Milena Gabanelli per il “Corriere della Sera”
Berlino Ovest, 26 giugno 1963, davanti a una folla immensa, Kennedy pronuncia il memorabile discorso sulla libertà che conclude con: «Ich bin ein Berliner» (io sono berlinese). L' autore di quelle parole, diventate immortali, si scopre oggi, è Frederick Vreeland, un elegante novantenne, figlio di Diana, la donna che rivoluzionò la moda americana, ma soprattutto il defilato depositario di quasi un secolo di storia.
«Sì, diciamo che questo è il mio piccolo posto nella storia. Lavoravo per la Cia a Berlino, quando nel '63 ho ricevuto l' ordine di passare al National Security Council alla Casa Bianca, con l' incarico di occuparmi di Africa e alcune visite ufficiali, fra cui quella di JFK a Berlino. Passavo con lui un' ora nel suo ufficio tre volte la settimana. Nei vari governi che ho attraversato, non ho mai visto nessuno insistere così tanto per avere informazioni sui Paesi che visitava; ed era affascinante vedere questo cervello sempre alla ricerca del modo migliore per affrontare i problemi. Quel giorno durante il briefing mi dice "Preparami una frase molto corta da ricordare in tedesco".
Mi sono consultato con i miei colleghi più brillanti, e alla fine è saltata fuori la citazione di Martin Lutero: "Io sono qui, resto qui, non posso fare altrimenti". A Kennedy però non è piaciuta l'idea che un cattolico come lui attingesse da un discorso del grande eretico. Allora lì per lì gli ho detto "Ich bin ein Berliner". L' ha trovata perfetta poi l' ho allenato sulla pronuncia, dove invece era disastroso!»
Questo retroscena non si è mai saputo?
«Si trova traccia in "Conversations with Kennedy", di Ben Bradlee del Washington Post , autore della sua biografia e suo grande amico».
Frederick Vreeland è uno degli ultimi testimoni della Guerra fredda. Al servizio della Cia e del Dipartimento di Stato dal 1951 al 1985, poi direttore generale dell' Aspen Institute a Roma, quindi ambasciatore in Marocco, ha il distacco di chi ne ha viste tante: reclutatore di spie, consigliere di presidenti, mediatore fra governo e ambasciata americana a Roma in anni di fuoco, dal 1978 al 1985.
Come si convince un funzionario straniero a tradire il suo Stato?
«Prima devi individuare "l' asset" di cui hai bisogno e sapere tutto di lui, poi inizi un lento lavoro di preparazione. Nel '73 ero a New York, e con questa procedura ho iniziato il reclutamento del numero due della delegazione sovietica all' Onu, Arkady Shevchenko, consigliere personale del ministro degli Esteri Gromiko».
Cosa faceva per voi?
«Ci raccontava cosa succedeva agli alti livelli del ministero degli Esteri sovietico; lui conosceva molte cose».
Come lo ha convinto?
«Era un intellettuale e io facevo parte di un gruppo letterario a Manhattan; l' ho portato lì qualche volta, e siamo diventati molto amici. A quel livello loro non erano molto sorvegliati. Ovviamente gli abbiamo dato dei soldi, ma la motivazione principale era il disgusto verso il suo Paese, tant' è che poi ha chiesto asilo politico. Ma i russi non gliel' hanno perdonata; anni dopo morì, probabilmente avvelenato».
Dal '57 al '62 lei si trovava a Bonn e poi a Berlino, qual era la sua attività prima e dopo il Muro?
«A Bonn tenevo i contatti con i funzionari delle ambasciate dell' Europa dell' Est, mentre negli anni passati a Berlino Ovest, dove la Cia aveva tanti agenti, ero l' unico che poteva andare oltre il Muro perché avevo passaporto diplomatico. Lì la persona più interessante era un tedesco che passava le serate con i suoi amici apparatchik , e noi volevamo sapere quello che facevano e pensavano.
Mi ero organizzato così: a Berlino Ovest usavo la mia macchina personale per arrivare fino a un certo posto, facevo un tratto a piedi, poi salivo su un' altra macchina che mi aspettava e mi portava in un nostro appartamentino. Lui arrivava, quasi sempre ubriaco, e mi raccontava tutto quello che aveva sentito dai dirigenti del partito di Berlino Est.
Il mio compito era quello di mantenere un' amicizia personale, pagarlo, e permettergli poi di fuggire da Berlino Est per venire a Berlino Ovest. Registravo tutto quello che diceva nelle ore passate insieme, poi passavo il resto della notte a trascrivere quello che poteva essere interessante per Washington e i dettagli dell' incontro: come era arrivato, a che ora, per essere sicuri che non ci fosse nessuno a sorvegliare».
Proprio come nei film.
«Forse Il mio lavoro per la Cia però non è mai stato ufficiale, perché ho lasciato il governo come dipendente del Dipartimento di Stato. Solo nel 1989, quando Bush, quello buono, mi ha presentato al Senato per diventare ambasciatore, il mio curriculum è diventato noto».
Quanto c' è di vero in quello che conosciamo sull' omicidio Kennedy?
«Il rapporto ufficiale che pretende di coprire tutto, non copre tutto. Qualcuno ha sparato anche dalla strada, ma non lo abbiamo mai trovato. Ci sono molti dettagli di quell' omicidio che non conosceremo mai».
Nell' anno passato alla Casa Bianca sarà stato testimone anche della vitalità extraconiugale del presidente, di cui non si è mai saputo nulla. Lo avete coperto voi o i tanti amici giornalisti?
«I giornalisti si alternavano alla Casa Bianca giorno e notte, li conosceva tutti, tutti sapevano, e lui non si dava da fare per nascondere, ma non hanno mai scritto una riga. Le racconto questa: una mia cara amica un giorno mi fa vedere un orologio Cartier e mi dice: "Me lo ha dato ieri sera Kennedy, dopo aver fatto l' amore con me alla Casa Bianca". Poi mi ha spiegato che era il regalo fatto al presidente due giorni prima da Marella Agnelli in visita».
Ha riciclato il regalo di Marella Agnelli con l' amante di turno?
«Sì! Non aveva limiti! Ma anche in Francia era così! Ho passato 7 anni a Parigi, e il presidente poteva fare qualsiasi cosa e nessuno scriveva niente! Era una tradizione adesso sarebbe impossibile».
Lei ha lavorato anche con Bob Kennedy.
«C' è un episodio che non posso dimenticare. Dopo la morte di John, Bob si è presentato come candidato alla presidenza, mentre era senatore di New York. Io seguivo tutti i suoi discorsi, e ogni volta attaccava la Palestina a sostegno di Israele. Questa strategia va bene a New York perché gli ebrei sono una parte cruciale della città, ma negli altri Stati non ce n' è bisogno. Un giorno gli ho detto "Bobby, è tutta l' America che vota, e voterà per te, se continui così non funzionerà".
Lui si è consultato con il direttore della campagna elettorale che ha detto: "Prima dobbiamo farlo eleggere, poi ci penseremo". Una settimana dopo lo hanno ucciso. Il mio ambasciatore alle Nazioni Unite mi ha mostrato il diario dell' attentatore palestinese sul quale ogni giorno scriveva: "Bob ha criticato ancora gli arabi". Il giorno in cui lo ha ucciso ha scritto: "È andato troppo lontano, adesso va fermato".
Se avessi insistito di più chissà. Le dirò invece che due anni dopo il direttore della sua campagna si è presentato come senatore a New York e ha annunciato per la prima volta di essere ebreo».
La straordinaria memoria per i dettagli sconfina in una punta di reticenza sul periodo 1978-1985. In quegli anni, mentre in Italia succedeva di tutto, lui era a Roma presso l' ambasciata americana, a osservarci.
Qual era il suo mandato?
«C'era il timore che il Partito comunista italiano prendesse il potere e uscisse dalla Nato, e per Washington era importante sapere cosa avessero intenzione di fare. Quello che era invece importante per me è che Berlinguer andava in chiesa e faceva battezzare i bambini. In tutta Europa un capo comunista non andava mai in chiesa. Inoltre Berlinguer era d'accordo sulla partecipazione italiana alla Nato... erano segnali interessanti».
Non vi ha allarmato il compromesso fra la Dc e il Pci?
«Non avevamo una politica contro».
Cosa pensavano gli americani dell' omicidio Moro?
«Io sono arrivato a Roma dopo, a ottobre del '78. Fino a quel momento non avevamo molta considerazione per gli atti di terrorismo delle Brigate rosse in Italia. Eravamo concentrati sul comunismo come "il" problema mondiale. Con l' omicidio Moro abbiamo capito che il nostro principale alleato nel Sud Europa era in pericolo, e questo poteva mettere in pericolo anche tutta la nostra strategia di difesa mondiale».
Sono gli anni della strage di Bologna e dell' esplosione di un aereo su Ustica. Il radar Nato di Napoli aveva registrato tutto immagino.
«Esatto».
Voi avete visto quello che è successo, ma noi abbiamo aspettato 20 anni prima di chiedervi i tracciati, e a voi non è mai venuto in mente di consegnarceli prima «Esattamente a me nessuno ha chiesto nulla, anche perché non seguivo direttamente la questione».
Il rapimento del generale Nato Dozier invece lo ha seguito lei. Dicembre 1981. Com'è andata?
«Dentro l' ambasciata io ero il responsabile della liberazione di Dozier, e la prima cosa che ho detto al mio ambasciatore è stata questa: "Durante l' affare Moro i servizi italiani erano divisi, carabinieri e polizia hanno indagato separatamente, ed è finita molto male. Quindi la prima cosa che dobbiamo fare è pretendere che l' Italia abbia un solo corpo dedicato alla ricerca, e una sola persona di riferimento".
Il ministro dell' Interno Rognoni voleva essere lui a occuparsi del coordinamento, ma io non ho accettato. Il ministro ha tante altre cose da fare, perciò abbiamo insistito molto anche con il premier Spadolini: "Dovete indicare qualcuno che dedichi tutto il suo tempo a coordinare le forze di polizia fino a quando non avrete trovato il generale". Si immagini, il Pentagono e tutte le Forze armate americane erano pronte a venire qui, ma ho convinto l' ambasciatore Rabb che Dozier dovevano trovarlo gli italiani, da soli. E così è andata».
Sa che non ci crede nessuno?
«Lo so, gli italiani sono fatti così».
Sono tutti convinti che i dieci migliori uomini del team fossero vostri.
«Non è vero, e i nomi sono noti. Noi chiaramente eravamo pronti a intervenire, in caso di richiesta. Pensi che ogni giorno ricevevo pressioni dal Pentagono, e mi dicevano: "Il generale è in questo paese del Veneto, in una piccola casa vicino al fiume, al secondo piano di un edificio blu". Sa chi dava queste informazioni al Pentagono?
Una chiromante! Capisce? Là dentro c' era qualcuno che cercava informazioni in questo modo!».
Tornando al Pci, che in quegli anni cresceva fino a diventare il primo partito alle Europee dell' 84. Come veniva sorvegliato questo fatto?
«Avevamo dentro l'ambasciata la sezione politica, io ero consigliere per gli affari esteri. Eravamo in otto a sorvegliare tutta la politica italiana e la crescita del Pci, come le ho detto, era molto monitorata, ma non la ritenevamo veramente pericolosa; era un comunismo di facciata: pensi che Rabb era un buon amico del sindaco comunista di Roma Luigi Petroselli, e cenavano spesso insieme».
Erano anche gli anni del Papa polacco, come veniva seguito?
«Lui era considerato un Papa politico, che lavorava prima di tutto per il partito di Solidarnosc, quindi c'era un tremenda attenzione, e dentro al Vaticano c' era un ambasciatore che aveva un rapporto diretto con il Dipartimento di Stato. Quello che so è che il numero due della Cia veniva a Roma regolarmente, tre volte l'anno, per incontrare il Papa e consegnargli direttamente i rapporti che erano importanti per lui. Erano visite segrete che nessuno doveva conoscere».
Quindi lo avete supportato?
«Certamente! Tutto quello che il Papa ha chiesto, noi glielo abbiamo dato».
Mentre iniziava lo sgretolamento dell' Unione Sovietica, in Italia al governo c' era Craxi, che a voi non piaceva tanto perché strizzava l' occhio al mondo arabo. La crisi di Sigonella è stato un episodio casuale o il frutto di una tensione in Medio Oriente che stava via via crescendo?
«È una buona domanda, ma Sigonella era fuori dal mio perimetro. Io però ero d'accordo con Craxi: penso che abbia fatto bene a non ammettere interferenze sul sequestro dell' Achille Lauro e a difendere il principio di sovranità. Cosa pensavano a Washington non so».
Invece dei servizi segreti italiani cosa pensavate, che erano deviati, o rispondevano a un gioco solo?
«Noi pensavamo che fossero completamente disorganizzati: il ministero dell' Interno controllava una parte, quello della Difesa un' altra, la presidenza del Consiglio una terza, e ognuno andava per conto proprio. Ma all' epoca anche il capo della Cia non parlava con il capo dell' Fbi. Immagina cosa significhi questo?».
È opinione diffusa che con la Francia e Germania concordiate le politiche, mentre con l' Italia non negoziate nulla. Insomma, non ci prendete sul serio?
«Siete voi i primi a non prendere sul serio il vostro governo! Siete convinti che solo chi è capace di far spettacolo possa essere eletto e rieletto. Berlusconi ha fatto show business per 15 anni! Certo, con Trump oggi a noi succede la stessa cosa».
Sembra che gli Usa preferiscano un' Europa disgregata, e non forte e unita.
«Non è vero, per me la Brexit è un disastro, e se ognuno tornerà con la propria moneta sarà una storia tragica! Certamente Trump non farà nulla per evitare questa frammentazione».
C' è la convinzione che farà qualcosa per frammentarla
«Non lo so; l' unica cosa buona di Trump è che, al contrario di tutti i politici e di tutti noi che abbiamo lavorato per la politica, è capace di cambiare prospettiva in un secondo. Può fare cose completamente diverse da quelle promesse in campagna elettorale. Però, se riescono a fare l'impeachment, il giorno stesso diventerà presidente il suo vice, Mike Pence, che è molto peggio! Lui è un uomo di estrema destra e resterà fedele alle posizioni di estrema destra!».
Quindi dobbiamo augurarci che Trump resista?
«La risposta è sì, perché sappiamo già che Trump perderà le lezioni intermedie, quindi ci sarà un Parlamento per metà democratico e per metà di estrema destra, dunque un Senato bloccato fino alle prossime elezioni. Poi verrà sicuramente eletto un democratico».
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