venerdì 30 giugno 2017

Il vigile e il bambino

Marco Nese - Corriere della Sera
Diceva che la voce di quel bambino echeggiava sempre nelle sue orecchie. “La sentivo soprattutto di notte, quando a volte non riuscivo a prendere sonno”, ha raccontato Nando Broglio. Fu l’ultima persona a parlare con Alfredino Rampi, quel piccolo sventurato che stava morendo a 60 metri di profondità nelle viscere della terra.
E adesso anche lui se n’è andato. Nando Broglio è morto a 77 anni in una clinica vicino Roma. L’ultimo testimone di quella tragedia che tenne per tre giorni e tre notti gli italiani davanti alla tv, commossi e speranzosi di assistere a un lieto fine. 
Era il 10 giugno 1981 quando Alfredino precipitò in un pozzo artesiano a Vermicino, alla periferia della Capitale. Mentre si mettevano in moto i soccorsi, sorse il problema di tenere sveglio il bambino e fargli coraggio, dargli la speranza che presto lo avrebbero tirato fuori da quel budello spaventoso.
Fu allora che si fece avanti lui, Nando Broglio, vigile del fuoco, con la barba alla Bud Spencer, la faccia sofferta di chi sta vivendo una tragedia personale: “Sì, perché pensavo che poteva capitare a uno dei miei quattro figli”.
Broglio si accoccolò all’imboccatura del pozzo, fece calare una sonda con un microfono e avvicinò la bocca a un megafono. Cominciò così un colloquio durato 36 ore. Il vigile e il bambino. “Eccomi, sono Nando. Tranquillo, ti veniamo a prendere”. 
Nando parlava, parlava, e Alfredino sembrava risollevato.  Diceva che il suo sogno era di fare un giro sul camion dei pompieri. “Te lo prometto - lo rassicurò Nando -. Saliamo sul camion io e te e ce ne andiamo lungo le strade di Roma”. 
Nel frattempo i tentativi di raggiungere il bambino non andavano a buon fine. Si pensò di scavare un canale parallelo. Alfredino sentiva il frastuono della trivella e voleva sapere cosa stava succedendo. “Ti veniamo a prendere - lo confortava Nando -, dici che sei appassionato di Mazinga Zeta. E’ lui con la sua ala rotante che lavora per venirti a prendere”.
Dopo più di ventiquattr’ore che Nando stava lì, a parlare in continuazione, con la faccia protesa verso il buio del pozzo, sentì la necessità di staccare per un attimo. Lo disse ad Alfredino: “Ti lascio per un po’. C’è qui un altro vigile, un amico, che ti terrà compagnia”.
Dal fondo del pozzo, la voce di Alfredino risuonò quasi disperata: “No, voglio parlare solo con te, non voglio un altro vigile”. Inutilmente Nando cercò di rabbonirlo: “E’ un amico che sta lavorando per venirti a prendere”. 
“No, non te ne andare. Voglio solo te”. E allora Nando si piegò di nuovo e continuò a parlare. “Non so - ha raccontato in seguito - dove ho trovato la forza, come ho potuto rimanere sveglio e andare avanti con quel colloquio surreale. Non ricordo neanche bene cosa riuscivo a dirgli. Forse gli dicevo le stesse cose che dicevo ai miei figli quando avevano paura”. 
Lui parlava e la voce del bambino rispondeva. Una voce sempre più debole. “Dimostrava una resistenza straordinaria - ricordava Nando -, ma dopo tre giorni, stremato, probabilmente ha perso conoscenza. Sentivo solo flebili lamenti. L’ultima cosa che sono riuscito a comprendere è stata che aveva tanto freddo”. 
“Siamo venuti - disse un cronista - per assistere a un fatto di vita e abbiamo visto un fatto di morte”. Sul posto era accorso anche il presidente Pertini. E la Rai, seguendo per la prima volta in diretta quella scena dolorosa, l’aveva trasformata in una tragedia nazionale. Era nata “la tv del dolore”, qualcosa che ricordava il film L’asso nella manica.
Marco Nese




Primo Carnera

Riccardo Signori per il Giornale

Quell’anno se ne andarono Totò e Carnera. L’ultima sintesi di un’Italia vera. Quella furba, ridicola, straripante, malinconica e ammiccante del principe Antonio de Curtis. E quella esondante, fiabesca, magica, ricca di amor di terra e morfologicamente improbabile di Primone Carnera. Era il 1967, un anno che ci portò via due eroi totali, indimenticabili, al di sopra della luna. E chi ci propose alla nascita? Fate voi: Max Allegri e Roberto Baggio, Valeria Marini e Carla Bruni.

Giusto per restare tra sport e spettacolo. Cosa potremmo dire, 50 anni dopo, a quell’omone di due metri e 120 kg di peso, nato al numero 244 di una casa di Sequals, che nelle mani, nei piedi e nelle braccia raddoppiava le misure degli uomini del tempo? Tracimava nelle forme e inconsapevolmente scoprì l’elisir del lungo amore con il suo popolo.

Caro Primo, da allora ad oggi non ti sei perso niente o quasi... Immaginate un Carnera ai nostri tempi: intrappolato dalla banalità di costume, adescato dallo show business tendente al becero e senza conceder la possibilità che leggenda sia tra misteri e realtà. Lo avrebbero distrutto prima di lasciarne traspirare la grandezza: non necessariamente dipinta nel fatto estetico.

Invece Carnera è rimasto Carnera, quello che invocavano le mamme quando sgridavano i figli, dolcezza e brutalità miscelate perché i suoi cazzotti erano quelli che tiravano gli italiani affamati, che poi gli avversari siano stati veri o fasulli, specie ad inizio carriera, fa sempre tornare il conto a suo favore. Primo è stato un campione del mondo dei pesi massimi del pugilato: una categoria regina. Primo, ovvero il primo campione del mondo della boxe italiana: e quei match furono tutti veri, nessuna combine.

A suo modo, è stato il nostro Muhammad Ali: genere unico, non più riproducibile. Cassius Clay era un fuoriclasse sul ring, ma la grandezza assoluta è lievitata nell’interpretazione della vita, nel modo di essere campione diverso dello sport. Carnera è stato un simbolo, seppur artigianalmente costruito. Scrissero che le sue gigantesche scarpe erano famose quanto quelle di Charlot.

Era l’omone andato a cercarsi l’America, perché in Italia non avrebbe potuto sopravvivere. Il 29 giugno, giorno di Pietro e Paolo, è la data della sua storia: tutto cominciò e tutto finì. Il 29 giugno 1920, lasciò Sequals per la Francia, nel viaggio che ne avrebbe cambiato la vita. Imparò ad essere un gigante da circo. Era “Il Terribile Jean, il Terrore di Guadalajara”: si fingeva spagnolo o francese. Conobbe Paul Journèe, che gli insegnò la boxe e lo mise a bottega di una falegnameria. Il 29 giugno 1928 via dal circo e partì la carriera del pugile. Il 29 giugno 1933, nel newyorkese Garden Bowl di Long Island divenne campione del mondo: radunò 40mila spettatori, la metà italiani, che lo videro battere Jack Sharkey con un devastante montante destro, al 6°sesto round.

Carnera fu un ipnotizzatore di pubblico, attirò folle, permise grandi incassi, alla fine raggranellò poco, derubato da manager rapaci. In America lo chiamarono “The Ambling Alp”, “l’Alpe che cammina lentamente”. Il business lo usò in ogni salsa. Hollywood lo accerchiò. Eccolo mentre si fa palpare i mostruosi bicipiti da Jean Harlow, la diva dai capelli di platino, o mentre solleva con il palmo della mano Frankie Genaro, campione del mondo dei pesi mosca. E ancora, sorridente Gargantua seduto a tavola davanti a una montagna di spaghetti e ad un fiasco di Chianti. Lo sfruttò il regime fascista, ma il tempo disse che Primo era il campione di tutti. Anche dei partigiani che cercarono di processarlo.

Carnera finì 10 volte al tappeto quando perse il mondiale contro Max Baer, ma sempre si rialzò nonostante una frattura alla caviglia destra. Era un 14 giugno (1934), nulla che contasse come i suoi 29 giugno. L’ultimo quello decisivo: dopo una vita negli Stati Uniti, dopo aver conquistato fama e danari anche come lottatore, Primo decise per il ritorno in patria: sentì che il tempo stava per scadere.

Quel 20 maggio 1967, il treno che lo riportò da Roma a Sequals fece soste in stazioni affollate, gente che voleva rivedere il Carnera e, invece, scoprì la controfigura di un gigante ormai provato dalla cirrosi epatica e dal diabete. Primo se ne andò il 29 giugno alle 10.47. Aveva 61 anni. Fece in tempo a rivedere Nino Benvenuti, in aprile diventato campione mondiale dei medi nel Madison Squadre Garden. Gli allungò i suoi occhi buoni e chiari, che sempre avevano sostenuto la dignità. Vide un erede del ring. Ignaro che un altro Carnera ci sarebbe stato mai.

giovedì 29 giugno 2017

Giustizia

 La Lettura - Corriere della Sera, 25 giugno 2017
di Luigi Ferrarella

L'intervista a Giovanni Fiandaca, docente a Palermo, che ha appena pubblicato "Prima lezione di diritto penale" su modi, tempi e strumenti della punizione. "Ci vorrebbe un "fermo normativo" di non breve durata delle leggi che stabiliscono reati e pene, per ripensare in maniera più razionale, organica e sobria il diritto penale sostanziale". Come per i pesci quando bisogna ripopolare il mare, sembra pensare il professor Giovanni Fiandaca, fresco autore di Prima lezione di diritto penale (Laterza), che il sessantanovenne docente di diritto penale all'Università di Palermo, già presidente di commissioni ministeriali ed ex componente del Consiglio superiore della magistratura, dichiara di aver scritto "per i non specialisti" sul cosa punire, come e perché.

È un diritto penale inflazionato?
"Per effetto di frequenti rattoppi e aggiunte, sempre più somiglia a un vestito d'Arlecchino, o a un quadro dadaista nel quale prospettive e figure e colori si sovrappongono in maniera disordinata".

La società sta male e vive angosciata, allora le si somministra la pillola calmante di nuovi reati o di pene aumentate: siamo al diritto come ansiolitico?
"Come strumento per sedare le ansie collettive provocate dall'allarme-criminalità. Anche se la funzione di rassicurazione collettiva può risultare illusoria: non esistono riscontri empirici idonei a suffragare l'idea che pene draconiane servano davvero a distogliere dal commettere reati. Ragion per cui le forze politiche sbagliano nell'assecondare acriticamente le richieste collettive di maggiore punizione, le quali spesso riflettono reazioni emotive e pulsioni aggressive che sfuggono a ogni controllo razionale".

È pur sempre un modo della politica di "parlare" ai cittadini-elettori.
"La pena è sempre stata e continua a essere un potente "medium comunicativo", il che spiega la ricorrente tentazione di due suoi usi politico-comunicativi. Pri- mo: creando nuovi reati o inasprendo reati preesistenti, il ceto politico veicola il duplice messaggio di prendere sul serio l'allarme sociale e di farsi carico del bisogno di sicurezza dei cittadini, e perciò confida di poter così lucrare consenso elettorale. Secondo: il ricorso allo strumento penale comporta difficoltà e richiede costi assai inferiori - in risorse materiali, tecniche ed umane - rispetto alla attuazione di strategie d'intervento basate sulla prevenzione extra-giuridica e sulle riforme economico-sociali".

Da uomo di sinistra la colpisce che il "pan-punitivismo" dilaghi anche lì?
"La tendenza all'impropria strumentalizzazione politica del diritto penale è in realtà da tempo trasversale. Ma rilevo che, mentre fino a un recente passato la tendenza repressiva delle forze di sinistra prendeva di mira soprattutto i reati di criminalità organizzata e quelli tipici dei colletti bianchi, queste stesse forze oggi scimmiottano la destra nell'incrementare il rigore repressivo della stessa delinquenza comune. Il che, dal mio punto di vista, segna un regresso politico-culturale. Si pensi all'impegno profuso dal Pd renziano per introdurre in una ottica populistico-vittimaria il nuovo e discutibilissimo reato dell'omicidio stradale, che rischia paradossalmente di risultare controproducente proprio rispetto al contrasto dei danni da incidenti stradali".

C'è una relazione tra sistemi elettorali e qualità della legislazione? Il maggioritario di questi anni ha giovato alla formazione del diritto penale?
"È una bella domanda. Premesso che mancano puntuali studi storico-ricostruttivi, mi limito a rilevare che la garanzia democratica sottostante alla riserva di legge in materia penale è volta a che le deliberazioni politiche su reati e pene siano frutto di un confronto dialettico il più possibile rappresentativo di tutte le posi- zioni. Da questo punto di vista, la logica della riserva di legge penalistica sembra compatibile più con la democrazia proporzionale che con quella maggioritaria. Ciò premesso in linea di principio, osservo che il maggioritario di questi anni, oltre a non risultare pienamente consonante con l'esigenza costituzionale di coprire col massimo di rappresentatività politica possibile la produzione di norme penali, non mi pare abbia per altro verso giovato a rendere più chiara, univoca o di approvazione più spedita la legiferazione penale, che ha dovuto accettare compromessi forse in misura maggiore che in passato".

Come giudica l'appena approvata nuova legge sul processo penale?
"A maggior ragione se guardata con le lenti del professore, va incontro a più di un rilievo. A parte gli ormai consueti aumenti di pena, spot pubblicitari a scopo elettoralistico, certo in teoria si poteva fare di meglio e di più. Quanto alla prescrizione, è poco corretto considerarla isolatamente dagli altri problemi di funzionamento del sistema giudiziario e, comunque, la soluzione non può consistere nell'allungarne sempre più i tempi, neppure nei reati di corruzione. Accade non di rado che le indagini, anziché prendere le mosse da ipotesi di reato sufficientemente profilate sin dall'inizio, impieghino molto tempo nell'andare alla ricerca di possibili reati. Inoltre, i tempi si allungano ulteriormente perché i pm non sempre dispongono delle conoscenze e competenze per risolvere con ragionevole tempestività i nodi sulla legittimità degli atti e sulle frequenti incertezze connesse alla fitta e oscura boscaglia delle disposizioni amministrative dietro cui si celerebbero gli accordi corruttivi".

Ma voi professori siete innocenti o è vero pure, come in Radbruch da lei citato, che il diritto "ha perso la sua buona coscienza"? Ormai quasi a ogni cattedratico si può appiccicare in partenza l'appartenenza a un ambito politico del quale si sa già farà la stampella.
"La scienza del diritto penale non si basa su conoscenze certe e neutrali, ma è una scienza debole e composita a sua volta ancorata a postulati politico-ideologici, e intrisa di giudizi di valore non sempre supportati da basi empiriche. Ma una cosa è esserne responsabilmente consapevoli. Altra cosa è che il cattedratico di turno si riduca a operare come un servo del principe, al servizio di una parte politica rinunciando in anticipo a ogni autonomia di giudizio e pensiero critico, così violando ogni regola di moralità professionale. Devo ammettere che, purtroppo, in alcuni casi questo completo asservimento si è verificato e continua a verificarsi, con conseguente pericolo di perdita di credibilità da parte di tutti".

I magistrati hanno da guardarsi più dall'esterno o da se stessi?
"Ritengo incomba più il rischio di possibili derive che non di minacce esterne. Andrebbe arginata una certa tendenza giudiziale a eludere basilari principi garantistici quali riserva di legge e tassatività, la quale sfocia in applicazioni così estensive da equivalere in alcuni casi a vere e proprie creazioni giurisprudenziali di nuove ipotesi di reato: un libertinaggio ermeneutico che, per quanto praticato anche in buona fede per soddisfare ritenute esigenze di tutela trascurate dal legislatore, viola il principio costituzionale della divisione dei poteri. Un'altra possibile deriva la riconnetterei alla persistente pretesa di una parte della magistratura, che può estendersi per contagio alle toghe più giovani, di assolvere ruoli di attori politici e educatori collettivi, nella convinzione anche sincera che la giustizia penale abbia tra i suoi compiti il rinnovamento politico e la moralizzazione pubblica. Dall'esterno, invece, non mi pare in questo momento il potere politico vagheggi riforme volte a limitare l'autonomia e l'indipendenza del potere giudiziario. Se mai, mi sembra insidiosa minaccia esterna da scongiurare la perdurante tentazione della politica di corteggiare magistrati-star promettendo loro ruoli politici di primo piano, come la recente offerta da parte del Movimento 5-Stelle al pm Nino Di Matteo della candidatura a presidente della Regione siciliana o del Ministero della Giustizia in un eventuale governo grillino. È un perverso circuito giudiziario-politico che danneggia e discredita sia la giustizia, sia la politica".

Primo a criticare radicalmente i presupposti giuridici del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, su ciò lei è stato a sua volta assai criticato.
"Da quella stessa parte di pm che io ho criticato nei miei scritti? Se è così, non sorprende. Ma è più rilevante che le mie critiche siano del tutto condivise da pm assai autorevoli e noti, di entrambe le aree, conservatrice e progressista, della magistratura. Continuo a ritenere che questo processo infinito, su storia e politica dei primi anni Novanta più che su plausibili ipotesi di reato - che rischia di avvitarsi sempre più su se stesso riproponendo teoremi accusatori più volte smentiti in altri processi e ribadendo con insistenza verità frutto più di fede che di logica probatoria - costituisca un grande laboratorio di analisi e riflessione per tutti i giuristi interessati a studiare al microscopio i possibili straripamenti e le mutazioni funzionali del processo penale".

Forse per questo però è stato pure "arruolato" da garantismi pelosi.
"Respingo fermamente, per il suo carattere decisamente illiberale, l'obiezione secondo cui non è lecito muovere critiche che possono oggettivamente prestarsi a essere strumentalizzate dal fronte dei garantisti pelosi: se le critiche sono fondate, lo studioso che le muove deve anche accettare il rischio di una possibile strumentalizzazione. Un eccesso di "correttezza politica", più che giovare, nuoce a quell'impegno per la verità cui ogni sistema democratico non può rinunciare".

Anima e tecnologia

Elena Dusi per “la Repubblica”

«La tecnologia corre e ci propone nuovi mezzi con una velocità che la teologia e gli altri canali della conoscenza umana non riescono a seguire». Il cardinale Gianfranco Ravasi, 74 anni, teologo, biblista, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, non è però uomo che si dia per vinto. Con il "Cortile dei Gentili" e il "Tavolo permanente per il dialogo fra scienza e religione" sta cercando "alleati" fra coloro che hanno ancora fiducia nell'uomo e nel suo pensiero. «Atei, scienziati, persino chi ancora crede nelle ideologie. Non è più tempo di contrapposizioni ma di dialogo». Nell' ultimo incontro del "Tavolo" si è parlato di intelligenza artificiale e del rapporto fra umani e umanoidi.

Perché questo dialogo fra fede e scienza?
«Religione e scienza sono spesso considerati magisteri indipendenti, due rette parallele. E dal punto di vista del metodo è giusto che sia così. Ma condividono lo stesso soggetto e lo stesso oggetto. Non possono non incontrarsi, prima o poi».

Scienza e fede sono due tonalità di una stessa musica?
«La conoscenza del mondo da parte dell'uomo avviene attraverso molti canali: la scienza e la razionalità, ma anche la teologia, l'estetica, l'amore, l'arte, il gioco, il simbolismo, che è poi il primo modo di conoscere che abbiamo da bambini. Perderli o semplificarli vuol dire impoverirsi. E purtroppo è quello che sta avvenendo oggi».

Per colpa della scienza?
«No, per colpa dell' ignoranza. Stiamo vivendo una globalizzazione della cultura contemporanea dominata solo dalla tecnica o dalla pura pratica. C' è, ad esempio, una sovrapproduzione di gadget tecnologici di fronte alla quale non riusciamo a elaborare un atteggiamento critico equilibrato. Ci ritroviamo in un' epoca di bulimia dei mezzi e atrofia dei fini. La formazione scolastica e universitaria si occupa troppo poco degli aspetti relativi all' antropologia generale. Così, l'insegnamento di arte, letteratura, greco e latino, filosofia viene progressivamente ridotto».

Con quali conseguenze?
«Ci ritroviamo spesso appiattiti, schiacciati su un' unica dimensione. Un certo uso della scienza e della tecnologia hanno prodotto in noi un cambiamento che non è solo di superficie. Se imparo a creare robot con qualità umane molto marcate, se sviluppo un' intelligenza artificiale, se intervengo in maniera sostanziale sul sistema nervoso, non sto solo facendo un grande passo avanti tecnologico, in molti casi prezioso a livello terapeutico medico. Sto compiendo anche un vero e proprio salto antropologico, che tocca questioni come libertà, responsabilità, colpa, coscienza e se vogliamo anima».

La scienza corre troppo?
«Non tanto la scienza, quanto la tecnologia: corre e ci propone nuovi mezzi con una velocità che la teologia e gli altri canali della conoscenza umana non riescono a seguire. Per questa via si può finire in una civiltà mediatica e digitale che sta diventando totalizzante. Parliamo di transumanesimo come una delle paure del futuro, ma per certi versi è già iniziato.

I nativi digitali sono funzionalmente diversi rispetto agli uomini del passato. Capovolgono spesso sia il rapporto fra reale e virtuale, sia il modo tradizionale di considerare vero e falso. È come se si ritrovassero dentro a un videogioco. Inoltre, l' uomo, che è sempre stato un contemplatore e custode della natura, oggi è diventato una sorta di con-creatore.
La biologia sintetica, la creazione di virus e batteri che in natura non esistono sono un' espressione di questa tendenza. Tutte queste operazioni hanno implicazioni etiche e culturali che devono essere considerate».

Scienza e fede come possono collaborare?
«Fra spiritualità e razionalità, tra fede e scienza, può instaurarsi una tensione creativa. Diceva Giovanni Paolo II che la scienza purifica la religione dalla superstizione e la religione purifica la scienza dall' idolatria e dai falsi assoluti».

L'ecologia è un altro terreno di incontro?
«Gli accordi di Parigi sono ora in difficoltà. Anche molti "laici" si riconoscono invece nella Laudato si' di papa Francesco, che mi pare stia diventando il punto di riferimento della questione ecologica. D' altronde è scritto nei primi passi della Genesi che Dio ha affidato la Terra all' uomo per "coltivarla" ma anche per "custodirla"».

I suoi incontri con i laici ormai proseguono da qualche anno. Qual è il suo bilancio?
«Il fondatore del cristianesimo, Gesù di Nazaret, era un laico, non un sacerdote ebraico.
Egli non ha esitato a formulare un principio capitale: "Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio". La contrapposizione fra clericali e anticlericali ormai è sorpassata. Alcuni aspetti della laicità ci accomunano tutti e la teologia ha smesso da tempo di considerare la filosofia e la scienza solo come sue ancelle. I problemi piuttosto sono altri.

Semplificazione, indifferenza, banalità, superficialità, stereotipi, luoghi comuni. Una metafora del filosofo Kierkegaard mi sembra adatta ai tempi di oggi: la nave è finita in mano al cuoco di bordo e ciò che dice il comandante con il suo megafono non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani. È indispensabile riproporre da parte di credenti e non credenti, i grandi valori culturali, spirituali, etici come shock positivo contro la superficialità ora che stiamo vivendo una svolta antropologica e culturale complessa e problematica, ma sicuramente anche esaltante».

Ebrei libici

David Harris - La Stampa

Nel giugno di cinquant’anni fa l’attenzione del mondo era rivolta alla guerra che scoppiò tra Israele e i Paesi arabi confinanti, guerra scatenata dalle minacce da parte del Cairo e di Damasco di voler annientare lo Stato ebraico, dalla mobilitazione delle truppe verso i confini israeliani e dalle richieste arabe all’ONU per la rimozione delle truppe di pace dal Sinai che agivano come cuscinetto al conflitto. Ma nei giorni successivi, scoppiarono combattimenti a centinaia di chilometri di distanza; al riparo dall’attenzione dei media internazionali, veniva condotta un’altra campagna spietata: la cacciata di una comunità ebraica già stremata, dalla sua dimora storica in Libia. Per i 4.000 ebrei libici rimasti di una comunità che ne contava un tempo quasi 40.000, fu il terzo e ultimo pogrom dal 1945, che segnò la fine di una storia ricca, complicata e poco nota. 
Gli ebrei avevano vissuto continuativamente in Libia per più di due millenni. Stabiliti a Cirene – l’odierna Libia orientale - dal governatore egiziano Tolomeo I nel III secolo A.C., la loro presenza precedeva la conquista e l’occupazione musulmana nel 642 A.C. da più di 900 anni. Negli anni, la comunità divenne più numerosa grazie ai berberi che si convertivano all’ebraismo, agli ebrei che fuggivano dagli inquisitori spagnoli e portoghesi del XV e XVI secolo e, a partire dal XVII secolo, dagli ebrei che arrivavano dall’Italia. Nel 1911, l’anno in cui terminò il dominio ottomano sulla Libia e inizio quello italiano, la popolazione ebraica era di 20.000 persone, cifra che arrivò negli anni a raddoppiare sino al 1945. 
Alla fine della seconda guerra mondiale la Libia passò sotto il dominio britannico. La grande maggioranza degli ebrei libici era sopravvissuta, nonostante la coscrizione di diverse migliaia di loro in campi di lavori forzati sotto il controllo fascista italiano e la deportazione di un numero molto più piccolo nei campi di concentramento nazisti. Va detto che fino ad allora le relazioni tra le popolazioni ebraiche e musulmane in Libia erano generalmente molto cordiali. 
Ma a partire dal 1945 la propaganda pan-islamica e anti-sionista della Lega araba iniziò a soffiare sulle fiamme dell’odio in Libia, innescando una serie di sanguinose rivolte contro gli ebrei. Si arrivarono a contare 130 morti e nove sinagoghe distrutte. 
Un secondo pogrom scatenato dai nazionalisti libici desiderosi di ottenere l’indipendenza dalla Gran Bretagna arrivò tre anni dopo. La rapida risposta delle forze britannica e di autodifesa ebraica riuscirono a limitare i danni. Tuttavia, 15 ebrei rimasero uccisi e centinaia rimasero senza casa. 
La nuova atmosfera di paura e di insicurezza da un lato, assieme al forte potere attrattivo del neonato Stato d’Israele per questa comunità profondamente religiosa dall’altro, portò all’emigrazione di 6.000 ebrei nel dicembre 1951, l’anno in cui la Libia ottenne l’indipendenza. 
Nonostante le garanzie costituzionali offerte dalla nuova nazione libica, furono pian piano imposte restrizioni ai cittadini ebrei. Già nel 1961 gli ebrei non potevano votare, essere eletti a cariche pubbliche, servire nell’esercito, ottenere passaporti, acquistare nuove proprietà, acquisire quote di maggioranza in qualsiasi nuova attività o controllare gli affari della propria comunità. Eppure gli ebrei rimasero legati visceralmente alla loro terra ancestrale e continuarono a sperare - contro ogni probabilità e nonostante tutte le prove contrarie – in un cambiamento positivo. 
Poi, nel giugno del 1967, scoppiò la guerra in Medio Oriente. Traendo ispirazione dagli appelli al pan-arabismo di Nasser, i libici scesero in strada e attaccarono la comunità ebraica. 
Prima che tornasse la calma, 18 ebrei furono uccisi a Tripoli, la capitale del Paese. Il bilancio sarebbe potuto essere stato molto più grave se non fosse stato per il coraggio di Cesare Pasquinelli, l’ambasciatore italiano in Libia, che ordinò a tutte le missioni diplomatiche italiane del Paese di estendere la loro protezione agli ebrei. Anche un esiguo numero di musulmani aiutarono i loro vicini ebrei, tra cui uno, che a suo grande rischio decise di tenere nascosta per due settimane, assieme ai genitori e ai suoi sette fratelli, la ragazza adolescente che sarebbe poi diventata mia moglie, fino a quando non riuscirono ad uscire dal paese. Tuttavia, questo “Giusto” libico ha rifiutato ogni riconoscimento pubblico, per evitare che la sua vita venga messa in pericolo per aver salvato degli ebrei. 
Nelle settimane successive, tutti gli altri ebrei della Libia fuggirono all’estero, sollecitati a farlo “temporaneamente” dal governo. A ciascuno era permessa una valigia e l’equivalente di 50 dollari in valuta locale. La maggioranza si diresse verso Israele; in 2.000 si recarono in Italia. Sotto molti aspetti, il tragico destino degli ebrei libici non fu molto diverso da quello di centinaia di migliaia di ebrei in altri paesi arabi. 
Nessuno rimase sorpreso quando questo esodo temporaneo diventò permanente. Il colonnello Muammar Gheddafi prese il potere nel 1969 e l’anno successivo annunciò una serie di leggi per confiscare i beni degli ebrei della Libia, emettendo in cambio delle obbligazioni che prevedevano un “giusto compenso” entro 15 anni. Ovviamente, il 1985 arrivò e nessun compenso fu pagato. 

E così, con solo qualche sporadica protesta internazionale, la scarsa attenzione da parte della stampa e nel silenzio delle Nazioni Unite, si chiuse l’esperienza dell’ennesima comunità ebraica un tempo in continua espansione nel mondo arabo - e il ricco arazzo di diversità della regione fu colpito ancora una volta in maniera irreparabile. 

mercoledì 28 giugno 2017

Emilio Salgari

Corriere della Sera - Antonio Carioti
Intere generazioni di ragazzi italiani hanno sognato con i romanzi di Emilio Salgari, che li trasportavano come d’incanto nell’Oceano Pacifico, nella giungla del Bengala, sulle isole dei Caraibi, nelle foreste venezuelane, nelle praterie del Far West, in Africa o in Cina. Eppure l’autore, nato a Verona il 21 agosto 1862 (ancora sotto l’impero asburgico), non era certo un giramondo o un lupo di mare. Aveva frequentato l’Istituto nautico, ma senza ottenere il diploma, e in viaggio per nave era rimasto nel perimetro dell’Adriatico, senza spingersi oltre Brindisi. La sua immaginazione era però smisurata, così come le sue doti di narratore. Ed era curioso, si documentava ampiamente, anche se in modo un po’ disordinato, su enciclopedie e riviste del più vario genere.

Non è certo il rigore dell’ambientazione, ovviamente, quello che colpisce nelle opere di Salgari. Conta semmai la caratterizzazione vivida dei suoi personaggi, che invadono l’immaginario del lettore: Sandokan, Yanez, Kammamuri, Suyodhana, Teotokris, il Corsaro Nero, Wan Guld, Carmaux e Wan Stiller sembra di averli dinanzi agli occhi, con le loro vesti, rozze o raffinate, e le loro armi, sempre micidiali. Non a caso hanno ispirato lavori di notevole pregio da parte degli illustratori, a cominciare da Giuseppe Gamba, detto «Pipein». Ma il vero segreto è la carica emotiva delle trame rocambolesche di Salgari, sempre segnate da passioni forti: amore, odio, amicizia fraterna, gusto di mettersi alla prova, cameratismo di combattenti, senso dell’onore, desiderio di vendetta.


I suoi personaggi, soprattutto i protagonisti più ardimentosi, non conoscono compromessi e mezze misure, anche se a volte la vita li pone di fronte a scelte angosciose che finiscono per spezzare la loro ferrea determinazione. L’esempio più noto è il Corsaro Nero, terrore delle Antille spagnole, che dà il nome al romanzo con il quale si apre la serie in edicola con il «Corriere della Sera»: probabilmente il capolavoro di Salgari, assieme a I pirati della Malesia. Lacerato e combattuto tra passioni contraddittorie, il conte italiano Emilio di Roccabruna, assurto a capo dei filibustieri sul vascello Folgore, giungerà a infierire su se stesso, riducendosi in lacrime, pur di rimanere fedele a un tragico giuramento: solo nel successivo romanzo La regina dei Caraibi (anch’esso incluso nella collana del «Corriere») il suo tormento interiore troverà uno scioglimento positivo.
Nel collocarsi sulla scia di famosi autori d’avventura come Alexandre Dumas padre, Walter Scott, Jules Verne, Robert Louis Stevenson, Salgari mostra tuttavia significative peculiarità, che tra l’altro lo misero in urto con i benpensanti della sua epoca. Oltre alla violenza, ai continui combattimenti per terra e per mare, la sua prosa contiene una dose conturbante di erotismo soffuso. Sia nel descrivere i personaggi femminili, spesso molto sensuali, sia nel plasmare i suoi eroi, solitamente dotati di un forte magnetismo animale, il romanziere veronese trasmette messaggi trasgressivi, accentuati dalla sua predilezione per gli amori meticci.

In un’epoca caratterizzata dal trionfo delle ideologie coloniali e dal forte razzismo, più o meno esplicito, che le accompagnava, Salgari fa costantemente innamorare, nel suo celebre ciclo indo-malese, personaggi che provengono da continenti diversi. Non soltanto Sandokan, principe del Borneo divenuto pirata, si unisce all’anglo-italiana Marianna Guillonk, ma il suo inseparabile compagno d’avventure Yanez de Gomera, nato in Portogallo, sposa l’indiana Surama, erede al trono dell’Assam, mentre il loro alleato Tremal-Naik, cacciatore bengalese e nemico giurato della setta assassina dei Thugs, prende in moglie l’inglese Ada Corishant. Matrimoni misti, dunque, per i principali eroi della saga avvincente (undici romanzi pieni di colpi di scena, tutti compresi nella serie del «Corriere») che si snoda dalle isole di Mompracem e Labuan all’India sotto il dominio britannico. Appare significativo inoltre che l’inventore di Sandokan abbia dato nomi piuttosto esotici (due spiccatamente islamici) ai suoi quattro figli: una femmina (Fatima) e tre maschi (Omar, Nadir, Romero).
Bisogna aggiungere che nei romanzi di Salgari i conquistatori europei di maggior successo, dominatori di grandi imperi territoriali e marittimi, fanno spesso la parte dei cattivi. Vale per gli inglesi, in particolare il «rajah bianco» di Sarawak James Brooke (realmente esistito), cui si contrappongono i pirati della Malesia guidati da Sandokan e Yanez. Ma vale anche per gli spagnoli, messi in scacco dal Corsaro Nero e poi dal suo luogotenente Morgan, che ne sposa la figlia Jolanda. Forse è un po’ eccessiva la lettura «antimperialista» degli eroi di Mompracem proposta di recente dallo scrittore Paco Ignacio Taibo II, ma non c’è dubbio che Salgari si schiera regolarmente dalla parte dei più deboli e dei fuorilegge, contro i poteri costituiti. D’altronde non può essere un caso che i suoi romanzi fossero fra le letture predilette di Ernesto Che Guevara.
Anche Sergio Sollima, regista del riuscitissimo sceneggiato televisivo Sandokan che rilanciò la popolarità di Salgari a metà degli anni Settanta, aveva puntato un po’ su questa lettura politica rivoluzionaria e terzomondista ante litteram, sfruttando anche la bandiera assegnata dall’autore ai pirati di Mompracem, rossa con al centro una testa di tigre, che poteva ricordare quella del Vietnam comunista. Ma Sandokan è pur sempre figlio di un sovrano e finirà per riconquistare il regno che gli spetta, mentre Yanez è destinato a diventare il rajah dell’Assam. Anche se amano Mompracem svisceratamente (e ne torneranno in possesso per due volte, dopo essere stati cacciati a suon di cannonate da forze nemiche preponderanti), il loro destino non è fare i pirati per tutta la vita. Né le vicende narrate da Salgari presentano contenuti d’impegno sociale, anche se spicca, nel romanzo Le due Tigri, la condanna che l’autore pronuncia contro le stragi compiute dai britannici a Delhi nel 1857, durante la repressione scatenata in seguito alla rivolta dei Sepoys. D’altronde bisogna anche aggiungere che lo stesso fascismo, a suo tempo, cercò di strumentalizzare Salgari in funzione anti inglese.
All’epoca del ventennio mussoliniano però l’autore era scomparso da tempo, schiacciato dai debiti e dalle vicissitudini famigliari che lo avevano condotto al suicidio. Benché i suoi romanzi si vendessero eccome, tanto da arricchire parecchio gli editori, Salgari non riusciva a sbarcare il lunario, anche per le cure che doveva prestare alla moglie Ida (lui la chiamava Aida) Peruzzi, affetta da una grave malattia nervosa. Ed era costretto a ritmi di lavoro asfissianti, che si riflettono anche nella ripetitività di alcune scene: in un arco di tempo relativamente breve, non molto più di una ventina d’anni, produsse circa ottanta romanzi. Quando poi Ida fu ricoverata in manicomio, Emilio non resse più e si tolse la vita a Torino, città dove abitava da un decennio, squarciandosi il ventre e la gola, il 25 aprile 1911. Lasciò tre lettere, di cui una, molto risentita, indirizzata a coloro che ne avevano sfruttato il talento senza alcuna considerazione per la sua sofferenza umana.
Nonostante avesse ricevuto nel 1897, su proposta della regina Margherita di Savoia, il titolo di cavaliere, Salgari non era mai stato preso in considerazione dagli ambienti letterari. Era giudicato uno scrittore di serie B, relegato nell’ambito dell’intrattenimento per ragazzi, anche se il suo pubblico contava appassionati di tutte le età. I moralisti lo consideravano diseducativo, i cultori del bello stile lo reputavano volgare. E forse in questo genere di atteggiamenti c’era anche un pizzico d’invidia per la vasta fetta di mercato che la produzione salgariana andava ad occupare.
Tuttavia il tempo è galantuomo. Come si è visto in occasione del centenario della morte, l’opera di Salgari, lungi dall’essere sepolta nell’oblio come alcuni avrebbero auspicato, si è rivelata particolarmente longeva: basti solo pensare al numero enorme di trasposizioni cinematografiche che le sono state dedicate, oppure, per il fumetto, al Sandokan (rimasto a lungo inedito) di Mino Milani e Hugo Pratt. Del resto l’altezzosa noncuranza ostentata per tanto tempo verso l’autore veronese ricorda da vicino la supponenza con cui si è a lungo guardato, per l’appunto, al mondo dei comics. E non poche venature salgariane si ritrovano nelle storie di personaggi dei fumetti popolari come Tex Willer, Zagor, Martin Mystère.
Basta poi dare un’occhiata al documentatissimo sito web www.emiliosalgari.it per constatare come le avventure del Corsaro Nero e delle altre sue creature non solo vengano ristampate di frequente, ma offrano spunti per ricerche di vario genere. Un esempio eloquente è la discussione, con tanto di indagini certosine su carte nautiche dell’Ottocento, per capire se Mompracem esista e in quale isola reale la si possa identificare. Uno sforzo che testimonia quanto affetto leghi ancora tanti lettori al covo impervio di Sandokan e Yanez, un luogo dell’anima su cui sventola il vessillo della fantasia. 

Tarquinio il Superbo

Corriere della Sera, 27 giugno 2017
Il tiranno risparmiato. Roma cacciò il re Tarquinio il Superbo, ma non fu un’autentica rivoluzione

La prima, ancorché poco conosciuta, rivoluzione nella Roma antica fu quella che nel 509 a.C. portò alla detronizzazione dell’ultimo re. Ma potrebbe non essere stata una vera e propria rivoluzione. Questa strana vicenda ha affascinato Thierry Camous al punto da dedicarle la parte più importante del libro, Tarquinio il Superbo. Il re maledetto degli Etruschi, che la Salerno dà ora alle stampe nell’eccellente traduzione di Mariavittoria Mancini. Molte pagine mettono in dubbio si sia trattato di una vera e propria rivoluzione. Tarquinio il Superbo è un sovrano più potente dei suoi sei predecessori. Compresi gli ultimi due, Tarquinio Prisco e Servio Tullio, anche loro etruschi. Un re capace di mettere in ginocchio i Latini, di mortificare il Senato, costringere la plebe a lavori bestiali, di strappare un enorme patrimonio ai Volsci e di spenderlo quasi per intero a propria gloria. Un personaggio, scrive Camous, che «sarebbe potuto passare legittimamente alla storia con il nome di Tarquinio il grande». E che invece è stato oggetto del primo implacabile processo di demonizzazione della romanità. Dannazione della memoria che si estese per certi versi all’intero popolo degli Etruschi al quale, pure, Roma doveva moltissimo. A cominciare dal Circo Massimo, per proseguire con il Tempio a Giove Capitolino, l’intero sistema di fognature, i ludi con pugilato e corse dei cavalli, l’arte della navigazione marittima. Dagli Etruschi veniva la cultura della divinazione e di conseguenza il credito di cui per secoli continuarono a godere gli aruspici: Cicerone metteva però in guardia dai ciarlatani che si annidavano tra gli uomini che si dicevano in grado di predire il futuro, anche se riconosceva all’«etrusca disciplina» di aver consentito la previsione della guerra sociale, degli scontri tra Silla e Cinna, della congiura di Catilina; apparteneva poi a una famiglia di Tarquinia quello Spurinna che, prevedendo sinistri accadimenti nel giorno delle Idi di marzo del 44 a.C., provò a scoraggiare Cesare dal recarsi in Senato.
La rivoluzione, o meglio il golpe del 509 contro il Superbo, fu opera di Bruto e Tarquinio Collatino, destinati a divenire i primi due consoli della Repubblica. Il re deposto stranamente non fu ucciso, bensì gli si concesse di rifugiarsi a Chiusi da Porsenna. Il quale Porsenna però, narra la leggenda, colpito dall’eroismo di Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia, gli avrebbe tolto il proprio sostegno per poi allearsi con l’Urbe divenuta repubblicana. Una ricostruzione che, osserva maliziosamente Camous, «manca di logica». Di Porsenna, secondo Camous, fu tramandata quell’immagine tutto sommato positiva al solo scopo di farne meglio risaltare il carattere opposto al Superbo.
Cosa vuol dire, in ogni caso, che gli ultimi tre dei sette re di Roma fossero etruschi? Non quello che si potrebbe supporre e cioè che sotto quei tre sovrani Roma fu sottomessa agli Etruschi. Già Theodor Mommsen sostenne che «il trono dato a un cittadino originario dell’Etruria non implica affatto la conquista di Roma da parte degli Etruschi». E anche Jacques Heurgon, che pure aveva opinioni diverse da quelle di Mommsen, tenne a precisare che «la Roma etrusca era rimasta una città latina». Del resto, sostiene Camous, se Roma fosse diventata davvero etrusca, la sua lingua ne avrebbe portato segni evidenti, mentre, come hanno dimostrato fin dal 1932 Alfred Ernout e Antoine Meillet, latino ed etrusco, salvo marginali eccezioni, sono rimaste due lingue tra loro estranee.
Ma vediamo in dettaglio le differenze tra il Superbo e i suoi due ultimi predecessori. Tarquinio Prisco, detto Lucumone (re), aveva sposato la nobile tarquinese Tanaquil (grande esperta dell’arte divinatoria etrusca) e, con il suo imponente seguito, era andato a Roma, su cui regnava ancora il sabino Anco Marzio, autentico fondatore della potenza romana. C’era andato in cerca di fortuna e aveva messo i suoi opliti a disposizione di Anco per una serie di operazioni militari. In questo modo se ne era conquistato la gratitudine e, alla sua morte, ne era stato il successore. Fu anche lui un grande conquistatore: sconfisse i Latini, i Sabini e gli stessi Etruschi. L’elenco delle città da lui sottomesse, scrive Camous, è «impressionante». Secondo la leggenda il Superbo sarebbe stato un suo nipote o forse il figlio di una sua seconda, assai giovane, moglie. Dopo la sua morte salì al trono Servio Tullio. Sarebbe stata Tanaquil a favorirne l’ascesa a discapito dei propri figli. Riferiscono Cicerone e Tito Livio che Servio Tullio creò 12 centurie supplementari e assestò così un duro colpo all’aristocrazia patrizia. Regnò senza l’accordo del Senato, appoggiandosi esclusivamente al popolo. Attraverso la sua riforma, scrive Camous, «ruppe il legame politico che univa i patrizi ai loro clienti, tessendo un legame particolare con la plebe che gli varrà la nomea di buon tiranno».
Perché il suo successore, Tarquinio il Superbo, verrà identificato invece come un «tiranno malvagio»? Innanzitutto per il fatto che, secondo la leggenda, con l’aiuto di sua moglie Tullia, figlia di Servio, ordì l’uccisione dello stesso Servio. Consumato l’«orribile parricidio», Tarquinio il Superbo, racconta Livio nella Storia di Roma, fu il primo a rompere con la tradizione di consultare il Senato su ogni questione che implicasse cambiamenti nella vita del regno e «resse lo Stato fondandosi solo sui consigli di famiglia: guerra, pace, trattati, alleanze, lui solo faceva e disfaceva a suo piacimento e con i consiglieri che voleva, senza mai avvalersi dei suggerimenti del popolo e dei senatori». Dopo l’uccisione del suocero, Tarquinio inventò un complotto di Turno Erdonio da Ariccia (spingendosi a fabbricare le prove di un supposto attentato ai propri danni) per giustificarne l’uccisione e assieme la brutale e definitiva sottomissione dei Latini. Un «doppio abominevole crimine», scrive lo storico, «consente dunque al Superbo di imporre la sua autorità politica: per il suo popolo egli è l’uccisore del suocero (Servio Tullio), fuori dalle mura il selvaggio assassino di Turno Erdonio». Il suo potere «è quindi illegittimo e ottenuto con l’omicidio più efferato, eseguito, ogni volta, in maniera barbara, impressionante – e nel caso di Erdonio sono gli antichi che lo sottolineano – contro un innocente».
Inizialmente, osserva Camous, quella del tiranno era stata una figura positiva. C’è «una forte analogia tra la tirannide ateniese di Pisistrato e quella dei Tarquini». Pisistrato è entrato nella leggenda per aver combattuto nel VI secolo, con l’aiuto del démos (popolo), l’aristocrazia di Atene, la cui potenza era retaggio delle riforme di Solone e Dracone. Suo figlio Ipparco, che morì assassinato, fu solo un tiranno di transizione, mentre l’altro suo figlio, Ippia, non ha goduto del «prestigio riservato fin lì al tiranno» talché «la caduta dei pisistradi venne salutata come un evento positivo». Anche perché di lì, da quella caduta, avrebbe avuto origine la «democrazia». Fondamentale è, dunque, in questo contesto il ruolo del popolo. Anco Marzio aveva incorporato a Roma l’Aventino, il colle della plebe su cui, sottolinea Cicerone, gli umili si ritireranno a mo’ di secessione all’inizio della Repubblica. Tarquinio Prisco, in continuità con la politica di Anco, se ne era anche lui guadagnato i favori. Servio se la ingraziò ulteriormente. L’ultimo re di Roma, perdendone l’appoggio, perse anche il potere. Il Superbo è considerato tale proprio perché perse il consenso popolare. Secondo Camous la «deriva personalistica e tirannica del potere reale risale però ad Anco Marzio e, da un punto di vista strettamente politico, la rottura tra la monarchia latino-sabina e quella etrusca è del tutto inventata». Quella del Superbo è in ogni caso un’esperienza a sé. In particolare nella costruzione di un mito che riconduce a Ercole. Scrive Camous che «la connotazione erculea del potere del Superbo è un dato pieno di significati: cercando di appropriarsi della figura del grande eroe mediterraneo, il tiranno mira a rafforzare allo stesso tempo la sua legittimità, e, direbbero i politologi odierni, a “lavorare sul suo radicamento locale”». Ma cosa aveva fatto Ercole di così speciale per meritare la particolare venerazione di Tarquinio il Superbo? Aveva eliminato il bandito Caco che si era appropriato delle sue giumente e, quattro secoli prima della fondazione di Roma, si era alleato con il patriarca greco Evandro, re del Palatino. In questo modo il figlio di Zeus era divenuto la prima figura leggendaria che «aveva rotto il caos originario, annunciando la vittoria di Romolo su Remo, altro principe delle forze delle tenebre».
Poi però il Superbo aveva perso i favori dell’establishment di Roma e al momento opportuno era stato disarcionato. Quel che più attira l’attenzione di Camous è il desiderio, in particolare di Tito Livio, di presentare la nascita della Repubblica nel solco della legittimità e di aggiungere al colpo di palazzo «una componente popolare necessaria per la visione nazionale del romanzo storico romano». «Avremmo capito», arriva a scrivere Camous, «se l’ultimo Tarquinio fosse finito appeso a un gancio da macello, avremmo volentieri immaginato per la coppia diabolica una fine “alla milanese”, con il re nel ruolo di Mussolini, Tullia in quello della Petacci e la tribuna del Comitium in quello della stazione di servizio di Piazzale Loreto». E invece niente di tutto questo. Attraverso «un grossolano maquillage» si cerca di «far passare» la cacciata del Superbo per una rivoluzione. Mentre si trattò, probabilmente, di una prevedibile congiura riconducibile «alla frustrazione di un’aristocrazia romana che aveva visto ridursi il proprio potere tradizionale da quando la monarchia aveva deviato verso la tirannide, con l’arrivo delle dinastie etrusche e perfino fin dai tempi dell’ultimo re indigeno, Anco Marzio».
Uno dei personaggi che più attraggono l’attenzione dell’autore è il congiurato Bruto, avo di quel Bruto che ritroveremo al momento dell’uccisione di Giulio Cesare. Quando il figlio del tiranno stupra Lucrezia spingendola al suicidio, Bruto giurerà sul pugnale con cui la donna si è uccisa che la vendicherà. Qui Camous si pone in un ideale dialogo a distanza con Andrea Carandini, che in Res publica si è occupato con grande eleganza di questo specifico passaggio. Anche Bruto, fa però osservare Camous, ha origini etrusche, è figlio e fratello di due cospiratori mandati precedentemente a morte dal re. Per nascondere i suoi sentimenti ostili al monarca, Bruto finge di essere stupido. Dominique Briquel ha ben approfondito la collocazione di Bruto nel ruolo (ricorrente all’interno degli schemi indoeuropei) della divinità nascosta e provvidenziale che finge di essere ebete, del falso idiota che aspetta il suo momento. Interessante dettaglio. Il racconto, scrive Camous, «malgrado la volontà nazionalista di attaccarsi alla versione di una rivoluzione romana e popolare contro il tiranno abietto e straniero, presenta un aspetto difficile da eliminare: essa venne dall’interno del palazzo». Fu «un colpo di Stato domestico e Bruto era un etrusco da parte di madre». A dire il vero era anche qualcosa di più: un ufficiale del regime, un tribuno dei celeres, la guardia reale, che – fece notare Tito Livio – poteva all’occorrenza convocare l’assemblea del popolo. Certamente «può sembrare strano che un presunto idiota avesse avuto accesso a una carica di tale rilievo, ma, come riporta maliziosamente Dionigi, per un tiranno impopolare era meglio forse una guardia personale comandata da un personaggio presumibilmente inoffensivo e imbecille piuttosto che da un abile politico». Strano personaggio, Bruto. Sarebbe stato facile «e, per dirla tutta, conveniente per l’orgoglio nazionale romano presentare la fuga dei Tarquini come conseguenza di un vero sollevamento nazionale del popolo romano di fronte ai suoi tiranni stranieri!». E invece «la posizione di Bruto nel cuore della dimora dei Tarquini indebolisce la dimensione nazionale del rivolgimento da cui avrebbe avuto origine la res publica». La leggenda avrebbe potuto fare a meno di quella figura. E invece ne ha fatto un protagonista. Di più: l’uomo che avrebbe traghettato Roma dalla tirannia alla Repubblica. Per questa ragione, scrive lo studioso, questa vicenda «noi la riteniamo presumibilmente storica, ancorché fortemente e fatalmente deformata».
Me perché queste complicazioni? La costruzione del tempio di Giove da parte dei due Tarquini manifesta «agli occhi di tutti – Romani, Latini, Etruschi – la nuova volontà egemonica della vecchia città di Romolo, il cui destino di conquistatrice fu rivelato dai suoi tiranni etruschi». È difficile sapere con certezza quando Roma prese consapevolezza della sua proiezione nella storia, o meglio del fatto che tale destino di grandezza era uscito allo scoperto al tempo dell’ultimo re etrusco. Ma «per radicare nel tempo la percezione di un destino romano, bisogna identificare una rottura evidente nel continuum storico della città». La vera rottura nella storia di Roma «è da ricercare in questa articolazione fondamentale tra la conquista di Veio nel 396 a.C. e la presa di Roma da parte delle orde galliche di Brenno nel 390». E, secondo l’autore non ci sono dubbi che «quel IV secolo a.C. che vide i Romani sconfiggere i loro vicini più temibili, gli Etruschi, e sottomettere definitivamente i Latini, fu un momento molto propizio per la comparsa di una vera e propria ideologia della conquista e dell’egemonia». Conquista ed egemonia alle cui origini era stato proprio l’ultimo dei sette re di Roma, Tarquinio il Superbo, tiranno colpevole di molti delitti eppure risparmiato al momento della detronizzazione. Risparmiato proprio perché implicitamente gli si riconosceva di aver fatto comprendere a Roma quali sarebbero stati i suoi destini.

PAOLO MIELI

martedì 27 giugno 2017

Belmondo

Stefano Montefiori per la Lettura – Corriere della Sera

Édith Piaf risolse la questione una volta per tutte: «Esco con Alain Delon ma torno a casa con Belmondo». Con quel naso schiacciato, l' andatura scomposta, il cognome da latin lover preso dalla famiglia paterna piemontese, Jean-Paul Belmondo ha sempre fatto impazzire colleghi dello spettacolo e pubblico più di quanto fosse ragionevole.

Adesso che il grande attore francese ha 84 anni, lui stesso si dedica a svelare il mistero. Belmondo è amato, forse ancor più dopo il malore di qualche anno fa, perché ha amato la vita più di chiunque abbia incrociato il suo cammino. Chi gli sta attorno se ne accorge, è attratto come una calamita.

Lo spiega a «la Lettura» nel suo hôtel particulier a due passi dalla Senna, con il sorriso irresistibile di chi sembra essere sempre stato felice. Accanto ha il figlio Paul, pilota e attore, che negli ultimi anni si è dedicato a ripercorrere la vita del padre: girando il documentario Belmondo par Belmondo e aiutandolo nella stesura del libro Mille vite, la mia (Donzelli), la straordinaria autobiografia di un uomo che ha attraversato i decenni senza mai immalinconirsi.

«Allora, tutto bene?», dice in italiano per accogliere il visitatore, gli occhi che brillano. Una casa piena di sole, le finestre aperte, una bella giornata. «L' italiano è la lingua che ha accompagnato i miei incontri con i più grandi registi, con le donne più belle, le auto veloci che sono state la mia passione», dice.

Per un attore francese agli inizi l' Italia era una specie di terra promessa europea, Cinecittà come Hollywood. «Mi piaceva tutto dell' Italia, mi chiamavano il bruto e io ne andavo molto fiero perché pensavo volessero dire che avevo un gran fisico. Poi ho capito che dicevano il brutto , ma non me la sono presa».

Le origini italiane rivendicate e difese anni prima anche a scuola, quando i compagni francesi lo prendevano in giro chiamandolo rital (allusione alla r sonora degli italiani), spaghetti o macaroni , e lui rispondeva a ceffoni. A quelle risse infantili deve anche una delle ragioni del successo, il naso schiacciato che non è frutto della boxe a lungo praticata ma delle botte tra i banchi.

Jean-Paul Belmondo è stato protagonista delle cronache per amori veri, o immaginati dai rotocalchi, come si diceva una volta, con le donne più belle del mondo incontrate sul set: Ursula Andress, Laura Antonelli (per davvero) e Gina Lollobrigida, Claudia Cardinale, Sophia Loren, e in Francia, tra le altre, le due dive della nouvelle vague Jean Seberg e Anna Karina. Ma Belmondo ha sempre cercato di non parlare troppo della sua vita personale. Lo fa adesso, nel libro e nel soggiorno di casa.

Perché è venuto il momento? «Perché tanti hanno scritto dei libri su di me e ho pensato che sarebbe stato un peccato se proprio io, che ne so più degli altri, non lo avessi fatto. Mi è venuta la voglia di ricordare le mille vite che ho vissuto. Per 5 mesi le ho raccontate a una persona eccezionale, Sophie Blandinières, che ha trascritto tutto. Ho voglia di raccontarmi perché credo che sia una storia a lieto fine. Non sono mai stato portato per la tragedia, anche quando giravo i film le scene più difficili erano quelle in cui mi si chiedeva di piangere. Ci sono stati i drammi e la scomparsa di persone care, ma la vita mi è sempre sembrata leggera, piena di luce».


Belmondo rappresenta un modo di stare al mondo che non è per tutti. A scuola era un pessimo studente, ai primi provini da attore il commento più ripetuto era «negato» oppure «esordiente dai tratti ingrati», «faccia buffa», o ancora il capolavoro del professore del Conservatorio, Pierre Dux, che gli disse: «Lei non terrà mai tra le braccia una donna in un film o a teatro». È finita che Belmondo è diventato una star del cinema con ruoli da seduttore. Come è possibile? «Perché nessuno è mai riuscito a offendermi davvero, la prendevo sul ridere, tanto ero sicuro che li avrei smentiti e sarei riuscito a fare quel che volevo nella vita, ovvero l' attore».

E da dove ha tratto questa sicurezza? «Dai miei genitori». La sua vita è stata straordinaria perché l' infanzia è stata unica. Grazie al padre scultore, Paul («che mi ha sempre lasciato libero di provare a essere felice») e alla madre pittrice Madeleine, «una specie di cavaliere senza macchia e senza paura. Una splendida amazzone, così mi appariva quando avevo 7 anni e lei in tempo di guerra cadeva e si rialzava di continuo in bicicletta per andare a cercare qualcosa da mangiare».

Una delle parti più belle dell' autobiografia sono i ricordi della foresta di Rambouillet, dove i Belmondo si rifugiarono per sfuggire ai nazisti e ai bombardamenti. Oggi che ha 84 anni, Jean-Paul ricorda la figura portentosa di una madre che gli ripeteva «è solo una questione di volontà, se vuoi una cosa l' avrai». «Mia mamma mi ha insegnato che bisogna credere nelle proprie passioni e desideri, infischiarsene di quelli che vogliono tirarti giù, e bisogna avere coraggio.

Lei ne aveva molto, perché viveva da sola con due ragazzini, me e mio fratello, in una grande casa sperduta in mezzo alla foresta, e ogni giorno andava a cercare il cibo per noi e per la famiglia di ebrei che nascondevamo in cantina».


Prima dei dibattiti sull' educazione permissiva o sui benefici dell' autorità, senza pensarci troppo e in barba al principio di realtà, i genitori Belmondo hanno cresciuto Jean-Paul ripetendogli che era bello, buono e bravo. Lui ci ha creduto, e lo è diventato davvero. Che differenza con Alain Delon, amico più che rivale, nonostante Édith Piaf. «Hanno sempre cercato di metterci in competizione, come se uno di noi dovesse primeggiare per forza. E invece siamo sempre andati d' accordo io e Alain, ci siamo voluti un gran bene. La più grande differenza tra noi è stata l' infanzia, e questo spiega tutto. Quanto la sua è stata povera e infelice, tanto la mia è stata piena di amore e allegria.

Abbiamo finito per diventare, nell' immaginario delle persone, lui il bel tenebroso e io la simpatica canaglia, ma è un po' la verità, e dipende dai primi anni delle nostre vite. Quelli decidono tutto, e certi rapporti continuano nello stesso modo anche dopo. Quando sono diventato famoso, e ho potuto permettermi le auto sportive che mi piacevano tanto, ci portavo mia madre, e guidavo velocissimo come piaceva a me, e non bastava mai, era lei a dirmi di andare ancora più forte! È andata bene, è andata sempre bene».

Con il coraggio e la fiducia nella vita presi con il latte materno, Jean-Paul Belmondo, raro caso di Gastone simpatico, ha indovinato tutti gli incontri. Quello con Jean-Luc Godard, per esempio. «Un giorno, mi ferma per strada e mi fa una proposta che mi sembra un po' strana: "Venga nella mia camera d' albergo, faremo qualche ripresa, le darò 50 mila franchi". Torno a casa da mia moglie Élodie, le racconto di quello strano tipo e lei, che leggeva i "Cahiers du cinéma", mi spiega che è un nuovo regista, pieno di talento. Così mi lascio convincere e mi presento nell' albergo di boulevard Raspail. Godard si rivela gentilissimo e geniale, mi fa girare Charlotte et son Jules , un cortometraggio che prelude al successo grandioso di poco tempo dopo».

Nella storia del cinema esiste un prima e un dopo Fino all' ultimo respiro . Un anno dopo Charlotte et son Jules , Godard telefona a Belmondo, gli propone la parte del protagonista maschile accanto a Jean Seberg, «e per convincermi mi racconta la trama più o meno così: "Un tizio a Marsiglia ruba una macchina per andare a trovare la ragazza. Uccide un poliziotto. Alla fine, muore, oppure uccide la ragazza, vediamo"». Quella era la versione neanche troppo ridotta della sceneggiatura scritta su un foglio da François Truffaut.

Contro il parere della sua agente, Belmondo accetta la parte. «Mi piaceva quest' idea di totale libertà, l' improvvisazione, il fatto che non ci fosse una vera sceneggiatura con le battute precise da imparare a memoria e che io potessi lasciarmi andare all' istinto, come veniva. Il giorno prima delle riprese ho chiesto a Godard se almeno avesse un' idea di quello che voleva fare. Mi ha dato una risposta che mi ha riempito di entusiasmo: "No"».

Del periodo Cinecittà, Belmondo ricorda i grandi registi con i quali ha lavorato: Mauro Bolognini, Renato Castellani, Alberto Lattuada e soprattutto Vittorio De Sica in La ciociara . Anche qui, non è l' approccio meticoloso a impressionare l' attore. «Mi colpì soprattutto la sicurezza di sé. Ci presentò le sue due famiglie, nel primo weekend una e nel weekend successivo l' altra, ed era capace di addormentarsi nel pieno di una scena madre. Dormiva per un po', nessuno osava dire nulla, poi si svegliava e diceva "Stop! Perfetto!"».

Degli attori di oggi Belmondo apprezza Jean Dujardin, che ha vinto l' Oscar come miglior attore per The Artist . «Hanno detto che vuole imitarmi ma non sono d' accordo, il suo è un omaggio chiaro, in particolare nel film OSS117 che riprende il mio L' uomo di Rio ». E nel cinema italiano? «Mi piacciono le cose di Paolo Sorrentino, La grande bellezza e Youth ». Non c' è modo di ricavare una parola storta a un uomo che ha una figlia di 14 anni, Stella. E dice «arrivederci» ancora sorridendo.

IL PANE

  Maurizio Di Fazio per il  “Fatto quotidiano”   STORIA DEL PANE. UN VIAGGIO DALL’ODISSEA ALLE GUERRE DEL XXI SECOLO Da Omero che ci eternò ...