giovedì 29 giugno 2017

Ebrei libici

David Harris - La Stampa

Nel giugno di cinquant’anni fa l’attenzione del mondo era rivolta alla guerra che scoppiò tra Israele e i Paesi arabi confinanti, guerra scatenata dalle minacce da parte del Cairo e di Damasco di voler annientare lo Stato ebraico, dalla mobilitazione delle truppe verso i confini israeliani e dalle richieste arabe all’ONU per la rimozione delle truppe di pace dal Sinai che agivano come cuscinetto al conflitto. Ma nei giorni successivi, scoppiarono combattimenti a centinaia di chilometri di distanza; al riparo dall’attenzione dei media internazionali, veniva condotta un’altra campagna spietata: la cacciata di una comunità ebraica già stremata, dalla sua dimora storica in Libia. Per i 4.000 ebrei libici rimasti di una comunità che ne contava un tempo quasi 40.000, fu il terzo e ultimo pogrom dal 1945, che segnò la fine di una storia ricca, complicata e poco nota. 
Gli ebrei avevano vissuto continuativamente in Libia per più di due millenni. Stabiliti a Cirene – l’odierna Libia orientale - dal governatore egiziano Tolomeo I nel III secolo A.C., la loro presenza precedeva la conquista e l’occupazione musulmana nel 642 A.C. da più di 900 anni. Negli anni, la comunità divenne più numerosa grazie ai berberi che si convertivano all’ebraismo, agli ebrei che fuggivano dagli inquisitori spagnoli e portoghesi del XV e XVI secolo e, a partire dal XVII secolo, dagli ebrei che arrivavano dall’Italia. Nel 1911, l’anno in cui terminò il dominio ottomano sulla Libia e inizio quello italiano, la popolazione ebraica era di 20.000 persone, cifra che arrivò negli anni a raddoppiare sino al 1945. 
Alla fine della seconda guerra mondiale la Libia passò sotto il dominio britannico. La grande maggioranza degli ebrei libici era sopravvissuta, nonostante la coscrizione di diverse migliaia di loro in campi di lavori forzati sotto il controllo fascista italiano e la deportazione di un numero molto più piccolo nei campi di concentramento nazisti. Va detto che fino ad allora le relazioni tra le popolazioni ebraiche e musulmane in Libia erano generalmente molto cordiali. 
Ma a partire dal 1945 la propaganda pan-islamica e anti-sionista della Lega araba iniziò a soffiare sulle fiamme dell’odio in Libia, innescando una serie di sanguinose rivolte contro gli ebrei. Si arrivarono a contare 130 morti e nove sinagoghe distrutte. 
Un secondo pogrom scatenato dai nazionalisti libici desiderosi di ottenere l’indipendenza dalla Gran Bretagna arrivò tre anni dopo. La rapida risposta delle forze britannica e di autodifesa ebraica riuscirono a limitare i danni. Tuttavia, 15 ebrei rimasero uccisi e centinaia rimasero senza casa. 
La nuova atmosfera di paura e di insicurezza da un lato, assieme al forte potere attrattivo del neonato Stato d’Israele per questa comunità profondamente religiosa dall’altro, portò all’emigrazione di 6.000 ebrei nel dicembre 1951, l’anno in cui la Libia ottenne l’indipendenza. 
Nonostante le garanzie costituzionali offerte dalla nuova nazione libica, furono pian piano imposte restrizioni ai cittadini ebrei. Già nel 1961 gli ebrei non potevano votare, essere eletti a cariche pubbliche, servire nell’esercito, ottenere passaporti, acquistare nuove proprietà, acquisire quote di maggioranza in qualsiasi nuova attività o controllare gli affari della propria comunità. Eppure gli ebrei rimasero legati visceralmente alla loro terra ancestrale e continuarono a sperare - contro ogni probabilità e nonostante tutte le prove contrarie – in un cambiamento positivo. 
Poi, nel giugno del 1967, scoppiò la guerra in Medio Oriente. Traendo ispirazione dagli appelli al pan-arabismo di Nasser, i libici scesero in strada e attaccarono la comunità ebraica. 
Prima che tornasse la calma, 18 ebrei furono uccisi a Tripoli, la capitale del Paese. Il bilancio sarebbe potuto essere stato molto più grave se non fosse stato per il coraggio di Cesare Pasquinelli, l’ambasciatore italiano in Libia, che ordinò a tutte le missioni diplomatiche italiane del Paese di estendere la loro protezione agli ebrei. Anche un esiguo numero di musulmani aiutarono i loro vicini ebrei, tra cui uno, che a suo grande rischio decise di tenere nascosta per due settimane, assieme ai genitori e ai suoi sette fratelli, la ragazza adolescente che sarebbe poi diventata mia moglie, fino a quando non riuscirono ad uscire dal paese. Tuttavia, questo “Giusto” libico ha rifiutato ogni riconoscimento pubblico, per evitare che la sua vita venga messa in pericolo per aver salvato degli ebrei. 
Nelle settimane successive, tutti gli altri ebrei della Libia fuggirono all’estero, sollecitati a farlo “temporaneamente” dal governo. A ciascuno era permessa una valigia e l’equivalente di 50 dollari in valuta locale. La maggioranza si diresse verso Israele; in 2.000 si recarono in Italia. Sotto molti aspetti, il tragico destino degli ebrei libici non fu molto diverso da quello di centinaia di migliaia di ebrei in altri paesi arabi. 
Nessuno rimase sorpreso quando questo esodo temporaneo diventò permanente. Il colonnello Muammar Gheddafi prese il potere nel 1969 e l’anno successivo annunciò una serie di leggi per confiscare i beni degli ebrei della Libia, emettendo in cambio delle obbligazioni che prevedevano un “giusto compenso” entro 15 anni. Ovviamente, il 1985 arrivò e nessun compenso fu pagato. 

E così, con solo qualche sporadica protesta internazionale, la scarsa attenzione da parte della stampa e nel silenzio delle Nazioni Unite, si chiuse l’esperienza dell’ennesima comunità ebraica un tempo in continua espansione nel mondo arabo - e il ricco arazzo di diversità della regione fu colpito ancora una volta in maniera irreparabile. 

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