giovedì 29 giugno 2017

Giustizia

 La Lettura - Corriere della Sera, 25 giugno 2017
di Luigi Ferrarella

L'intervista a Giovanni Fiandaca, docente a Palermo, che ha appena pubblicato "Prima lezione di diritto penale" su modi, tempi e strumenti della punizione. "Ci vorrebbe un "fermo normativo" di non breve durata delle leggi che stabiliscono reati e pene, per ripensare in maniera più razionale, organica e sobria il diritto penale sostanziale". Come per i pesci quando bisogna ripopolare il mare, sembra pensare il professor Giovanni Fiandaca, fresco autore di Prima lezione di diritto penale (Laterza), che il sessantanovenne docente di diritto penale all'Università di Palermo, già presidente di commissioni ministeriali ed ex componente del Consiglio superiore della magistratura, dichiara di aver scritto "per i non specialisti" sul cosa punire, come e perché.

È un diritto penale inflazionato?
"Per effetto di frequenti rattoppi e aggiunte, sempre più somiglia a un vestito d'Arlecchino, o a un quadro dadaista nel quale prospettive e figure e colori si sovrappongono in maniera disordinata".

La società sta male e vive angosciata, allora le si somministra la pillola calmante di nuovi reati o di pene aumentate: siamo al diritto come ansiolitico?
"Come strumento per sedare le ansie collettive provocate dall'allarme-criminalità. Anche se la funzione di rassicurazione collettiva può risultare illusoria: non esistono riscontri empirici idonei a suffragare l'idea che pene draconiane servano davvero a distogliere dal commettere reati. Ragion per cui le forze politiche sbagliano nell'assecondare acriticamente le richieste collettive di maggiore punizione, le quali spesso riflettono reazioni emotive e pulsioni aggressive che sfuggono a ogni controllo razionale".

È pur sempre un modo della politica di "parlare" ai cittadini-elettori.
"La pena è sempre stata e continua a essere un potente "medium comunicativo", il che spiega la ricorrente tentazione di due suoi usi politico-comunicativi. Pri- mo: creando nuovi reati o inasprendo reati preesistenti, il ceto politico veicola il duplice messaggio di prendere sul serio l'allarme sociale e di farsi carico del bisogno di sicurezza dei cittadini, e perciò confida di poter così lucrare consenso elettorale. Secondo: il ricorso allo strumento penale comporta difficoltà e richiede costi assai inferiori - in risorse materiali, tecniche ed umane - rispetto alla attuazione di strategie d'intervento basate sulla prevenzione extra-giuridica e sulle riforme economico-sociali".

Da uomo di sinistra la colpisce che il "pan-punitivismo" dilaghi anche lì?
"La tendenza all'impropria strumentalizzazione politica del diritto penale è in realtà da tempo trasversale. Ma rilevo che, mentre fino a un recente passato la tendenza repressiva delle forze di sinistra prendeva di mira soprattutto i reati di criminalità organizzata e quelli tipici dei colletti bianchi, queste stesse forze oggi scimmiottano la destra nell'incrementare il rigore repressivo della stessa delinquenza comune. Il che, dal mio punto di vista, segna un regresso politico-culturale. Si pensi all'impegno profuso dal Pd renziano per introdurre in una ottica populistico-vittimaria il nuovo e discutibilissimo reato dell'omicidio stradale, che rischia paradossalmente di risultare controproducente proprio rispetto al contrasto dei danni da incidenti stradali".

C'è una relazione tra sistemi elettorali e qualità della legislazione? Il maggioritario di questi anni ha giovato alla formazione del diritto penale?
"È una bella domanda. Premesso che mancano puntuali studi storico-ricostruttivi, mi limito a rilevare che la garanzia democratica sottostante alla riserva di legge in materia penale è volta a che le deliberazioni politiche su reati e pene siano frutto di un confronto dialettico il più possibile rappresentativo di tutte le posi- zioni. Da questo punto di vista, la logica della riserva di legge penalistica sembra compatibile più con la democrazia proporzionale che con quella maggioritaria. Ciò premesso in linea di principio, osservo che il maggioritario di questi anni, oltre a non risultare pienamente consonante con l'esigenza costituzionale di coprire col massimo di rappresentatività politica possibile la produzione di norme penali, non mi pare abbia per altro verso giovato a rendere più chiara, univoca o di approvazione più spedita la legiferazione penale, che ha dovuto accettare compromessi forse in misura maggiore che in passato".

Come giudica l'appena approvata nuova legge sul processo penale?
"A maggior ragione se guardata con le lenti del professore, va incontro a più di un rilievo. A parte gli ormai consueti aumenti di pena, spot pubblicitari a scopo elettoralistico, certo in teoria si poteva fare di meglio e di più. Quanto alla prescrizione, è poco corretto considerarla isolatamente dagli altri problemi di funzionamento del sistema giudiziario e, comunque, la soluzione non può consistere nell'allungarne sempre più i tempi, neppure nei reati di corruzione. Accade non di rado che le indagini, anziché prendere le mosse da ipotesi di reato sufficientemente profilate sin dall'inizio, impieghino molto tempo nell'andare alla ricerca di possibili reati. Inoltre, i tempi si allungano ulteriormente perché i pm non sempre dispongono delle conoscenze e competenze per risolvere con ragionevole tempestività i nodi sulla legittimità degli atti e sulle frequenti incertezze connesse alla fitta e oscura boscaglia delle disposizioni amministrative dietro cui si celerebbero gli accordi corruttivi".

Ma voi professori siete innocenti o è vero pure, come in Radbruch da lei citato, che il diritto "ha perso la sua buona coscienza"? Ormai quasi a ogni cattedratico si può appiccicare in partenza l'appartenenza a un ambito politico del quale si sa già farà la stampella.
"La scienza del diritto penale non si basa su conoscenze certe e neutrali, ma è una scienza debole e composita a sua volta ancorata a postulati politico-ideologici, e intrisa di giudizi di valore non sempre supportati da basi empiriche. Ma una cosa è esserne responsabilmente consapevoli. Altra cosa è che il cattedratico di turno si riduca a operare come un servo del principe, al servizio di una parte politica rinunciando in anticipo a ogni autonomia di giudizio e pensiero critico, così violando ogni regola di moralità professionale. Devo ammettere che, purtroppo, in alcuni casi questo completo asservimento si è verificato e continua a verificarsi, con conseguente pericolo di perdita di credibilità da parte di tutti".

I magistrati hanno da guardarsi più dall'esterno o da se stessi?
"Ritengo incomba più il rischio di possibili derive che non di minacce esterne. Andrebbe arginata una certa tendenza giudiziale a eludere basilari principi garantistici quali riserva di legge e tassatività, la quale sfocia in applicazioni così estensive da equivalere in alcuni casi a vere e proprie creazioni giurisprudenziali di nuove ipotesi di reato: un libertinaggio ermeneutico che, per quanto praticato anche in buona fede per soddisfare ritenute esigenze di tutela trascurate dal legislatore, viola il principio costituzionale della divisione dei poteri. Un'altra possibile deriva la riconnetterei alla persistente pretesa di una parte della magistratura, che può estendersi per contagio alle toghe più giovani, di assolvere ruoli di attori politici e educatori collettivi, nella convinzione anche sincera che la giustizia penale abbia tra i suoi compiti il rinnovamento politico e la moralizzazione pubblica. Dall'esterno, invece, non mi pare in questo momento il potere politico vagheggi riforme volte a limitare l'autonomia e l'indipendenza del potere giudiziario. Se mai, mi sembra insidiosa minaccia esterna da scongiurare la perdurante tentazione della politica di corteggiare magistrati-star promettendo loro ruoli politici di primo piano, come la recente offerta da parte del Movimento 5-Stelle al pm Nino Di Matteo della candidatura a presidente della Regione siciliana o del Ministero della Giustizia in un eventuale governo grillino. È un perverso circuito giudiziario-politico che danneggia e discredita sia la giustizia, sia la politica".

Primo a criticare radicalmente i presupposti giuridici del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, su ciò lei è stato a sua volta assai criticato.
"Da quella stessa parte di pm che io ho criticato nei miei scritti? Se è così, non sorprende. Ma è più rilevante che le mie critiche siano del tutto condivise da pm assai autorevoli e noti, di entrambe le aree, conservatrice e progressista, della magistratura. Continuo a ritenere che questo processo infinito, su storia e politica dei primi anni Novanta più che su plausibili ipotesi di reato - che rischia di avvitarsi sempre più su se stesso riproponendo teoremi accusatori più volte smentiti in altri processi e ribadendo con insistenza verità frutto più di fede che di logica probatoria - costituisca un grande laboratorio di analisi e riflessione per tutti i giuristi interessati a studiare al microscopio i possibili straripamenti e le mutazioni funzionali del processo penale".

Forse per questo però è stato pure "arruolato" da garantismi pelosi.
"Respingo fermamente, per il suo carattere decisamente illiberale, l'obiezione secondo cui non è lecito muovere critiche che possono oggettivamente prestarsi a essere strumentalizzate dal fronte dei garantisti pelosi: se le critiche sono fondate, lo studioso che le muove deve anche accettare il rischio di una possibile strumentalizzazione. Un eccesso di "correttezza politica", più che giovare, nuoce a quell'impegno per la verità cui ogni sistema democratico non può rinunciare".

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