Ruhr come ritorsione per un mancato pagamento. La Ruhr non era un posto qualsiasi; ricca di carbone e ferro, era di importanza strategica per l’industria.
In risposta all’occupazione (cui partecipò anche il Belgio) il governo proclamò la “resistenza passiva” dei lavoratori minerari, condita da scioperi e sabotaggi. Almeno in questo caso tutti si aspettavano un appoggio anche da Hitler, ma la sua fu invece l’unica voce fuori dal coro. Riferendosi agli odiati governanti disse: “Sono loro i nemici […] traditori della patria. Noi non siamo contro i francesi, ma contro i criminali del ’18”.
Alla fine del 1923 un chilo di pane costava 400 miliardi di marchi e il führer era pronto all’azione. Tra l’8 e il 9 novembre giocò la carta del colpo di Stato (in tedesco putsch).
Il piano prevedeva la conquista di Monaco di Baviera e la conseguente aggressione al governo centrale. Fu un flop clamoroso che ebbe l’unico effetto di portarlo in galera (ma anche di far rimbalzare il suo nome sulle prime pagine dei giornali). La condanna, emessa il 1° aprile 1924, fu a cinque anni da scontare nel carcere di Landsberg. Se non fosse stato per quella condanna, non sarebbe mai nato uno dei libri più famigerati della Storia: si intitolava Mein Kampf (“La mia battaglia”) e conteneva tutte le idee hitleriane sulla razza ariana.
In carcere Hitler mise a punto anche il suo “piano B”: come insegnava Mussolini, il potere si poteva prendere anche in altro modo. Rilasciato nel dicembre 1924 grazie a uno sconto di pena, dichiarò ai suoi: “Dobbiamo turarci il naso e conquistare […] terreno elettorale. Ci vorrà più tempo che con le fucilate, ma prima o poi la Germania sarà nostra”. A scanso di equivoci, comunque, appena rientrato a Monaco mise in piedi (era il 1925) una nuova forza paramilitare da affiancare al partito: l’unità speciale Ss (Schutzstaffeln, “reparti di difesa”).
IN CERCA DI FONDI. Sulla scena politica, intanto, teneva banco l’annosa questione dei risarcimenti di guerra: dopo l’adozione del Piano Dawes (un progetto di credito statunitense per rimettere in moto l’economia tedesca), si era passati nel 1929 al Piano Young, una specie di “decreto spalmadebiti”. In entrambi i casi Hitler si scagliò contro Berlino, trovando un importante alleato in Alfred Hugenberg (1865-1951), nazionalista e antiparlamentare.
Oggi quel nome non ci dice nulla: ma Hugenberg godeva dell’appoggio dei grandi industriali, dirigeva la casa di produzione cinematografica Ufa e soprattutto era editore di una catena di giornali capaci di influenzare ampi settori dell’opinione pubblica. Fu grazie al sostegno di questi giornali che il führer fece circolare in tutta la Germania la propria immagine, attingendo a piene mani al denaro messogli a disposizione da Hugenberg.
Già che c’era, con quei soldi Hitler si comprò casa in uno dei quartieri più esclusivi di Monaco, arredandola con anfore antiche, quadri e tappeti preziosi e persino con una voliera. Passò quindi a rimpinguare le casse naziste, investendo soprattutto nel settore “grandi raduni di massa”.
Un ulteriore contributo al destino politico del führer giunse nell’ottobre del 1929 con la crisi finanziaria che investì la Borsa di Wall Street e, con un effetto domino, i mercati europei, demolendo la già fragile economia tedesca e creando l’humus ideale per il seme nazista. Il Natale del ’29 portò a Hitler quattro regali niente male: soldi a palate, appoggio della grande industria, controllo dei media e una paura diffusa da cavalcare.
IL CANDIDATO. La Grande depressione seguita al crollo di Wall Street permise al führer (il cui partito contava ormai quasi 200 mila iscritti) di scuotere ancora di più le coscienze popolari, promettendo di riportare il benessere economico (senza spiegare come...). Bisognava solo avere fiducia (o, come diceva Hitler, “fede”) in lui.
«La sensazione di impotenza portò la maggioranza dei tedeschi a rifugiarsi proprio nell’estremismo di Hitler: in molti si convinsero infatti di poter trovare in lui protezione e sicurezza» spiega Enzensberger. Già nelle elezioni del settembre 1930 i nazisti si assicurarono il 18,3% al Reichstag (il parlamento) e nel 1931 gli iscritti toccarono quota 700 mila. La Mercedes scoperta che usava per sfilate e comizi divenne un simbolo in grado di esercitare grandi entusiasmi al suo solo passaggio.
Quando nel 1932 furono indette le elezioni per la presidenza della repubblica, il candidato Hitler scese in campo contro Paul von Hindenburg (1847-1934), l’anziano e potentissimo presidente uscente. Il führer ottenne circa il 36% dei voti. Pochi per essere eletto, ma abbastanza per dimostrare che era impossibile ignorarlo. Nel frattempo assunse toni sempre più esaltati, organizzando show, come quello del 27 giugno al Grunewald stadium, che lui chiamava “servizi divini” offerti al popolo.
AL POTERE. Dal 1930, caduto l’ultimo governo socialdemocratico, si era imposta una pratica (prevista dalla Costituzione) per cui il presidente nominava a suo piacimento il cancelliere (il primo ministro). Grazie a questo meccanismo nel 1932 si insediarono Franz von Papen (1879-1969), ex militare ultrareazionario, e poi il generale Kurt von Schleicher (1882-1934). «Ma quando, nello stesso anno, il partito nazista ottenne il 37,8% dei voti alle politiche, molti cominciarono a fare pressioni affinché fosse nominato cancelliere proprio Hitler, le cui formazioni paramilitari continuavano intanto a colpire con violenza ogni oppositore» spiega Enzensberger.
A tramare nell’ombra furono lo stesso von Papen e Hugenberg, i quali convinsero il vecchio Hindenburg che il führer fosse manovrabile. Detto fatto: il 29 gennaio 1933 Adolf Hitler fu nominato cancelliere e il mattino dopo si insediò giurando fedeltà alla Costituzione. “Hitler? Lo abbiamo ingabbiato” commentò Hugenberg. Si sbagliava di grosso.
IDEE CHIARE. Già il 3 febbraio, a cena con i vertici dell’esercito, Hitler annunciò i suoi progetti, facendo andare di traverso il boccone a qualcuno dei presenti: “Democrazia e pacifismo sono impossibili” disse, secondo un rapporto segreto. “Prima di tutto bisogna estirpare il marxismo [...]. Per raggiungere questo obiettivo aspiro al potere politico totale [...]. Il fine di ampliare lo spazio vitale del popolo tedesco sarà raggiunto anche a mano armata. La meta sarà probabilmente l’Est. [...] Bisogna espellere senza riguardo alcuni milioni di persone. [...] Con il mio movimento ho costituito già adesso un corpo estraneo allo Stato democratico, capace di edificare il nuovo Stato”.
Il burattino divenne burattinaio il 27 febbraio, mentre il Reichstag era avvolto dalle fiamme. Dell’incendio fu incolpato un giovane squilibrato olandese di simpatie comuniste (ma in molti sospettarono dei nazisti). Il giorno dopo Hitler varò un Decreto dell’incendio del Reichstag, che in nome della sicurezza nazionale consentiva l’arresto di “soggetti pericolosi”. Comunisti e sindacalisti finirono nei campi di prigionia (esistenti dal 1931).
Il successivo Decreto dei pieni poteri soppresse i partiti e quando, il 2 agosto 1934, Hindenburg morì, il führer assommò su di sé tutte le cariche istituzionali e servì al popolo la dittatura. Legalmente e senza grossi ostacoli.
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