Corriere della Sera, 27 giugno 2017
Il tiranno risparmiato. Roma cacciò il re Tarquinio il Superbo, ma non fu un’autentica rivoluzione
La prima, ancorché poco conosciuta, rivoluzione nella Roma antica fu quella che nel 509 a.C. portò alla detronizzazione dell’ultimo re. Ma potrebbe non essere stata una vera e propria rivoluzione. Questa strana vicenda ha affascinato Thierry Camous al punto da dedicarle la parte più importante del libro, Tarquinio il Superbo. Il re maledetto degli Etruschi, che la Salerno dà ora alle stampe nell’eccellente traduzione di Mariavittoria Mancini. Molte pagine mettono in dubbio si sia trattato di una vera e propria rivoluzione. Tarquinio il Superbo è un sovrano più potente dei suoi sei predecessori. Compresi gli ultimi due, Tarquinio Prisco e Servio Tullio, anche loro etruschi. Un re capace di mettere in ginocchio i Latini, di mortificare il Senato, costringere la plebe a lavori bestiali, di strappare un enorme patrimonio ai Volsci e di spenderlo quasi per intero a propria gloria. Un personaggio, scrive Camous, che «sarebbe potuto passare legittimamente alla storia con il nome di Tarquinio il grande». E che invece è stato oggetto del primo implacabile processo di demonizzazione della romanità. Dannazione della memoria che si estese per certi versi all’intero popolo degli Etruschi al quale, pure, Roma doveva moltissimo. A cominciare dal Circo Massimo, per proseguire con il Tempio a Giove Capitolino, l’intero sistema di fognature, i ludi con pugilato e corse dei cavalli, l’arte della navigazione marittima. Dagli Etruschi veniva la cultura della divinazione e di conseguenza il credito di cui per secoli continuarono a godere gli aruspici: Cicerone metteva però in guardia dai ciarlatani che si annidavano tra gli uomini che si dicevano in grado di predire il futuro, anche se riconosceva all’«etrusca disciplina» di aver consentito la previsione della guerra sociale, degli scontri tra Silla e Cinna, della congiura di Catilina; apparteneva poi a una famiglia di Tarquinia quello Spurinna che, prevedendo sinistri accadimenti nel giorno delle Idi di marzo del 44 a.C., provò a scoraggiare Cesare dal recarsi in Senato.
La rivoluzione, o meglio il golpe del 509 contro il Superbo, fu opera di Bruto e Tarquinio Collatino, destinati a divenire i primi due consoli della Repubblica. Il re deposto stranamente non fu ucciso, bensì gli si concesse di rifugiarsi a Chiusi da Porsenna. Il quale Porsenna però, narra la leggenda, colpito dall’eroismo di Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia, gli avrebbe tolto il proprio sostegno per poi allearsi con l’Urbe divenuta repubblicana. Una ricostruzione che, osserva maliziosamente Camous, «manca di logica». Di Porsenna, secondo Camous, fu tramandata quell’immagine tutto sommato positiva al solo scopo di farne meglio risaltare il carattere opposto al Superbo.
Cosa vuol dire, in ogni caso, che gli ultimi tre dei sette re di Roma fossero etruschi? Non quello che si potrebbe supporre e cioè che sotto quei tre sovrani Roma fu sottomessa agli Etruschi. Già Theodor Mommsen sostenne che «il trono dato a un cittadino originario dell’Etruria non implica affatto la conquista di Roma da parte degli Etruschi». E anche Jacques Heurgon, che pure aveva opinioni diverse da quelle di Mommsen, tenne a precisare che «la Roma etrusca era rimasta una città latina». Del resto, sostiene Camous, se Roma fosse diventata davvero etrusca, la sua lingua ne avrebbe portato segni evidenti, mentre, come hanno dimostrato fin dal 1932 Alfred Ernout e Antoine Meillet, latino ed etrusco, salvo marginali eccezioni, sono rimaste due lingue tra loro estranee.
Ma vediamo in dettaglio le differenze tra il Superbo e i suoi due ultimi predecessori. Tarquinio Prisco, detto Lucumone (re), aveva sposato la nobile tarquinese Tanaquil (grande esperta dell’arte divinatoria etrusca) e, con il suo imponente seguito, era andato a Roma, su cui regnava ancora il sabino Anco Marzio, autentico fondatore della potenza romana. C’era andato in cerca di fortuna e aveva messo i suoi opliti a disposizione di Anco per una serie di operazioni militari. In questo modo se ne era conquistato la gratitudine e, alla sua morte, ne era stato il successore. Fu anche lui un grande conquistatore: sconfisse i Latini, i Sabini e gli stessi Etruschi. L’elenco delle città da lui sottomesse, scrive Camous, è «impressionante». Secondo la leggenda il Superbo sarebbe stato un suo nipote o forse il figlio di una sua seconda, assai giovane, moglie. Dopo la sua morte salì al trono Servio Tullio. Sarebbe stata Tanaquil a favorirne l’ascesa a discapito dei propri figli. Riferiscono Cicerone e Tito Livio che Servio Tullio creò 12 centurie supplementari e assestò così un duro colpo all’aristocrazia patrizia. Regnò senza l’accordo del Senato, appoggiandosi esclusivamente al popolo. Attraverso la sua riforma, scrive Camous, «ruppe il legame politico che univa i patrizi ai loro clienti, tessendo un legame particolare con la plebe che gli varrà la nomea di buon tiranno».
Perché il suo successore, Tarquinio il Superbo, verrà identificato invece come un «tiranno malvagio»? Innanzitutto per il fatto che, secondo la leggenda, con l’aiuto di sua moglie Tullia, figlia di Servio, ordì l’uccisione dello stesso Servio. Consumato l’«orribile parricidio», Tarquinio il Superbo, racconta Livio nella Storia di Roma, fu il primo a rompere con la tradizione di consultare il Senato su ogni questione che implicasse cambiamenti nella vita del regno e «resse lo Stato fondandosi solo sui consigli di famiglia: guerra, pace, trattati, alleanze, lui solo faceva e disfaceva a suo piacimento e con i consiglieri che voleva, senza mai avvalersi dei suggerimenti del popolo e dei senatori». Dopo l’uccisione del suocero, Tarquinio inventò un complotto di Turno Erdonio da Ariccia (spingendosi a fabbricare le prove di un supposto attentato ai propri danni) per giustificarne l’uccisione e assieme la brutale e definitiva sottomissione dei Latini. Un «doppio abominevole crimine», scrive lo storico, «consente dunque al Superbo di imporre la sua autorità politica: per il suo popolo egli è l’uccisore del suocero (Servio Tullio), fuori dalle mura il selvaggio assassino di Turno Erdonio». Il suo potere «è quindi illegittimo e ottenuto con l’omicidio più efferato, eseguito, ogni volta, in maniera barbara, impressionante – e nel caso di Erdonio sono gli antichi che lo sottolineano – contro un innocente».
Inizialmente, osserva Camous, quella del tiranno era stata una figura positiva. C’è «una forte analogia tra la tirannide ateniese di Pisistrato e quella dei Tarquini». Pisistrato è entrato nella leggenda per aver combattuto nel VI secolo, con l’aiuto del démos (popolo), l’aristocrazia di Atene, la cui potenza era retaggio delle riforme di Solone e Dracone. Suo figlio Ipparco, che morì assassinato, fu solo un tiranno di transizione, mentre l’altro suo figlio, Ippia, non ha goduto del «prestigio riservato fin lì al tiranno» talché «la caduta dei pisistradi venne salutata come un evento positivo». Anche perché di lì, da quella caduta, avrebbe avuto origine la «democrazia». Fondamentale è, dunque, in questo contesto il ruolo del popolo. Anco Marzio aveva incorporato a Roma l’Aventino, il colle della plebe su cui, sottolinea Cicerone, gli umili si ritireranno a mo’ di secessione all’inizio della Repubblica. Tarquinio Prisco, in continuità con la politica di Anco, se ne era anche lui guadagnato i favori. Servio se la ingraziò ulteriormente. L’ultimo re di Roma, perdendone l’appoggio, perse anche il potere. Il Superbo è considerato tale proprio perché perse il consenso popolare. Secondo Camous la «deriva personalistica e tirannica del potere reale risale però ad Anco Marzio e, da un punto di vista strettamente politico, la rottura tra la monarchia latino-sabina e quella etrusca è del tutto inventata». Quella del Superbo è in ogni caso un’esperienza a sé. In particolare nella costruzione di un mito che riconduce a Ercole. Scrive Camous che «la connotazione erculea del potere del Superbo è un dato pieno di significati: cercando di appropriarsi della figura del grande eroe mediterraneo, il tiranno mira a rafforzare allo stesso tempo la sua legittimità, e, direbbero i politologi odierni, a “lavorare sul suo radicamento locale”». Ma cosa aveva fatto Ercole di così speciale per meritare la particolare venerazione di Tarquinio il Superbo? Aveva eliminato il bandito Caco che si era appropriato delle sue giumente e, quattro secoli prima della fondazione di Roma, si era alleato con il patriarca greco Evandro, re del Palatino. In questo modo il figlio di Zeus era divenuto la prima figura leggendaria che «aveva rotto il caos originario, annunciando la vittoria di Romolo su Remo, altro principe delle forze delle tenebre».
Poi però il Superbo aveva perso i favori dell’establishment di Roma e al momento opportuno era stato disarcionato. Quel che più attira l’attenzione di Camous è il desiderio, in particolare di Tito Livio, di presentare la nascita della Repubblica nel solco della legittimità e di aggiungere al colpo di palazzo «una componente popolare necessaria per la visione nazionale del romanzo storico romano». «Avremmo capito», arriva a scrivere Camous, «se l’ultimo Tarquinio fosse finito appeso a un gancio da macello, avremmo volentieri immaginato per la coppia diabolica una fine “alla milanese”, con il re nel ruolo di Mussolini, Tullia in quello della Petacci e la tribuna del Comitium in quello della stazione di servizio di Piazzale Loreto». E invece niente di tutto questo. Attraverso «un grossolano maquillage» si cerca di «far passare» la cacciata del Superbo per una rivoluzione. Mentre si trattò, probabilmente, di una prevedibile congiura riconducibile «alla frustrazione di un’aristocrazia romana che aveva visto ridursi il proprio potere tradizionale da quando la monarchia aveva deviato verso la tirannide, con l’arrivo delle dinastie etrusche e perfino fin dai tempi dell’ultimo re indigeno, Anco Marzio».
Uno dei personaggi che più attraggono l’attenzione dell’autore è il congiurato Bruto, avo di quel Bruto che ritroveremo al momento dell’uccisione di Giulio Cesare. Quando il figlio del tiranno stupra Lucrezia spingendola al suicidio, Bruto giurerà sul pugnale con cui la donna si è uccisa che la vendicherà. Qui Camous si pone in un ideale dialogo a distanza con Andrea Carandini, che in Res publica si è occupato con grande eleganza di questo specifico passaggio. Anche Bruto, fa però osservare Camous, ha origini etrusche, è figlio e fratello di due cospiratori mandati precedentemente a morte dal re. Per nascondere i suoi sentimenti ostili al monarca, Bruto finge di essere stupido. Dominique Briquel ha ben approfondito la collocazione di Bruto nel ruolo (ricorrente all’interno degli schemi indoeuropei) della divinità nascosta e provvidenziale che finge di essere ebete, del falso idiota che aspetta il suo momento. Interessante dettaglio. Il racconto, scrive Camous, «malgrado la volontà nazionalista di attaccarsi alla versione di una rivoluzione romana e popolare contro il tiranno abietto e straniero, presenta un aspetto difficile da eliminare: essa venne dall’interno del palazzo». Fu «un colpo di Stato domestico e Bruto era un etrusco da parte di madre». A dire il vero era anche qualcosa di più: un ufficiale del regime, un tribuno dei celeres, la guardia reale, che – fece notare Tito Livio – poteva all’occorrenza convocare l’assemblea del popolo. Certamente «può sembrare strano che un presunto idiota avesse avuto accesso a una carica di tale rilievo, ma, come riporta maliziosamente Dionigi, per un tiranno impopolare era meglio forse una guardia personale comandata da un personaggio presumibilmente inoffensivo e imbecille piuttosto che da un abile politico». Strano personaggio, Bruto. Sarebbe stato facile «e, per dirla tutta, conveniente per l’orgoglio nazionale romano presentare la fuga dei Tarquini come conseguenza di un vero sollevamento nazionale del popolo romano di fronte ai suoi tiranni stranieri!». E invece «la posizione di Bruto nel cuore della dimora dei Tarquini indebolisce la dimensione nazionale del rivolgimento da cui avrebbe avuto origine la res publica». La leggenda avrebbe potuto fare a meno di quella figura. E invece ne ha fatto un protagonista. Di più: l’uomo che avrebbe traghettato Roma dalla tirannia alla Repubblica. Per questa ragione, scrive lo studioso, questa vicenda «noi la riteniamo presumibilmente storica, ancorché fortemente e fatalmente deformata».
Me perché queste complicazioni? La costruzione del tempio di Giove da parte dei due Tarquini manifesta «agli occhi di tutti – Romani, Latini, Etruschi – la nuova volontà egemonica della vecchia città di Romolo, il cui destino di conquistatrice fu rivelato dai suoi tiranni etruschi». È difficile sapere con certezza quando Roma prese consapevolezza della sua proiezione nella storia, o meglio del fatto che tale destino di grandezza era uscito allo scoperto al tempo dell’ultimo re etrusco. Ma «per radicare nel tempo la percezione di un destino romano, bisogna identificare una rottura evidente nel continuum storico della città». La vera rottura nella storia di Roma «è da ricercare in questa articolazione fondamentale tra la conquista di Veio nel 396 a.C. e la presa di Roma da parte delle orde galliche di Brenno nel 390». E, secondo l’autore non ci sono dubbi che «quel IV secolo a.C. che vide i Romani sconfiggere i loro vicini più temibili, gli Etruschi, e sottomettere definitivamente i Latini, fu un momento molto propizio per la comparsa di una vera e propria ideologia della conquista e dell’egemonia». Conquista ed egemonia alle cui origini era stato proprio l’ultimo dei sette re di Roma, Tarquinio il Superbo, tiranno colpevole di molti delitti eppure risparmiato al momento della detronizzazione. Risparmiato proprio perché implicitamente gli si riconosceva di aver fatto comprendere a Roma quali sarebbero stati i suoi destini.
PAOLO MIELI
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