domenica 25 giugno 2017

Karin Slaughter

Il male non è una cosa da pazzi
Karin Slaughter: la violenza sta fra di noi e ha sempre una motivazione, io la racconto
L’autrice americana torna in libreria con «La morte è cieca» (HarperCollins), suo esordio
di MARCO BRUNA - Corriere della Sera 
Quando arriva il momento di raccogliere il frutto di anni di ricerche e di trasformare l’ispirazione nel prossimo romanzo, Karin Slaughter lascia la casa di Atlanta, in Georgia, dove vive, per isolarsi nel suo rifugio tra le montagne vicino al confine con il Tennessee. «L’ha costruito mio padre, mi serve per dimenticare ogni distrazione», racconta l’autrice, impegnata in questi giorni in un tour europeo che la porterà a Milano lunedì 26 giugno. «Passo lì due o tre settimane, scrivo e basta, fino a quando non sono esausta. Quindi torno a casa per recuperare una routine decente. Quando mi sento di nuovo pronta, riprendo la macchina, guido per due ore e mi rimetto al lavoro. Lì, nel mio ufficio. Sola».
Karin Slaughter ha deciso che si sarebbe dedicata completamente alla scrittura nel 1997. Ha i capelli biondi e gli occhi azzurri. È sempre stata appassionata di storie criminali — il suo cognome, tradotto in italiano, significa massacro. Al college ha studiato poesia del Rinascimento. Ha lasciato gli studi poco prima della laurea. È nata a Covington, in Georgia, il 6 gennaio 1971, ed è cresciuta nella vicina Jonesboro. «Ci sentivamo degli intrusi in quella piccola cittadina. Vivevamo in un quartiere benestante ma non eravamo ricchi. Mio padre gestiva una concessionaria di automobili, mia madre era una casalinga. Sono la più piccola di tre sorelle. I miei genitori hanno divorziato quando ero bambina. Sono stata cresciuta dalla mia matrigna». Nel censimento del 2010, Jonesboro, 45 minuti di auto da Atlanta, contava 4.724 abitanti.
Karin Slaughter ha esordito nel 2001 con il thriller La morte è cieca (Blindsighted), che HarperCollins ha da poco ripubblicato in Italia. Da allora ha venduto 35 milioni di copie ed è stata tradotta in 36 lingue. La passione per il crimine è sbocciata quando aveva 8 o 9 anni, quando Atlanta era sotto shock per una serie di omicidi in cui furono coinvolti almeno 28 tra bambini e adolescenti afroamericani. Il caso è conosciuto come The Atlanta Child Murders: dal 1979 al 1981 la città visse sotto la minaccia di un serial killer ossessionato dalle sue giovani vittime. La polizia arrestò nell’81 Wayne Williams, un afroamericano di 23 anni, al quale vennero imputati solo due degli omicidi. Williams venne condannato a due ergastoli nel 1982. «In quegli anni ho capito quanto la violenza riesca a trasformare radicalmente la comunità in cui vivi: prima di quei fatti di sangue i miei vicini erano molto aperti, avevano fiducia l’uno nell’altro. Dopo i primi omicidi cambiarono completamente, così come la mia famiglia. Non potevo più girare con la bicicletta nei posti che amavo, dovevo sempre dire ai miei genitori dove andavo e con chi. Ero affascinata dal modo in cui il crimine agiva nella mente delle persone. Volevo saperne di più».
La morte è cieca, il volume che ha inaugurato la serie ambientata nell’immaginaria Grant County, deve molto a quel fatto di cronaca: nel libro il sospettato è un maniaco a cui piace infliggere terribili torture alle proprie vittime. La chiave per scoprire l’identità del killer è la coroner Sara Linton; lo scenario è la tranquilla Heartsdale, cittadina della Georgia. Il passato della protagonista, come in tutte le storie della Slaughter, gioca un ruolo fondamentale. Un tema che ritorna anche in Scia di sangue (2017, HarperCollins), l’ultimo capitolo di un’altra serie che ha per protagonista il detective nato dalla penna della scrittrice, Will Trent. «Will è un sopravvissuto, ha alle spalle una vicenda di dolore e abbandono. Non aveva una famiglia, è stato dato in affidamento sin da piccolo. Una volta maggiorenne, quando non si è più tutelati dalle leggi sull’affidamento, ha passato qualche tempo in un centro per senzatetto. E si è trovato di fronte a una scelta: seguire la strada del crimine o quella della legge. Si trattava di scegliere se vendicarsi di un sistema che lo ha umiliato o lottare per cambiare le regole di quella società».
Non è difficile immaginare da dove provenga l’ispirazione di Karin Slaughter: il tasso di criminalità di Atlanta è tra i più alti degli Stati Uniti. Secondo l’Fbi, nel 2015 ci sono stati, su un campione di 100 mila abitanti, 94 omicidi, 170 stupri e 1.995 furti. «Il crimine è ovunque, basta guardarsi intorno. Le mie storie prendono spunto da tematiche sociali. La violenza sulle donne è una di queste. Un criminale non decide di fare del male perché è un pazzo, ha sempre una motivazione: è quello che cerco di portare alla luce nei miei libri, perché credo che ciò che nobilita il lavoro di uno scrittore sia la sua capacità di capire il contesto in cui vive».
Karin Slaughter ha consolidato nel corso della sua carriera una routine sistematica. Lavora anche a più storie contemporaneamente e impiega di solito uno o due anni per completare le ricerche per un nuovo romanzo, che scrive in media in quattordici settimane. Quando è impegnata nella scrittura l’unica persona con cui ha contatti è la sua editor. Non permette a nessun altro di leggere le prime stesure del libro. Ha impiegato otto anni per trovare un agente, che negli Stati Uniti significa avere maggiori probabilità di essere pubblicati. Si confronta spesso con il Georgia Bureau of Investigation (Gbi) — per cui lavora Will Trent e con cui è in contatto grazie alle conoscenze politiche del padre —: lì si informa sui tipi di crimine che devono affrontare ogni giorno agenti e detective e su come portano avanti le indagini. Assiste anche ad autopsie per raccogliere dettagli utili alle sue storie.
Il Sud è la sua fonte di ispirazione, il luogo dove nasce tutto. «Penso che gli scrittori che nascono qui siano i migliori», dice ridendo, «perché il Sud ti offre dei dettagli, ha un’identità». Tra i contemporanei ama Lisa Gardner, Lee Child, Michael Connelly, Mo Hayder — «i soliti sospetti» — mentre tra i classici hanno avuto un ruolo determinante nella sua formazione Margaret Mitchell (nata e morta ad Atlanta) — «soprattutto Via col vento» — e Flannery O’Connor (nata e morta in Georgia). «Ero una bambina che veniva da una piccola cittadina del Sud, e a quelle come me veniva detto di stare al proprio posto, che non sarebbero mai state all’altezza dei maschi. Queste autrici mi hanno permesso di interessarmi a ciò che amavo. Leggerle è come se mi avesse liberato, come se mi avesse dato la licenza di scrivere di quel che volevo».
Quando non scrive, cosa che accade molto raramente, Karin Slaughter ama leggere — «mi piace di tutto, dalla letteratura alla storia» — e guardare le sue serie tv preferite, The Americans e Breaking Bad. Ama i gatti — «ho fatto costruire delle gattaiole nel mio chalet in montagna così possono entrare e uscire. Nelle mie storie ucciderei chiunque, tranne un animale» — e odia viaggiare in aereo. Si è sposata da poco dopo 25 anni di relazione.
Il suo detective, Will Trent, non ha l’aspetto dell’eroe, e neanche i modi. È schivo e riservato. Ed è dislessico, come la sorella maggiore dell’autrice, un dettaglio che lo fa apparire quasi come un outsider. Il contrario del cattivo. Il suo personaggio ricorda un po’ quello che scriveva nel 1944 Raymond Chandler nel saggio The Simple Art of Murder (La semplice arte del delitto): «L’uomo che solca le strade del crimine è egli stesso l’opposto di un criminale».
«Ognuno di noi nella vita deve affrontare qualche avversità. Io non faccio altro che raccontarlo in modo diverso attraverso le mie storie».

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