domenica 11 giugno 2017

Nino D'Angelo

Malcom Pagani per “Il Fatto Quotidiano”

Il carretto passava e quell’uomo gridava gelati: “Li vendevo alla Stazione di Napoli, ma i soldi finivano molto prima che nella canzone di Battisti. Mi sono sempre sbattuto, fin da ragazzino. Un tempo si era più scugnizzi e sudarsi la giornata non era un problema”.

Oggi, dice Nino D’Angelo: “I diritti sono carta straccia, è diventato complicato anche lavorare e ogni cosa sembra faticosa. La sente la parola fatica? Il suono reca in sé un affanno, una disperazione. L’Italia ha fallito, se l’è mangiata la politica. Credevamo di stare bene, ma ci siamo distratti e la tavola è stata svuotata. Destra, sinistra e centro ce l’hanno messo in culo e oggi l’unica corsa possibile non è più a campà, ma a murì”.

A 57 anni, con la sincerità brutale di chi ha visto il mondo e attraversato decine di esistenze, il cantante di San Pietro a Patierno non ha più desideri per sé: “Io sono un miracolato. Ho guadagnato abbastanza per non volere altro e continuo a trascorrere buona parte dell’anno a Casoria. A cercare storie. Ad ascoltarle da chi è nei guai e non ha niente. Le storie dei ricchi non dicono nulla, mi danno noia e mi fanno addormentare. Non mi trasmettono la vita, ma la morte”.

Prima di vincere il David di Donatello, fare il tutto esaurito al Madison Square Garden e ottenere la patente culturale dai tanti Goffredo Fofi seguiti all’originale, Nino era solo una gialla collina di capelli stampata su dischi venduti e apprezzati soprattutto in periferia: “Napoli è una città molto classista e la sua parte ricca mi disprezzava. I figli di Posillipo e del Vomero, all’epoca, nascondevano le cassette sotto il sedile della macchina perché si vergognavano di me e non volevano farsi scoprire dai genitori”.

  
Era il D’Angelo di ‘nu jeans e ‘na maglietta.
Ho avuto successo con caschetto biondo, pop corn e patatine e quest’etichetta mi rimarrà addosso per sempre. È vero. È accaduto. Ma se vogliamo parlare seriamente di quel tempo, bisogna dire anche che qualche canzone interessante, nel mucchio, c’era.

Non glielo riconoscevano?
Non gliene fregava un cazzo a nessuno. Quel caschetto biondo di capelli, simbolo della Napoli che non contava, non era simpatico a tutti. Mi presentavano come nu guaglione derelitto di Scampia, uno scippatore, un mezzo delinquente. Ma cumm’è ‘stu fatto? Io nu ladro? Ma chi a ditto?

 Nella sua prima canzone, ‘A Storia mì’, lei descriveva la triste parabola di uno scippatore. “No, nun me chiammat ancor delinquent/ stu nomm, dic sul 'nfamità/ sentit, sentit primm tutt 'a storia mì/ e dopp me putit giudicà..."

   Ma nun aggio mai fatto nu scippo e non sono mai stato in galera. Raccontavo una vicenda comune e venivo trattato come un mascalzone. Mi faceva impazzire. Quanto mi sono incazzato su ‘sta cosa.

   Accadeva anche al grande Mario Merola. L’identificazione tra i suoi personaggi e l’uomo per alcuni era totale.
Ma io non volevo essere un semplice gregario. L’erede o peggio l’imitatore di Mario Merola o di Pino Mauro. La canzone napoletana di allora parlava di malavita e di pistole. Anticipava Gomorra di quarant’anni. Rispettavo l’immenso Merola come artista, ma sognavo di primeggiare in un mio genere. Così immaginai una canzone che potesse parlare ai giovani della mia città. Una melodia positiva che trattasse d’amore.

   Fofi gliel’aveva riconosciuto fin dal 1993. “D’Angelo ha avuto il merito di spostare la canzone napoletana dalle atmosfere malavitose alle storie d’amore”.
Ma non venivo dai quartieri alti e nei teatri classici per anni, prima di partecipare a Tano da morire di Roberta Torre, non ho potuto metter piede.

   Le negavano gli spazi per esprimersi?
Suonavo in posti che erano dei veri e propri cessi. Certe città mi erano precluse. A Bari, recentemente, mi è capitato di dirlo anche al pubblico pagante: “Ci ho messo trent’anni ad arrivare in Puglia, per suonare all’Olympia di Parigi e tornare in Italia ho impiegato solo trenta ore”. A Nino D’Angelo, al massimo, concedevano l’Arcobaleno di Secondigliano.

  La critica la spellava, ma non le mancava l’approvazione popolare.
Ho incominciato a interessarmi alla critica quando ho immaginato un salto di qualità. Da ragazzo, degli insulti sui giornali me ne fregavo. Gli articoli che mi riguardavano neanche li leggevo.

Nun aggio mai pensato che volevo diventare chissà chi. Vengo dal nulla, sono figlio di un’ignoranza, di una storia che non sarebbe neanche dovuta iniziare. Di un luogo in cui non puoi essere e devi soprattutto pensare a sopravvivere. A mio padre lo domandavo sempre.


  Cosa gli domandava?
“Perché siamo nati poveri, papà?”. “Perché dobbiamo mangiare la pasta riscaldata del giorno prima?” Sembrava colla quella pasta. Pareva Vinavìl.

   E lui cosa rispondeva?
Che sono forti, i poveri. E che mangiarla era meglio che digiunare. Me l’ha sempre buttata in faccia la povertà, mio padre. Mi portava davanti a una bella bicicletta e mi diceva: “La vedi, Nino? Ecco, questa io non te la potrò mai comprare”. Faceva il calzolaio, papà. Lo scarparo. Nel mio quartiere si costruivano le calzature per i militari. Quando l’industria bellica crollò fu costretto a emigrare a Lecco e andò a fare il muratore.

   Soffriste la partenza?
Lui soffrì molto. Si sentiva umiliato, declassato, disgregato come in quella vecchia canzone di Rino Gaetano. Al ritorno mi portò una fisarmonica e mi commossi nel profondo. Ma il vero regalo, il dono, era averlo tra noi. Vederlo trasire nuovamente int’ a casa. Con mia madre e i miei cinque fratelli affrontavamo un sacco di problemi economici, ma eravamo uniti. Allegri. Quando sei figlio è assai importante quello che succede ‘n copp a te.

   ‘N copp a lei che succedeva?
Sono un ragazzo degli anni 50, di un’età in cui la famiglia somigliava a un monumento. Ci siamo scordati come eravamo, di quanto poco ci bastasse per essere felici, della sorpresa quotidiana che ci portava a essere curiosi: “Che adda succede stammatina?”. Avevamo il divieto di lamentarci per le cose che ci mancavano. Non esisteva proprio, ma che stiamo pazziando? Poi le dico un’altra cosa.

   Dica, D’Angelo.
Eravamo curiosi. Ai nostri eredi abbiamo rubato anche quella dote. Non hanno più voglia di mistero, di scoperta. È ’na cosa troppo grande il desiderio. Non esser più capaci di desiderare niente è ’na tragedia. Non vorrei ripetermi, ma ai miei tempi annoiarsi era impensabile.

   Ancora la povertà.
Ancora la bellezza della povertà, una grande ricchezza. Mi ricordo la prima volta che vidi New York dal finestrino di una macchina. Ero atterrato da poco e scorgevo i grattacieli in lontananza. Mi venne da piangere.

   Perché?
Pensavo ai miei parenti che una cosa così straordinaria non l’avrebbero vista mai. Conobbi il successo. Chiudevo gli occhi e mi chiedevo se era ‘o vero. Al ritorno, con la borsa piena di dollari, rientrai in casa e la gettai in mezzo alla stanza. “Ora putimmo magnà” dissi.

Avevo smesso per sempre di indossare le magliette di terza mano dei cugini, di essere l’ultimo tra gli ultimi. Ero diventato normale, potevo comprare una casa, aiutare i miei genitori. Mi ero liberato dalla disperazione. All’inizio volevo solo cantare e al successo non pensavo. Claudio Villa, un gigante, aveva letto la seconda parte del libro in anticipo: “Statti accuorto, il giorno che dovessero scoprirti sarà un guaio”.

   Poi il successo arrivò. Divenne proverbiale: “Napule tre cose tene ‘e bello: Maradona, Nino D’Angelo e ‘e sfugliatelle”.
Pensavo sarebbe finita presto. Nella mia testa doveva durare poco, mai avrei pensato di essere qui a quarant’anni dall’esordio con i teatri gremiti. Nella tournée che sto affrontando “Concerto anni 80.. e non solo” incontro migliaia di persone. Generazioni diverse. C’è un filo teso tra chi mi seguiva agli inizi e chi ha imparato a conoscermi dopo lo sdoganamento degli anni 90.

   Lei litigava con Emanuele Filiberto, ma piaceva anche a Miles Davis. 
Con il principe eravamo a Sanremo. Portò in gara una canzone che era una vera e propria chiavica. Lo dissi pubblicamente e lui un po’ si risentì. Di Miles Davis seppi per caso. Era atterrato a Palermo e ascoltando un mio brano nel taxi che lo portava in albergo, chiese al guidatore di accompagnarlo a comprare tutti i miei dischi. Alla Vucciria, tra i banchi all’aperto, acquistò alcune cassette di contrabbando.

   Era di contrabbando anche il suo talento? L’ha salvata?
Non sapevo neanche che cazzo fosse ’sto talento. Vivevo alla giornata. Volavo sui miei vent’anni, esattamente come in altri palcoscenici accadeva a Maradona. Lei citava Diego. Ecco, Diego, come il calcio, mi è sempre piaciuto. Lei sa che sono nato lo stesso giorno di Michel Platini, il 21 giugno?

   È noto. Tifoso del Napoli che alla sua squadra dedicava cori anche nella finzione cinematografica.
Me li ricordo ancora. (Qui D’Angelo prende tempo e poi intona una antica canzone da ragazzo della curvaB) “Napoli/Napoli/Napoli/ la mia Napoli/Napoli /Napoli/ ‘a bandiera tutta azzurra ca rassumiglia ‘o cielo/ e o’ mare ‘ e sta città/ rint’all’uocchi e sti guaglioni ca se scordano ‘e problemi e si mettono a cantà”.

   Sempre a Maradona torniamo. Diego negli anni 80 fece dimenticare ai napoletani un mare di problemi.
Avrà le sue contraddizioni, Diego. Ma è un amico e una persona vera. Parla ai poveri e li illumina perché ai poveri, pur essendo diventato miliardario, appartiene. Non se li dimentica. Li difende perché da soli non potranno farlo mai. A chi importa un cazzo dei poveri? Ha visto che aria tira?

   Che vento in particolare?
Se devo dirlo con un parolone mi pare che si respiri un certa xenofobia, ma sempre di razzismo, esclusione, caccia alle streghe o comm ‘u vuoi chiammà si tratta. È qualcosa di strano. L’altro giorno in televisione ne stavano parlando, ma poi non l’hanno spiegato cchiu che era esattamente ‘sto razzismo. Io però lo so. Razzismo è la traduzione moderna di guerra tra poveri. Adesso che in Italia si sente la paura, lo avvertiamo. Ma certe cose non si inventano, se le vedi significa che nelle persone quei sentimenti sono sempre esistiti.

   La guerra tra poveri diceva.
Sugli stranieri si sta armando una strumentalizzazione esagerata. Esagerata proprio. I politici soffiano sul fuoco e vanno a fare passerella nei posti giusti. Sanno che sono gli ultimi voti da raccattare prima che sia tutto finito. E che tutto stia per tramontare, mi sembra evidente. La politica ha la coscienza malata e la gente se ne è accorta. È incazzata. Non sta bene con se stessa, la politica, ma le persone devono capire che i costi degli immigrati non li paga la collettività. Gli immigrati si ripagano da soli.



   Ne è sicuro? Salvini non è d’accordo.
Sicurissimo. Vederli come nemici solo quando ci fa comodo è di una disonestà bestiale. Salvini che si preoccupa del bene dell’Italia è una barzelletta. Questa Lega che va cercando voti dappertutto e con la demagogia sale nelle percentuali, non è la stessa Lega che per vent’anni ha condotto un’ignobile campagna antimeridionalista? Lo stesso partito che oggi fa finta di niente e sbarca a Lampedusa. Ma scherziamo? Chiedessero prima scusa ai campani, ai siciliani e ai calabresi e facessero nu bello lavaggio morale pure loro, poi ne riparliamo.

   Perché dovrebbero fare un lavaggio morale?
Ma perché amico mio, la gente non è scemma. Hanno rubato anche loro, sono stati presi con le mani nel sacco e allora, adesso, che cazzo vogliono? Che vanno cercando? Non avessero parlà proprio. Non ce l’ho con la gente che vota Lega e non la schifo affatto, ma con chi dovrebbe avere senso di responsabilità e invece tutte le sere urla in televisione dando l’impressione di passare lì per caso.

   Non la immaginavamo così politico.
Non devo prendere voti, devo solo vendere dischi, a me che me ne frega? È che se vedo certe cose non riesco a stare zitto.

   Almeno in Matteo Renzi crede?
Non è che non creda in Renzi, io non credo più in nessuno. Nun saccio proprio chi mi rappresenta. Chi mi rappresenta a me?

   Non saprei.
Glielo dico io, nessuno mi rappresenta. È tutto sconquassato. Ma l’ha vista Genova? Hanno detto che il maltempo non si poteva prevedere. Cazzate.

   Cazzate?
In una città sana, i tombini non saltano e i torrenti non devastano le strade. E allora dico, cumm’ è succiessa ‘sta cosa? Succede soltanto se per un secolo hai condonato qualsiasi porcata e hai fatto costruire i casermoni dove era assolutamente sconsigliato per intascarti i soldi. Hanno fatto le case n’copp e spiagge e poi si presentano con gli occhi bassi ai funerali. Ipocriti.

   Duro.
Si doveva fare prima la base, poi il resto. Se non dai gli strumenti giusti, le persone non crescono mai. Cento pecore senza una guida sapiente saranno sempre cento pecore. E a loro, è ovvio, va bene così.

   A loro chi?
Ai politici e a quelli che grazie a loro, attaccati alle poltrone, tengono i fili della cultura in Italia. Che la gente rimanga ignorante, a questo gruppo di potere conviene. In periferia, loro la cultura non la vogliono. A Forcella e a Tor Bella Monaca, l’arte non deve arrivare. “Come si permette Nino D’Angelo di portare migliaia di persone a teatro in una zona così?”. Ecco perché mi hanno tolto la direzione del Trianon licenziandomi come a nu poveru dio ed ecco perché Forcella non ha più il suo spazio di crescita. Cinquemila abbonamenti avevano fatto, lasciamo perdere.

   Una soluzione non c’è?
 A casa nostra noi D’Angelo avevamo regole semplici. Regole non scritte di buona creanza e civile convivenza. Sapevi quale era il tuo posto a tavola senza dover ingaggiare una discussione ogni volta, ma dovevi comportarti bene.


Qui invece se rubi e vieni beccato, non pensi a come restituire il maltolto ma a come non finire in galera. Ti premiano se ti comporti male, le regole valgono meno di zero e per colpa conclamata non paga mai nessuno. È sbagliato. Se uno toppa, deve pagare. Se sbagli e non paghi, sbagliamo tutti quanti. Paghiamo tutti quanti.

   Chi paga più di tutti?
I guaglioni che oggi hanno vent’anni. ‘Sta generazione di ragazzi tutti disoccupati. Nessuno ha pensato a loro. Dove li mettiamo adesso? Lei lo sa?

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