Filippo Ceccarelli per la Repubblica
Nei momenti di serenità famigliare Palmiro Togliatti e Nilde Jotti si leggevano l' un l' altra le amatissime ottave dell'"Orlando furioso". Le basi letterarie del Migliore arrivavano a comprendere nei dettagli i rimatori del Dolce Stil Novo, e restò famosa una sua tignosissima polemica con Vittorio Gorresio a proposito di un verso di un sonetto di Cavalcanti. Giuseppe Saragat, che aveva vissuto parte del suo esilio a Vienna, conosceva molto bene Goethe di cui citava a memoria interi brani del "Faust", in tedesco, talvolta per scagliarli addosso agli ignari avversari interni - per cui a Tanassi capitò di ritrovarsi degradato d' autorità nella categoria alchemico- fantastica dell'"homunculus".
Amintore Fanfani, d' altra parte, a un certo punto anche piuttosto intenso della sua vita trovò il tempo e la passione per indagare sulla corrispondenza tra i mistici spagnoli, in particolare Santa Teresa di Avila, e la pittura di El Greco. Dunque gli antichi politici leggevano, altroché.
Fin troppo facile imbastire crudeli paragoni con l' attualità, la classica sparatoria sulla croce rossa. Di sicuro per lunghi anni un qualche tratto umanistico fu ritenuto fondamentale nel corso dei pubblici onori, così come la lettura solitaria, raccolta e concentrata, rientrava a pieno titolo nell' attività di tanti protagonisti e comprimari della storia repubblicana.
Moro e De Martino furono grandi accademici e studiosi di vaglia, come poi Andreatta, Amato e Prodi, ma ritenevano un dovere tenersi aggiornati sulla letteratura e la saggistica prodotte nel loro tempo. Lo stesso si poté dire di Einaudi, Gonella, Taviani, Amendola, Ingrao, Pajetta, Colombo, La Malfa, Foa, Ciampi e Napolitano. Sulla scia di Concetto Marchesi, diversi comunisti, per esempio Natta e Bufalini, ma anche il segretario del gruppo alla Camera Pochetti, condividevano una certa frenesia per latino; come certamente ricorda il democristiano Gerardo Bianco, già collaboratore dell' Enciclopedia virgiliana.
Cossiga fu un divoratore onnivoro di testi, fra storia anche militare, e teologia; Almirante era in grado di recitare lunghi canti della Divina Commedia, Rauti s' intendeva di mille cose, fra cui la guerra di Secessione americana; Spadolini ha lasciato nella sua villa fiorentina di Pian de' Giullari una splendida biblioteca di studi risorgimentali. E se Andreotti non affrontava viaggio senza portare con sé almeno un giallo, e Craxi si dedicava principalmente al suo Garibaldi, annessi e connessi, dopo tutto la nouvelle vague del garofano, da Martelli a Signorile, fu l' ultima o la penultima generazione a riconoscere nei libri degli strumenti utili e dilettevoli, ma ancor più indispensabili, se non obbligatori.
Dopo di che, più o meno all' inizio degli anni Ottanta, qualcosa deve essersi rotto, o interrotto, e il deserto dell' oggi, pur con le dovute eccezioni, parla purtroppo da sé, fra gorgoglii, balbettii, smargiasse apparenze culturali e sostanziale, perfino rivendicata inettitudine a ogni forma di carta stampata. Forse c' entra il tramonto delle culture politiche, la fine delle grandi narrazioni collettive; forse è il frutto della grande accelerazione tecnologica, dell' immediatezza televisiva che cala tutto nell' eterno presente; forse è il prevalere delle merci e dei consumi sullo spirito, sempre per tenerla alta.
Forse non dipendeva solo da Bettino che un giorno, per richiamare il primato della politica sulla cultura, si lasciò prendere dal malumore e intimò: «Questi intellettuali mi hanno scocciato, cambiamoli»; e magari non è neppure colpa del Cavalier Berlusconi che qualche anno dopo spiritosamente perfezionò tale supremazia: «La prossima volta me li prendo analfabeti ». Forse tutto questo doveva accadere, era inevitabile - e riconoscerlo con un supplemento di rassegnazione resta uno dei vari modi per non sentirsi rinchiusi in via definitiva nel recinto dei babbioni della conoscenza elitaria o dei moralisti della più schizzinosa nostalgia.
Fatto sta che il libro, in politica e ancor più tra i politici, si è pacificamente e desolatamente trasfigurato. Per cui, lungi dall' essere letto o persino sfogliato, comunque "serve" ad altro: attira l' attenzione, fa titolo, genera articoli e rubriche, nutre interviste, assegna rango campeggiando alle spalle dei potenti, garantisce presentazioni, anima trasmissioni e furbastre ostentazioni. «Il libro è al principio di tutto»: la formula, scrive Régis Debray ne Lo Stato seduttore, non verrà mai pronunciata con maggiore compunzione che in un talk-show. Il web e i social, occorre dire, hanno peggiorato l' andazzo.
Il guaio vero non è dunque o non è solo che i politici non leggono. Il guaio serio e anche un po' beffardo è che presidenti, ministri, leader, governatori e sindaci, lettori riluttanti o incapacita- ti, hanno preso a scrivere libri a iosa, incessantemente, e quasi sempre senza nemmeno il buon cuore di ringraziare i "negri" o i "fantasmi" che materialmente gli impilano e compilano i testi.
Brutti testi, oltretutto, e utili solo a loro. Da qualche anno, purtroppo, la faccenda vale a destra come a sinistra. Così, durante la monarchia patrimoniale berlusconiana, solo la Mondadori, la più grande casa editrice di proprietà del Cavaliere, è giunta a pubblicare le favole scritte dalla ministra Gelmini per la figlia, e poi Il sole in tasca dell' ineffabile Bondi, e quindi le esperienze mistiche e sanitarie del dottor Scapagnini, e ancora una raccolta di scritti di Lupi dal titolo La prima politica è vivere, e La mafia uccide d' estate del mancato delfino Alfano, e l' imperdibile proclama Ai liberi e forti di Sacconi, e pure il Manifesto animalista di Brambilla e infine - sempre che non sia sfuggita qualche altra prelibatezza editoriale - una interminabile intervista, niente meno che sul buongoverno, al sindaco uscente di Roma Gianni Alemanno, per giunta in campagna elettorale.
E tuttavia sotto il governo renziano di centrosinistra il libro, questa creatura un tempo e ancora meravigliosa, ha seguitato ad evolversi e nel contempo a degenerarsi quale risorsa tattica, pretesto, scorciatoia, specchietto per allocchi.
Vedi il rito, illustrato da opportuni tweet, dello shopping presidenziale in libreria; vedi il giovane presidente rottamatore che nel discorso di presentazione del suo governo a Montecitorio si è presentato ostentando sotto braccio e sul banco L' arte di correre di Murakami - e meno di un anno dopo si è scoperto che glielo aveva consigliato la sua ghostwriter, nel frattempo adiratasi, e addirittura sorpresa da tanta insensibilità.
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