domenica 25 giugno 2017

Pompei

«Se qualcuno ricerca in questa città teneri amplessi, sappia che qui le ragazze sono tutte disponibili»: inciso su una parete interna della Basilica, quasi una locandina dell’azienda di soggiorno, l’allettante graffito non lasciava dubbi sulla principale attrazione turistica di Pompei. 
Si andava a fare un giro sotto il Vesuvio un po’ come oggi a Cuba o in Thailandia. Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum, era chiamata la città negli suoi ultimi decenni, e mai nome fu più coincidente con il proprio destino. 
La grande dea dell’amore, Venere, era effigiata ovunque e in tutte le (più imbarazzanti) posizioni, dalla nascita nella conchiglia agli intrighi adulterini con Marte, alla conseguente vendetta del legittimo sposo Vulcano. E il suo influsso ebolliva riversandosi generosamente su cittadini e forestieri. 
Ne fanno fede le iscrizioni. Rovelli, manie, ossessioni sono sempre gli stessi, da duemila (e chissà quanti più) anni a questa parte, e il lessico che li veicola conserva singolari assonanze con quello d’oggi. «Restituta, lèvati la tunica, facci vedere pilosum cunnum» incita l’avventore di un’osteria. 
«Qui ho trafitto di brutto la signora...» proclama trionfante un anonimo gladiatore, dalla parti della Palestra. «Qui Quinzione futuit natiche sculettanti» ribatte un altro, con tanto di firma. E un altro annota: «Ninfa, fututa; Amomo, fututa, Perenne, fututus» (donne e uomini, faceva poca differenza: la bisessualità era normale). 
Né erano soltanto maschili le vanterie: una certa Euplia fa sapere che «qui si è congiunta con uomini gagliardi a volontà», mentre «Romula, di uomini, mille, diecimila». 
Amori mercenari, soprattutto. Negli ultimi anni prima dell’eruzione a Pompei si annoveravano 35 bordelli, per una popolazione tra gli otto e i dodicimila abitanti (a titolo di confronto, le sartorie erano 29, i panifici 35, le tintorie 18, le osterie 120, gli alberghi 44). 
A eccezione dell’unico lupanare sorto proprio con questa destinazione, si trattava per lo più di ambienti ricavati nelle locande o in zone separate delle ville più signorili, dove il dominus non disdegnava i proventi del lenocinio, esercitato per il tramite di un liberto. 
Nella casa dei ricchissimi fratelli Vettii, per esempio, offriva la sue prestazioni la schiava Eutichide, «di belle maniere, per 2 assi» (un asse corrispondeva a una razione di vino, o a mezza di pane). 
Anche la prostituzione maschile, per uomini e donne, era praticata: Menandro, pure lui «di belle maniere», costava a sua volta 2 assi. Più caro un tale Marittimo, 4 assi (che specificava: «virgines ammittit»), mentre c’era chi arrivava fino a 5 sesterzi, pari a 20 assi. I prezzi tenevano conto delle prestazioni: molto apprezzate la fellatio e il cunnilingus. 
Sulle pareti delle cellae meretricae, affreschi e bassorilievi avevano lo scopo di eccitare il desiderio e di illustrare la specialità della casa riproducendo i cosiddetti schemata Veneris, le figure dell’amplesso, quelle stesse poeticamente raccomandate da Ovidio nell’Ars amatoria. In un caso, il quadretto è accompagnato da una scritta curiosa: «Lente impelle», spingi piano.
Quel che emerge, dai reperti erotici pompeiani oggi ospitati nel «Gabinetto segreto» del Museo archeologico di Napoli, è un modo di vivere la sessualità più giocoso e leggero, pur nella pesantezza verbale e figurativa, con il membro virile rappresentato ovunque e nelle combinazioni più fantasiose, come amuleto contro il malocchio e portatore di prosperità.

Non per niente è proprio in relazione a questi reperti, catalogati da Giuseppe Fiorelli, che a metà ‘800 comiciò a diffondersi il termine «pornografia». Straordinario, fra gli altri, il tintinnabulum di bronzo con un gladiatore che combatte contro il proprio fallo trasformato in una fiera che lo assale. Una battaglia tra le proprie contrastanti spinte (tra la ragione e la volontà, si potrebbe dire in termini schopehaueriani) che doveva ripetersi ogni giorno migliaia di volte, alle falde del Vesuvio. Finché un’altra più rovente eruzione mise fine a tutto.

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