lunedì 30 gennaio 2017

Hippie generation

Antonio Lodetti per il Giornale

La controcultura ha innegabilmente fatto la sua rivoluzione. Personaggi «contro» come Allen Ginsberg, Timothy Leary, Gary Snyder, William Burroughs hanno lasciato il segno nel modo di vivere e di pensare anche odierno.

In Inghilterra prese piede nel 1958 dalla «Campaign For Nuclear Disarment» che ogni anno a Pasqua organizzava una marcia da Aldermaston a Londra in cui si univano ragazzi che venivano dai pub di campagna con idee anarchiche e la passione per il jazz di New Orleans e per la marijuana.

La data di nascita ufficiale della controcultura risale al 16 ottobre 1965, a San Francisco, dove Ken Kesey e i suoi Merry Pranksters (che giravano su un pullmino coloratissimo pitturato con svastiche, aquile e simboli nazionalisti), Allen Ginsberg con il suo pacifismo e Timothy Leary con i suoi test con l'Lsd sconvolsero l'America durante gli International Day of Protest. Quella sera Chet Helms, Luria Castell e The Family Dog tennero un happening, intitolato A Tribute to Dr Strange (in omaggio al fumetto di culto) che segnò l'inizio della stagione hippie.

Quanti personaggi - da Lawrence Ferlinghetti a Ken Kesey - quanti musicisti - dai Charlatans ai primi Jefferson Airplane - hanno cambiato il costume e il modo di vivere il rock'n'roll. Anni ingenui, anni ribelli, anni creativi e formidabili, anni raccontati in una mostra, ricchissima di foto inedite e di memorabilia, al Vittoria & Albert Museum di Londra (fino a fine febbraio) dal titolo You Say You Want a Revolution? Records and Rebels 1966 - 1970 di cui è disponibile in Italia un lussuoso e gigantesco catalogo.

La musica fu naturalmente il propellente e molto più di una colonna sonora per il «Movimento»... Bastava ascoltare le prime esibizioni «acide» dei Grateful Dead, dei Quicksilver Messenger Service di John Cipollina, dei fragorosi Big Brother & The Holding Company che si esibirono allo storico Human Be In al Golden Gate Park di San Francisco il 14 gennaio 1967.

Bastava la testimonianza di coloro che hanno scritto la storia attraverso il Festival di Monterey (16-18 giugno 1967), il primo grande raduno hippie dove debuttò Janis Joplin (con i Big Brother) fuori dalla Bay Area, dove si assistette alla prima esibizione di Otis Redding per un pubblico bianco, dove i Who arrivarono per la prima volta in America così come Jimi Hendrix. Un successo inatteso e uno spot favoloso per il nuovo mondo che viveva di «pace amore e musica».

Con il servizio d'ordine degli Hell's Angels non accadde nulla. Dennis Hopper - non a caso protagonista di Easy Rider - disse di quell'esperienza: «Le vibrazioni erano eccezionali. La musica era fantastica. Per me fu il momento più puro e più bello dell'intero trip degli anni '60. E se fosse continuato, avrebbe potuto davvero diventare la nostra Camelot».

Così come non accadde nulla - se non il maltempo e l'immensa marea di fango - a Woodstock, che peraltro non ebbe nessun tipo di servizio d'ordine, massima espressione dell'«era dell'Aquario» conclusa da Jimi Hendrix che stravolgeva con le sue distorsioni The Star Spangled Banner (inno nazionale americano) mentre si concludeva l'evento e il pubblico si allontanava lentamente.

L'Lsd a quei tempi «espandeva la mente» e aiutava a raggiungere nuove percezioni anche nella musica, non a caso Jerry Garcia e i suoi Grateful Dead ne facevano larghissimo uso per i loro psichedelici spettacoli dal vivo e per lunghe suite come Aoxomoxoa.

Anche in Inghilterra - seconda patria della nuova musica dopo l'onda lunga del British Blues - l'Lsa divenne oggetto di culto, anche nelle canzoni che spaziavano dalle beatlesiane Strawberry Fields Forever e Penny Lane (definite «british musical psychedelia») a See Emily Play, secondo singolo dei Pink Floyd che troneggiava nella classifica dei Top Ten. «Era un incrocio tra Lewis carroll, Hillaire belloc, A.A. Milne e tutte quelle tradizionali storie per bambini. C'è tutto questo nei brani di Syd barrett, unito al senso della tragedia».

La psichedelia e l'Lsd, fenomeno creato dai bianchi, arrivò persino a contagiare la cultura nera... Così la potente Motown affidò a Diana Ross & The Supremes il brano Reflections e Otis Redding incise la sua favolosa ballata (Sittin' On) Dock of the Bay (uscita postuma dopo la sua morte in un incidente aereo) che - se non era una ballata psichedelica - era una riflessione sulla sua esperienza a Monterey e - uscita nel 1968 - catturò appieno lo spirito di quell'epoca.

Alberi

Marco Belpoliti per Robinson - la Repubblica

Gli alberi sono belli, sono alti, sono forti, sono poderosi, sono resistenti, sono rassicuranti, ma nonostante questo, per quanto possano vivere più a lungo di qualsiasi essere vivente del pianeta, essere un albero è una gran fatica, più che essere uomini. Questo ho compreso leggendo il libro di Peter Wohlleben La saggezza degli alberi (Garzanti) che ha come titolo originale Capire gli alberi.

Wohlleben è una guardia forestale che custodisce il Parco nazionale dell’Eifel in Germania, ambientalista e autore di bestseller internazionali. Possiede il gusto per la divulgazione, come mostrano le schede dedicate ai singoli alberi, quasi una piccola enciclopedia arborea.

Nel suo libro spiega come quella degli alberi sia una lotta continua per sopravvivere in condizioni estreme: lotta per la luce. Gli alberi puntano verso l’alto, contrastano più di tutti i viventi della Terra la forza di gravità. Cercano di crescere dritti intercettando la fonte primaria della loro energia: il Sole. Nel bosco i sovrani supremi sono gli alberi di grandi dimensioni, che possono estendere i loro rami in tutte le direzioni. Sotto di loro cercano spazio piccoli alberi nati spesso dall’albero-madre.


Un grande albero ha circa duecentomila foglie che creano una superficie complessiva di mille metri quadrati: come un piccolo capannone. Accanto ci sono alberi più piccoli, che bramano un posto tra i giganti onnipotenti. Cercano di partecipare al bagno di sole, se ci riescono. Più sotto ci sono esemplari più piccoli, dalla corona di minori dimensioni, che non captano direttamente la luce, e spesso si piegano di lato con fare rassegnato (definizione dell’autore) e possono persino avere cento anni.

Più in basso ancora, quasi rasoterra, ci sono alberelli di varie decine di anni, che cercano di salire, piccole creature infanti che rischiano sempre di morire e di trasformarsi in humus. Se l’albero-Re si ammala e muore, allora tutto cambia.

Bisogna essere lesti — si fa per dire — per prenderne il posto, una chance che capita mediamente una volta ogni duecento anni. Gli alberi sono pazienti, tenaci e a loro modo saggi, come dice il titolo italiano, ma lottano per la vita non meno degli altri organismi viventi, anzi di più. Nei boschi crescono rapidamente solo i più alti, quelli che hanno a disposizione una superficie più elevata e quindi possono produrre zuccheri, proteine e legno. Per avere successo gli alberi devono diventare vecchi, ed evitare i loro mortali nemici: vento, insetti, tempeste e soprattutto funghi.

Questi possono avere un ruolo negativo, ma ne rivestono anche uno positivo. Nelle radici creano una simbiosi con gli alberi detta micorriza: avvolgono in un soffice mantello le radici sottili dell’albero aumentandone la superficie, così da costituire una sorta di batuffolo di cotone, che assorbe acqua e nutrimento, da cedere alle radici stesse.

I funghi sono a loro volta esseri singolari, e costituiscono un regno a parte rispetto ai tre tradizionali: il Regno Protista, quarto regno; secondo altri esisterebbe un loro sesto regno. Chi s’immagina che la lotta avvenga anche sottoterra, tra le radici? Il faggio, per esempio, racconta la guardia forestale, è un albero che taglia i rifornimenti ai vicini, riserve d’acqua e sostanze nutritive, allo scopo di distruggere i rivali che l’affiancano. Seduti all’ombra delle loro fronde in estate si pensa: che pace, che tranquillità.  No! Come aveva capito Leopardi, intorno è la lotta di tutti contro tutti.

I faggi, per restare a loro, alberi bellissimi, sono una specie sciafila, che tollera bene l’ombra e lascia filtrare solo il tre per cento della luce, così da far deperire le loro improvvide vicine, per esempio le querce. Spietatissimi. Se poi uno pensa agli alberi come singolarità, ovvero ciascuno per sé, sbaglia. Gli alberi sono organizzati in società. Dice l’autore: esistono gerarchie precise, e usa un’espressione tratta dalla sociobiologia di Edwars O. Wilson, “superorganismo”: come le formiche, le api e le termiti.

Gli alberi poi sentirebbero il dolore, come noi umani. Il dolore è un segnale, avvisa che c’è una ferita, e nessun albero può ignorarlo pena la morte futura. Wohlleben ritiene lecito supporre che una lacerazione del legno provochi nell’albero fitte assai dolorose. Attraverso le fenditure provocate dagli agenti atmosferici entrano infatti i funghi patogeni; l’albero perciò reagisce riparando i tessuti, depositando fibra legnosa nel punto lesionato. Un processo che dura decenni e che possiamo leggere sulla sua faccia esterna, la corteccia: rigonfiamenti, gibbosità, biforcazioni, fasce callose. Lì gli alberi raccontano la loro storia, se solo sappiamo leggerla.

Il volume della guardia forestale si apre con una frase che fa riflettere: “ Gli alberi sono esseri enigmatici”. Dopo aver letto il libro ne sono convinto. Per esempio, le radici sono i suoi organi più misteriosi; si pensi a quante metafore alimentano. Sono le gambe e insieme la bocca dell’albero, e anche il suo cuore.

Nessuno ha spiegato in modo esauriente come avviene il trasporto dell’acqua da loro al tronco. Come fa a salire una massa liquida di cinquecento, mille litri d’acqua durante il periodo vegetativo? Avviene per capillarità, dicono i ricercatori, ma c’è anche la traspirazione: quando l’albero rilascia vapore acqueo attraverso i pori delle foglie si crea una pressione negativa, e l’acqua procede verso l’alto.

Metà dell’albero, o forse più, sta sotto terra e l’altra invece sale verso il cielo, come ha spiegato qualche tempo fa Nalini Moreshwar Nadkarni, docente di Environmental Studies all’Evergreen State College di Washington, in ( Elliot), che definisce così la posizione di questo essere vivente posto in mezzo, tra il sotto e il sopra. Per questo, come dice Wohlleben, sono enigmatici. Intanto comunicano. Con chi? Con gli insetti. Quando ci approssimiamo a un albero in fiore pensiamo che la sua florescenza sia un grazioso dono a noi. Sbagliato. Siamo i soliti antropocentrici. Profumano per gli insetti. L’albero dice: “ Vieni qui, c’è nettare delizioso!”. Vuole essere impollinato, cosa che noi non possiamo fare. Poi comunicano tra loro.

Se lo attaccano i bostrici, insetti dalle poderose mandibole, nemici mortali, l’albero immagazzina nella corteccia sostanze repellenti; e non lo fa solo per sé, ma lo comunica ai colleghi vicini attraverso l’odore, qualcosa che somiglia ai messaggi chimici degli insetti stessi e alla loro modalità collaborativa. L’indicazione in codice viaggia per l’aria, ma se c’è un refolo di brezza l’albero lo manda a dire attraverso le radici. I faggi fanno così. Distruggono i nemici e intrecciano relazioni con gli amici. Come noi, forse più di noi.

Pur essendo un bel viaggio nel mondo arboricolo il libro di Wohlleben non è soddisfacente riguardo la trattazione delle foglie. Nate dalla luce, sono viste dall’autore prima di tutto come degli scambiatori: trasformano i minuscoli fotoni in tronchi possenti. Sarebbero, scrive, gli occhi degli alberi. Anche i polmoni con i loro diecimila stomi, i pori, per foglia. Per non far cadere a terra l’albero sotto il loro peso, le foglie, vere e proprie vele solari, sono leggere e sottili: delicate.

Una volta Narciso Silvestrini, studioso di colore e percezione, indicando un albero con un grande cappello verde, ha fatto notare come l’albero sia essenzialmente le sue foglie. Tutta la struttura che Wohlleben descrive con così grande passione — il tronco, i rami, le radici — svolgerebbe la funzione di tener su le foglie. Senza le foglie l’albero non potrebbe raccogliere la luce, né respirare né traspirare. Quello che vediamo d’inverno, il tronco e i rami privi del verde, secondo Silvestrini, non è davvero l’albero.

Ho il sospetto che la visione della guardia forestale — l’amore totale per il tronco — sia tedesca, mentre quella dello studioso italiano — la preferenza data alle foglie — invece mediterranea. Le foglie sono la parte che cambia ogni anno: sempre diversa, sempre uguale. Forse qui sta la differenza tra le due visioni. Una che guarda a ciò che è solido e permanente, l’altra che sottolinea invece la leggerezza e la caducità. Due modi diversi di vedere lo stesso albero, tutti gli alberi.

L'Anima

A cura di Francesco D’Alpa
Cos’è l’anima?
Secondo il cristianesimo, l’anima è ciò che forma e informa il corpo, principio di moto e sede di tutte le facoltà spirituali (volontà, intelligenza, memoria, sensibilità).
Quali sono i concetti fondamentali della catechesi tradizionale sull’anima?
Sono quattro: a) la creazione diretta da parte di Dio di ogni singola anima, mentre il corpo è formato dai genitori a partire da materia preesistente; b) la natura speciale dell’anima, diversa da quella del corpo, che essa fa vivere; c) l’immortalità individuale; d) la caduta iniziale e la trasmissione del peccato originario a tutti i discendenti di Adamo.
Cos’è l’anima, secondo l’Antico Testamento?
Secondo l’Antico Testamento l’anima è una “combinazione” di spirito e corpo, vita transitoria, vita nel corpo, vita localizzata nel sangue, comune all’uomo e alle bestie. Anima è anche la parte che sente, pensa, ama; la sede degli istinti naturali, delle emozioni e delle passioni.
Secondo Genesi, Dio diede un’anima razionale ad Adamo?
Alla lettera, no. La creazione di un’anima distinta dal corpo è cosa ben distinta dalla “semplice” animazione descritta in Genesi. Nei primi libri dell’Antico Testamento non si parla di anima; e mancano del tutto l’idea di immortalità e quella di sopravvivenza individuale alla morte.
Da dove deriva l’idea giudeo-cristiana di anima?
I concetti di base per lo più non hanno origine dalle Sacre Scritture né dalla predicazione di Cristo, ma derivano dalle più svariate fonti, prevalentemente dal mondo pagano, e in particolare dal pensiero greco, in cui l’anima era intesa ad esempio come «elemento del mondo» (presocratici, stoici ed epicurei), «principio dell’essere» (Aristotele), «principio del movimento» (Platone e neoplatonici).
Da cosa è formato l’uomo, secondo Genesi?
Alla formazione dell’uomo, secondo Genesi, concorrono tre elementi: (a) la terra, elemento materiale; (b) l’alito vitale, elemento spirituale comunicato alla materia; (c) l’anima vivente, che è il risultato dell’operazione svolta da Dio insufflando lo spirito nella materia. L’animazione impressa al corpo di Adamo non è un’anima-sostanza. Anima e spirito possono essere pensati indipendentemente.
Cosa pensavano dell’anima i padri della Chiesa?
I padri della Chiesa hanno immesso nell’iniziale cultura cristiana soprattutto i concetti fondamentali del platonismo. In particolare hanno plagiato le idee di Plotino, spacciandole per insegnamenti delle Scritture. Ma la loro idea di anima si basava anche su altre fonti, ad esempio su concetti della gnosi e dello stoicismo. Così ad esempio, per molti padri, l’anima è anch’essa materiale.
Quando si è affermata, nel Cristianesimo, la concezione dualista dell’essere umano?
Nei primi secoli dopo Cristo. Agostino d’Ippona, in particolare, riprese da Platone l’immagine del nocchiero (anima) che guida (o meglio usa) la nave (corpo). Questa concezione prevalse nel cristianesimo medievale. Ma dopo il recupero e la riscoperta del pensiero di Aristotele, fu preferita una concezione neo-unitaria dell’essere umano, secondo la quale il vivente animato è “unità”: le sue attività sarebbero differenziate fenomenologicamente, ma unificate dal punto di vista della loro origine; l’anima dunque non può essere separata dal corpo. Tommaso d’Aquino elaborò il suo pensiero su queste basi.
Qual è il concetto di anima secondo Tommaso d’Aquino?
Per Tommaso d’Aquino l’uomo è un “composto” di corpo e anima, ovvero materia e forma; è dunque al tempo stesso sostanza spirituale (cioè essere ragionevole dotato di intelletto) ed essere animale (dotato di un corpo informato dall’anima sensitiva e vegetativa). Le sostanze spirituali sono per lui «forme separate», che esistono indipendentemente da qualunque connessione con la materia, e costituiscono un unico individuo per ogni specie animale; nel caso specifico dell’uomo, invece, ogni singolo individuo è perfettamente distinto dagli altri (l’anima è «forma per se subsistens»), in quanto solo così si può convalidare la credenza nell’immortalità dell’anima individuale.
Cos’è l’anima cristiana, secondo la scolastica?
Secondo la filosofia scolastica l’anima è (a) una «sostanza semplice», di natura spirituale, derivante dall’anima dei genitori o creata direttamente da Dio; (b) una sostanza incompleta, differente dalle altre forme immateriali, in quanto deve essere unita alla materia perché la sua specie sia completa.
Com’e definita l’anima dagli autori cristiani moderni?
Piuttosto che dibattere sull’anima, i teologi moderni preferiscono parlare di “persona”. Comunque, tanto per fare un esempio, secondo Norman M. Ford (1988), l’anima «non è un oggetto concreto, ma un principio di vita non empirico, e di conseguenza non è direttamente riscontrabile con i metodi dell’osservazione scientifica […] è un principio di vita non-materiale o spirituale, necessario a spiegare gli aspetti non quantitativi degli atti autocoscienti razionali di conoscenza e libera scelta. Non è possibile ricorrere a metodi di investigazione puramente empirici per osservare direttamente la presenza dell’anima come tale o l’inizio della sua presenza».
Secondo l’antico Testamento, c’è differenza fra anima e spirito?
In genere, nell’Antico Testamento, si intende per spirito per lo più il principio della vita, universale, impersonale, immortale; ma in certi passaggi è definita come spirito la parte superiore dell’uomo, dove risiedono l’intelligenza, la ragione e la coscienza morale, che non sono principî immortali. Secondo l’Antico Testamento, materia e spirito sono due elementi non individuali, di cui solo il secondo persiste alla morte; l’anima vivente è invece un elemento individuale che esiste fin tanto che è presente l’unione fra spirito e corpo.
Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, c’è differenza fra anima e spirito?
Il Catechismo della Chiesa Cattolica riconosce esplicitamente che nell’Antico Testamento i termini “spirito” e “anima” sono usati non univocamente e spesso in modo scambievole, e che solo nel Nuovo Testamento essi sembrano effettivamente indicare due concetti diversi. Paolo di Tarso, che è chiaramente influenzato dalle idee del suo tempo più che dall’arcaica antropologia scritturale, fa riferimento infatti più volte a una tripartizione dell’essere umano: spirito, anima, corpo.
Quella dell’anima è una dottrina rivelata?
Assolutamente no. Si tratta di una dottrina “definita” ufficialmente dalla Chiesa solo nel 1312-1313, durante il Concilio di Vienne.
Cos’è l’anima per l’apologetica tradizionale?
Secondo una partizione tradizionale, l’anima (organo della personalità) è sede della mente, della volontà e delle emozioni; l’anima controllerebbe tutte le nostre azioni, e il corpo ne seguirebbe le indicazioni; ma nella condizione attuale di natura decaduta l’anima non è governata dallo spirito così come lo sarebbe stata prima del peccato di Adamo.
Cos’è lo spirito per l’apologetica tradizionale?
Mentre l’anima appartiene all’Io dell’uomo, rivela la sua personalità, e ci dà coscienza di noi stessi, lo spirito è ciò per mezzo del quale abbiamo coscienza di Dio, e comunichiamo con lui. Dio dimora nello spirito, come l’Io dimora nell’anima, e i sensi dimorano nel corpo. Corpo e spirito, pur essendo realtà diverse e inconfondibili, non si sovrappongono ma neanche vengono a contatto sporadicamente. La loro unità rende reale e indivisibile la persona. Lo spirito può sottomettere il corpo per mezzo dell’anima, in modo che possa ubbidire a Dio; e così pure il corpo, per mezzo dell’anima, può richiamare lo spirito all’amore per il mondo.
Come interagiscono l’anima e il corpo?
Si tratta di un interrogativo al quale la teologia dogmatica non sa rispondere, anche se singoli teologi hanno abbozzato una personale spiegazione. Per Agostino d’Ippona, l’anima agisce sul corpo ma il corpo non esercita alcuna azione sull’anima.
Da dove origina, per i cristiani, l’anima?
Per i cristiani, Dio partecipa alla nascita di ogni nuovo individuo, e ogni anima umana è il frutto di un suo distinto intervento. L’anima deve avere necessariamente un’origine diversa dal corpo, in quanto ha una natura diversa. Per dimostrare che l’anima umana è creata direttamente da Dio, Tommaso d’Aquino ricorre a due argomenti principali: (a) poiché l’anima umana ha natura spirituale, non può essere prodotta dalle forze presenti negli elementi germinali, che sono materiali; (b) poiché l’anima spirituale è semplice, non può generarsi dalla scissione di quella dei genitori.
Quando viene creata, secondo i cristiani, l’anima?
Le opinioni dei Padri divergono notevolmente: sin dal concepimento, agli inizi della vita embrionale oppure dopo un certo periodo. Secondo Tommaso d’Aquino, la cui opinione ha prevalso per secoli, inizialmente il feto è infuso da un principio vitale inferiore; l’anima intellettiva (spirituale) verrebbe invece creata e infusa solo quando il corpo è sufficientemente organizzato e preparato.
Gli animali hanno un’anima?
Secondo un’ampia e indiscussa tradizione teologica, gli animali mancano di anima razionale, e possiedono solo un’anima vegetativa e sensitiva, che cessa di esistere alla morte del corpo.
Come avviene l’unione dell’anima con il corpo?
Secondo Tommaso d’Aquino l’anima intellettiva, che dà forma e struttura alla materia e la rende vivente, non sta in alcun luogo particolare del corpo, che compenetra totalmente. L’anima si «esprime nel corpo» e lo contiene. L’anima è il principio vitale da cui scaturisce ogni azione corporea, da quelle dell’apparato locomotore a quelle della psiche. Il Concilio di Vienne (1312-1313) afferma: «riproviamo come erronea e contraria alla verità della fede cattolica, ogni dottrina o tesi che asserisce temerariamente o suggerisce sotto forma di dubbio che la sostanza dell’anima razionale o intellettiva non è veramente per sé la forma del corpo umano». Ma già Agostino d’Ippona aveva autorevolmente affermato: «in ciascun corpo l’anima è tutta in tutto il corpo, così com’è tutta in qualsivoglia parte di esso».
In che senso, secondo Genesi, l’uomo è un essere vivente?
Secondo un’arcaica spiegazione naturalistica, presente in Genesi, l’uomo diviene essere vivente (o animato) nel momento in cui penetra in lui il soffio della vita, che non ha nulla a che vedere con l’anima razionale. Questo soffio vitale sembrerebbe trasmesso ai suoi successori direttamente, attraverso la generazione.
Animazione e inizio dell’essere umano coincidono?
La Chiesa non ha mai avuto particolare interesse a chiedersi “quando” cominci a esistere l’essere umano individuale. Si è invece espressa più volte sul quesito teologicamente rilevante sul “quando” cominci l’animazione razionale. Ma i pronunciamenti del Magistero o dei singoli teologi sono quanto mai discordi fra di loro. Di fatto, inizio della vita individuale e animazione razionale non sono stati fatti coincidere quasi mai, come invece viene proposto attualmente. Anzi, si è a lungo pensato che agli inizi della vita fetale, e per qualche settimana, non si sia ancora in presenza di un vero “essere umano”.
Come avviene l’animazione, secondo Tommaso d’Aquino?
Secondo Tommaso d’Aquino, il sangue stesso è già un essere umano “potenziale” che diviene essere umano “in atto” sotto l’azione del pneuma presente nel seme. Essendo separabile dal corpo, l’anima razionale non può tuttavia venire all’essere allo stesso modo delle altre forme; dunque non può essere prodotta o trasmessa dal seme nell’atto della procreazione; così Dio interviene in questo processo con un proprio atto creativo che “trasforma” la creatura dotata di anima sensitiva in essere umano ragionevole. L’anima viene definita “forma del corpo” proprio in quanto plasma (forma) la materia dal suo interno.
Quando avviene l’animazione, secondo Tommaso d’Aquino?
A differenza del suo maestro Alberto Magno, per il quale il quale l’animazione avviene nel momento stesso del concepimento (e l’anima inizia a operare nel corpo sin da allora), secondo Tommaso d’Aquino l’animazione (ovvero l’infusione e la messa in azione dell’anima razionale) avviene tardivamente rispetto al concepimento: circa quaranta giorni dopo per i maschi e circa ottanta giorni dopo per le femmine. Tale punto di vista è stato accettato a lungo dalla chiesa, e utilizzato in particolare nelle discussioni circa la liceità dell’aborto.
Secondo le opinioni più recenti, quando avviene l’animazione?
In tempi a noi più vicini, a correzione delle idee di Tommaso d’Aquino, i teologi hanno espresso la convinzione che l’animazione da parte dell’anima razionale avvenga nel momento stesso del concepimento, anche se poi quest’anima inizierebbe manifestamente a operare solo in epoca successiva.
Esistono prove dell’esistenza dell’anima?
Secondo la catechesi ordinaria, l’idea dell’anima è già contenuta nel racconto “ispirato” di Genesi. L’apologetica ha peraltro sempre vantato l’esistenza di “prove razionali” in favore della sua esistenza. Le più importanti sarebbero di tipo psicologico: la consapevolezza dell’individualità; la consapevolezza dell’esistenza della propria anima; la cognizione della distinzione fra anima e corpo; la consapevolezza dell’opposizione fra anima e corpo; la persistenza dell’Io rispetto ai mutamenti del corpo; la presenza di attività spirituale; il senso di responsabilità; la ripugnanza verso l’idea di una morte definitiva.
Esistono prove oggettive dell’esistenza dell’anima?
Secondo l’apologetica, si. E sarebbero: la disparità fra corpo e anima; la presenza di funzioni e proprietà non spiegabili se si nega l’anima; l’irriducibilità dell’anima ai meccanismi della natura; l’attività finalistica dell’organismo.
Quali caratteristiche “psicologiche” sono state attribuite all’anima?
L’apologetica e la catechesi hanno attribuito all’anima diversi significati e caratteristiche: principio di vita; immagine di Dio; vera essenza dell’uomo; costante dell’essere; principio che umanizza il corpo; principio della razionalità umana e dello psichismo; principio dell’individualità; fonte della personalità; principio della soggettività; principio della coscienza e della consapevolezza; parte migliore dell’uomo; fonte dell’interiorità e della vita personale; principio del libero arbitrio e della volontà; essenza dell’essere e dell’Io; coscienza morale.
Quale sarebbe il destino dell’anima dopo la morte?
Secondo la dottrina cattolica tradizionale, dopo la morte l’anima continua a esistere separatamente dal corpo; infatti, essendo immateriale, non ha parti in cui dissolversi, e non dipende dal corpo per quanto riguarda le sue operazioni.
Come avverrebbe la separazione dell’anima dal corpo?
Su questo punto la teologia non sa fornire risposte; si limita a proporre come dogma la realtà di questa separazione alla morte.
Perché avverrebbe questa separazione?
Le spiegazioni proposte dall’apologetica sono contraddittorie. L’ipotesi più quotata è che alla morte l’anima debba necessariamente staccarsi dal corpo, perché solo così Dio può giudicare l’uomo, parlando con la sua anima e il suo spirito; ma in seguito anche il corpo deve avere parte nel premio o nella colpa.
L’anima può vivere separata dal corpo?
Per Tommaso d’Aquino l’anima è la forma sostanziale del corpo, da cui, a differenza delle altre forme, non è inseparabile; e può continuare a sopravvivere provvisoriamente nell’aldilà, se nutrita, come gli Angeli, dell’illuminazione divina. Dopo la «resurrezione finale dei corpi» essa riorganizzerà della materia come corpo di un determinato individuo, in virtù della sua funzione di forma sostanziale (o «sostanza terza») di una persona umana completa.
Cos’è la morte?
Per la teologia, la morte è la separazione dell’anima dal corpo; in pratica, la vera morte non è quella “apparente” corporea, ma il reale momento del distacco dell’anima dal corpo, dopo un cosiddetto “stato di morte intermedia”.
Come si muore?
Per la maggior parte dei teologi, l’anima ha essenzialmente la funzione di costituire il corpo e di regolarne l’attività; il corpo lega a sé l’anima e ne consente le azioni. Quando le attività del corpo cessano, l’anima si distacca e sopravviene la morte. Ma per alcuni, in certi particolarissimi casi, la morte sopravviene proprio a causa di un preciso sforzo fatto dall’anima per staccarsi dal corpo. In passato la Chiesa ammetteva anche la possibilità di un differimento della morte per l’azione operata dall’estrema unzione.
Cosa resta dell’individualità, dopo la morte?
Per il cattolico, nella morte l’Io si “sposta” ma non si annienta. Il fatto che dopo la morte degli altri non siamo più in grado di percepire il loro Io, non vuol dire che esso non esista più, giacché il corpo non è la causa dell’Io ma solo la sua condizione.
Cos’è la morte apparente?
Secondo molti autori cattolici del passato, nel periodo che trascorre fra la cessazione dell’attività cardiaca e respiratoria e la “morte reale” (ovvero il momento esatto in cui l’anima abbandona il corpo) si ha uno stadio di morte apparente, più o meno prolungato (anche di ore) in cui l’anima continua comunque a svolgere molte delle sue funzioni ordinarie.
Quali sarebbero le attività dell’anima durante il morire?
Essendo l’anima e il corpo due nature differenti, le attività dell’anima continuano a svolgersi senza palesarsi attraverso il corpo. Addirittura, esse possono intensificarsi mentre scemano le attività del corpo, come se l’anima venisse gradualmente liberata da un impedimento.
Anche Maria, madre di Gesù, sarebbe stata soggetta alla morte e al distacco dell’anima dal corpo?
Secondo molti teologi anche Maria morì, in quanto non avrebbe potuto godere di un privilegio superiore alla sorte toccata a Gesù. Ma per altri teologi Maria non poteva morire, in quanto la morte è conseguenza del peccato originale, da cui non era macchiata. La stessa definizione dogmatica dell’Assunzione precisa che Maria «al termine della sua vita terrena, fu assunta in anima e corpo alla gloria del cielo». Dunque la sua anima non si è mai staccata dal corpo, che non si è nemmeno corrotto.
Quale sarebbe l’attività dell’anima dopo la morte?
L’attività dell’anima dopo la morte, in particolare in quello stato sospeso rappresentato dal purgatorio, veniva descritta in passato quasi come un viaggio fantastico, durante il quale è possibile il contatto tra ciò che appartiene all’Io e il mondo ultraterreno. Per questo durante il Medioevo vi fu una fioritura di racconti di viaggi estatici nei mondi ultraterreni; l’esempio più noto è quello della Divina Commedia.
Quale sarebbe il destino dell’anima individuale?
In ossequio alla dottrina della grazia formulata da Paolo di Tarso, Agostino d’Ippona ritiene che il numero degli eletti sia predeterminato e che Dio scelga nella «massa dannata» degli uomini quelli destinati a rimpiazzare gli angeli ribelli. Tutti gli altri sarebbero predestinati alla dannazione eterna, cosicché le loro anime cesserebbero di esistere come individualità. Per Tommaso d’Aquino l’anima, una volta separata dal corpo, tende a ricongiungersi a esso. Infatti, è proprio dell’anima informare il corpo ed essa trova in ciò la propria perfezione.
Che accadrebbe all’anima subito dopo la morte?
Secondo la dottrina tradizionale, subito dopo la morte l’anima compare innanzi al tribunale di Dio per render conto di tutto ciò che ha fatto, detto e pensato e subisce il cosiddetto giudizio particolare.
Quando la Chiesa ha cominciato a parlare di purgatorio?
La tematica del purgatorio, strettamente connessa al problema della “vita” delle anime dopo la separazione dal corpo e nell’attesa del giudizio finale, si sviluppa sostanzialmente nel Medioevo. Ma una dottrina organica in tal senso viene formulata solo con il Concilio di Trento. I padri della Chiesa, invece, ignoravano quasi del tutto l’argomento.
Nella cultura giudaica si ipotizzava una resurrezione finale?
Per nulla. Nella cultura giudaica più antica, qualunque premio per la fedeltà all’unico Dio non poteva che essere terreno.
Quando si cominciò, in ambito giudaico-cristiano, a parlare di resurrezione finale?
L’idea che l’alleanza o la comunione con Dio non cessino con la morte compare chiaramente, per la prima volta, nel Libro dei Salmi. Ma solo nella Lettera agli Ebrei si parla chiaramente di resurrezione dei morti come «verità fondamentale». Alla fine dei tempi, promette il cristianesimo, tutti “risorgeremo”. L’anima immortale (ogni anima immortale), ovvero il principio individuale che trascende il corpo, si ricongiungerà con il “suo” corpo, o riavrà un corpo del tutto simile.
La resurrezione del corpo è un dogma?
Dopo il primo cristianesimo, la resurrezione del corpo è divenuta progressivamente un correlato del dogma dell’immortalità dell’anima. Il corpo deve risorgere e ricongiungersi all’anima per almeno tre importanti ragioni: (a) se l’essenza dell’uomo fosse lo spirito, non si comprenderebbe perché Dio l’avrebbe fatto compagno della carne; (b) essendo l’anima “forma del corpo” è del tutto innaturale che essa si trovi separata dal corpo, e dunque tende a ricongiungersi ad esso; (c) poiché l’anima e il corpo commettono insieme il bene e il male, entrambi debbono ricevere il premio o la punizione.
Il cristianesimo ammette la reincarnazione?
La reincarnazione è la dottrina secondo cui l’anima dell’uomo, impegnata in un processo di purificazione, passa attraverso vari corpi (anche animali) fino a liberarsi da ogni vincolo con la materia. Dottrine reincarnazioniste sono ampiamente diffuse in tutte le tradizioni religiose, e furono proposte da molti filosofi, ad esempio greci. Anche alcuni autori cristiani hanno professato dottrine reincarnazioniste. Origene, ad esempio, credeva nella preesistenza delle anime, premessa indispensabile per l’ipotesi reincarnazionista. La dottrina cattolica ritiene comunque le dottrine reincarnazioniste assolutamente inconciliabili con le “verità” riguardanti il giudizio immediatamente successivo alla morte, il purgatorio, l’inferno e il paradiso.
In che senso il Cristianesimo parla di immortalità?
Per la maggior parte della sua storia il Cristianesimo ha sostanzialmente condiviso l’idea platonica di una netta separazione dell’anima dal corpo; e per questo motivo il Simbolo degli apostoli parla di «resurrezione della carne», espressione che non compare nel Nuovo Testamento né nel Credo di Costantinopoli (e in quelli precedenti), dove si parla sempre di «resurrezione dei morti» (solo nel 1513, con il Concilio Laterano V, l’immortalità dell’anima è divenuta dogma). Ma nei Vangeli non si parla di immortalità per tutti gli uomini o per tutte le anime; la resurrezione degli empî serve solo ad applicare loro la pena definitiva della distruzione col fuoco, giacché il definitivo concetto di inferno, inteso come luogo di dannazione eterna, nasce solo con Tertulliano e Origene.
Come si dimostrerebbe che l’anima è immortale?

Per l’apologetica, l’uomo prova un desiderio naturale di integrità della propria persona, dovuto al fatto che l’anima è la forma del corpo e come tale tende a essergli unito. Questa certezza soggettiva, rafforzata definitivamente dalla fede, sarebbe la prima prova della necessaria immortalità, e appagherebbe un desiderio ben presente anche nei filosofi pagani. L’immortalità dell’anima sarebbe inoltre dimostrabile con la semplice ragione: l’anima è immortale in quanto immateriale e non scomponibile; se infatti l’intelletto opera prescindendo dalla materia (ovvero, se l’agire segue direttamente all’essere), l’anima non può che essere immateriale e dunque immortale, perché solo la realtà materiale è soggetta alla corruzione.

domenica 29 gennaio 2017

Giovanni Gentile

Che Giovanni Gentile ai tempi delle leggi razziali del 1938 si sia prodigato per aiutare non pochi colleghi ebrei è un dato incontrovertibile già ben documentato nel libro di Rossella Faraone Giovanni Gentile e la «questione ebraica» (Rubbettino). Il filosofo, che nel 1944 fu poi ucciso dai Gap per la sua adesione alla Repubblica sociale italiana, si era mosso alla fine degli anni Trenta a favore di Paul Oskar Kristeller, per salvare il quale si era rivolto addirittura a Benito Mussolini. Si era poi dato da fare anche per Rodolfo Mondolfo, Giorgio Levi Della Vida, Arnaldo Momigliano, Richard Walzer, Isacco Sciaky, Gino Arias, Alberto Pincherle, Gina Gabrielli, moglie di un ebreo. Ma un saggio di Giovanni Rota, Il filosofo Gentile e le leggi razziali (uscito sulla «Rivista di storia della filosofia» edita da Franco Angeli) — che pure ha messo in evidenza la diversità tra l'atteggiamento risoluto del filosofo a favore degli israeliti e quello più equivoco di un Delio Cantimori e di moltissimi altri —, ha eccepito che gli interventi gentiliani furono limitati all'«oasi pisana» e come tali rischiano di metterci nelle condizioni di «far scivolare nell'ombra la produzione pubblica del personaggio, ciò che disse apertamente (e anche ciò su cui fu reticente)», inducendoci a perdere di vista «il Gentile che di mestiere scriveva libri e articoli, l'educatore che pronunciava discorsi, teneva conferenze e lezioni all'Università». Va messo in chiaro, scrive ancora Rota, che «la mancanza di pronunciamenti pubblici dopo il 1938 era stata preceduta da un analogo mutismo (in materia di ebrei, ndr) prima di questa data». Lo stesso attivismo a favore di Kristeller, secondo Rota, non può essere configurato come una forma di «protesta nei confronti della legislazione razziale». Talché, se va detto che «la persona Giovanni Gentile non era razzista» e che «il filosofo Gentile non si cimentò certo in una teoria della razza», non per questo si può presentare il «personaggio pubblico Gentile» come una persona che trovò il modo di pronunciarsi in pubblico contro le leggi antisemite.
Adesso un nuovo libro di Paolo Simoncelli, «Non credo neanch'io alla razza». Gentile e i colleghi ebrei, di imminente pubblicazione per Le Lettere, prova a rispondere a Giovanni Rota. Tanto per cominciare mettendo in evidenza le parole di cui al titolo del libro («Non credo neanch'io alla razza»), scritte da Giovanni Gentile in una lettera a Girolamo Palazzina, che sono seguite da «e l'ho detto ben forte a chi di ragione», laddove s'intende che quel «chi di ragione» altri non è se non Benito Mussolini. D'altra parte, quando si parla di Gentile, secondo Simoncelli, è un fatto che non ci siano tracce di «compromesso» con il razzismo nelle sue attività come docente all'Università di Roma o alla Normale di Pisa. E neanche in quelle di direttore dell'Enciclopedia italiana o del «Giornale critico della filosofia italiana». Anzi.
Nella prolusione alla seduta inaugurale (dunque «pubblica») dell'Istituto per il Medio ed Estremo Oriente, tenutasi a Roma al teatro Brancaccio il 21 dicembre del 1933 (quando, cioè, Adolf Hitler era al potere da quasi un anno), Gentile disse: «Roma non ebbe mai un'idea che fosse esclusiva e negatrice… Essa accolse sempre, e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e popoli. Così poté attuare il suo programma di fare dell'urbe, l'orbe. La prima e la seconda volta, la Roma antica e la Roma cristiana: volgendosi con accogliente simpatia e pronta e conciliatrice intelligenza a ogni nazione, a ogni forma di vivere civile, niente ritenendo alieno da sé che fosse umano. Sono i popoli piccoli e di scarse riserve quelli che si chiudono gelosamente in sé stessi, in un nazionalismo schivo e sterile». Parole che, scrive Simoncelli, stanno a testimoniare «la condanna di un nazionalismo gretto, incapace di aprirsi ad apporti culturali diversi». Condanna «espressa in pubblico e poi consegnata alle stampe, nel pieno montare delle persecuzioni antiebraiche nella Germania nazista». Poi, il 21 giugno del 1940, pochi giorni dopo l'entrata in guerra dell'Italia a fianco della Germania, in un articolo per la rivista «Civiltà», Gentile proponeva, nel nome della tradizione dell'antica Roma, «un processo di unificazioni di stirpi e religioni» che certo, insiste Simoncelli, era in contrasto con le tesi sulla purezza della razza. E quell'articolo era pubblico. Temi su cui tornava con un nuovo articolo, sempre su «Civiltà», il 6 gennaio del 1942, a ridosso dell'aggressione giapponese di Pearl Harbour, per perorare la causa di un nuovo ordine internazionale che riconoscesse «il vantaggio della mutua intelligenza e della collaborazione fraterna delle razze diverse, nessuna delle quali è nata a servire». Pubblico anche questo. Pochi giorni dopo, il 15 gennaio, scrive ancora Simoncelli, «in una circostanza pubblica e di particolare solennità», una conferenza al teatro Brancaccio di Roma di monsignor Celso Costantini, segretario della Congregazione di Propaganda Fide, il filosofo si spingeva a prevedere una «nuova collaborazione a cui tutte le razze saranno chiamate alla fine del presente conflitto».
Il 28 maggio del 1943, in occasione dell'affollata commemorazione alla Normale di Michele Barbi (un personaggio che incontreremo più avanti), aveva reso omaggio al comune maestro Alessandro D'Ancona: «Noi che avemmo la fortuna di essere stati alla scuola del D'Ancona, lo ricordiamo maestro di scienza e di vita, quello che più di tutti ci fece sentire ed amare nella perennità della storia e del calore della fede vivente la Patria immortale; e abbandonarlo oggi all'oblio ci parrebbe empietà vile, poiché anche nella furia della lotta più aspra si può e si deve serbare la misura e osservare la giustizia». Parole che non mancarono di trovare ampia eco negli ambienti antifascisti, dal momento che D'Ancona era ebreo. A questo punto è doveroso porci una domanda: quale altra personalità del regime ebbe il coraggio di dire in pubblico cose del genere? Nessuno. Anche chi avrebbe avuto obiezioni da muovere, se ne restò in silenzio. E il silenzio non fu solo quello degli uomini di Mussolini…
Nel bel libro Passaggi (Einaudi), Vittorio Foa, parlando di suoi amici «illustri antifascisti», ha messo il dito sulla piaga: a parte Croce e pochissimi altri, «nessuno aveva detto una sola parola contro la cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle università, dal lavoro, contro quella che è stata un'immonda violenza… I nomi che mi vengono subito in mente sono quelli della mia parte politica, taciturni come tutti gli altri».
Per approfondire di cosa stava parlando Vittorio Foa, è interessante osservare quel che accadde verso la fine degli anni Trenta alla Sansoni, la casa editrice di Giovanni Gentile, guidata da suo figlio Federico. Se ne occupò già Gianfranco Pedullà in un libro, Il mercato delle idee. Giovanni Gentile e la casa editrice Sansoni (Il Mulino), che però non dava conto di alcuni scambi epistolari portati adesso alla luce da Simoncelli. Va detto subito che per la Sansoni lavoravano a vario titolo molti israeliti: Walzer, Mondolfo, Eugenio Colorni, Sciaky, Roberto Almagià, Pincherle, Paolo D'Ancona, Giorgio Falco. E soprattutto un giovane critico messosi in luce con una scintillante monografia su Vittorio Alfieri: Mario Fubini, all'epoca trentottenne, ma già in cattedra a Palermo. Nel 1938 troviamo Fubini al lavoro per curare un volume sui «settecentisti» nella collana dei Classici italiani diretta da Luigi Russo e un altro su Foscolo. A metà luglio il «Giornale d'Italia» pubblica il Manifesto della razza e il mondo gentiliano entra in fibrillazione. Da San Vigilio di Marebbe (dove è in vacanza) Luigi Russo scrive a Federico Gentile a informarlo che il suo «scolaro» Ettore Levi, onde evitare grane al maestro, si è detto disposto a rinunziare al volume su Francesco Petrarca e a «cedere» i risultati delle sue fatiche a un altro normalista, Antonio D'Andrea. Ma, aggiunge Russo, sarà meno facile trattare con Fubini, «il quale si abbatterà moltissimo… e rinunzierà malvolentieri alla nominalità del suo lavoro». Un tono «secco», osserva Simoncelli, «sorprendente perché privo di reazioni sdegnate» contro la legislazione sulla razza, «diretto a risolvere subito l'aspetto pratico del problema» nel sostituire gli studiosi ebrei con altri non ebrei, come se tutto fosse «ineluttabilmente normale». In effetti Fubini si mostra subito assai meno remissivo di Levi. Fubini è in vacanza a Cogne e di lì scrive a Federico Gentile: «Sono molto turbato e rattristato, per le notizie di questi giorni; Ella può pensare quel che significhino per me! Mi sarà dato ancora lavorare come vorrei?». Non tutti, in ogni caso, sono, come Luigi Russo, poco sensibili ai temi etici sollevati dalle leggi razziali. In merito alla «marea antisemita», il vicedirettore della Normale, Gaetano Chiavacci, scrive negli stessi giorni a Federico Gentile una lettera che gli fa onore: «Dovremo assistervi passivi? O è lecito in qualche modo mostrare le grossolane inesattezze di quelle sedicenti conclusioni scientifiche?».
Passa qualche giorno e Federico Gentile comunica a Russo di aver scritto a Fubini «con molta delicatezza e amicizia, esortandolo a continuare il lavoro che io in ogni modo pubblicherò». Anche se poi afferma di rendersi conto delle difficoltà. Difficoltà che sono ben presenti a Isacco Sciaky, in vacanza ad Alleghe, che scrive a Giovanni Gentile, da poco trasferitosi in Versilia, preannunciandogli una visita a Forte dei Marmi: «Porterò la pioggia? Responsabilità più, responsabilità meno…». Poco dopo Sciaky si trasferirà a Tel Aviv e all'estero ripareranno nel giro di qualche anno quasi tutti gli studiosi israeliti. Fubini invece resterà in Italia fino al 1943.
Torniamo, adesso, al 1938. A metà agosto, dopo una circolare ai provveditorati che vieta l'adozione di testi firmati da autori ebrei, Russo, in una lettera a Federico Gentile, torna sul caso Fubini: «Non trovo delicato che io o lei si scriva a Fubini; è Fubini che deve dirci da sé, come ha fatto Levi, che rinunzia al suo lavoro, o almeno alla nominalità del suo lavoro». In una seconda missiva Russo proponeva di sostituire Fubini con Emilio Bigi, «un altro normalista», ma, aggiungeva, bisogna preoccuparsi di trattare molto delicatamente il Fubini, «il quale è assai suscettibile e ombroso… La dissimulazione del nome l'offenderebbe e d'altra parte la sospensione della pubblicazione ne deprimerebbe l'amor proprio». Certo, si poteva tenere il suo nome in copertina rinunciando alla diffusione del libro nei licei e Russo si dice disposto in tal caso a «sacrificare, senza essere un eroe, quel po' di guadagno che mi può venire da tutta l'antologia». Gentile gli risponde che scriverà a Fubini «nel senso da lei indicatomi», cioè per indurlo a farsi da parte, ma lo farà «molto a malincuore e quasi con vergogna».
Luigi Russo, però, insiste. Ha saputo che l'editore Principato è costretto a ritirare dalle scuole un libro dell'ebreo Attilio Momigliano (La Letteratura italiana) e vorrebbe potergli subentrare con la sua antologia, anche se si sente in dovere di aggiungere: «È doloroso che bisogna approfittare delle disgrazie altrui per i nostri interessi». Ma l'occasione è ghiotta. Il ministero sta predisponendo un albo dei libri «contaminati» da autori ebrei, libri che per questa ragione non possono essere ammessi al mercato scolastico. Secondo Russo è «il momento giusto per uscire» e «sarebbe veramente un bel guaio se la nostra Antologia per colpa, diciamo così, del povero Fubini, dovesse venire inclusa in quell'elenco». Ma Fubini non risponde. Russo, preoccupato per quel silenzio, torna a scrivere al giovane Gentile: «Io ho apprezzato sempre molto l'ingegno del Fubini, ma non l'animo troppo rimesso. Anche quando le cose gli andavan bene, egli aveva l'abitudine di lamentarsi». Successivamente propone di compensarlo ugualmente e di sostituirlo con Francesco Flora: «Fubini dovrebbe essere contento perché gli si salva il reddito». Passano pochi giorni e il tutto sembra avviarsi a soluzione. Federico Gentile informa Russo di aver ricevuto un'«affettuosa lettera» di Fubini che gli chiede di trovare «la soluzione migliore». «Gli rispondo immediatamente», scrive Gentile, «che cercheremo un nome da sostituire al suo, lasciando a lui tutti i diritti d'autore».
Russo ha fretta. Proprio in quei giorni si lamenta con Benedetto Croce del fatto che, pur essendo il volume in questione «pronto in tipografia da un pezzo» e «nonostante le assicurazioni ufficiali che la raccolta va bene anche coi nuovi programmi», l'editore non si decida «a metterlo fuori». Parole scritte, osserva Simoncelli, «senza alcun cenno alla sostituzione, per la vigente ignominia razziale, del nome del Fubini». Giovanni Gentile, invece, si rende conto del problema e dice che vorrebbe far uscire il libro senza il nome di un curatore che non fosse quello vero: Fubini, appunto. Ma questi si rassegna: «Il mio amico professor Luigi Vigliani, insegnante di italiano e latino al Liceo D'Azeglio», scrive a Federico Gentile, «mi dice di essere disposto ad assumere l'incarico di cui abbiamo parlato. Io preferirei la soluzione accennata da suo padre: ma se non fosse possibile, la cosa si potrebbe accomodare in questo modo». E in quel modo si accomoda. Russo ne sarà compiaciuto, non tornerà mai su quella vicenda e nel dopoguerra — come bene raccontato da Pierluigi Battista in Cancellare le tracce (Rizzoli) e da Paola Frandini in Il teatro della memoria (Manni) — sarà un gran fustigatore di suoi colleghi accusati di qualche compromissione con il fascismo (Natalino Sapegno, Giacomo Debenedetti) e si presenterà, da indipendente, nelle liste del Partito comunista italiano (candidato «di testimonianza», in Sicilia, là dove sapeva che non sarebbe stato eletto) alle elezioni del 18 aprile del 1948. 
Ma torniamo ai fatti di dieci anni prima. Il problema che riguarda Fubini si ripropone per l'altro volume, quello su Foscolo. La questione stavolta è sollevata dal presidente del Comitato scientifico per l'Edizione nazionale delle Opere foscoliane, Vittorio Cian. Il quale chiede lumi in merito al «caso Fubini» al direttore dell'edizione, Michele Barbi. Barbi si rivolge allora a Giovanni Gentile, che adesso, alla luce anche del fatto che non esiste alcun divieto per gli ebrei di firmare opere non destinate alla scuola, va a perorare la causa di Fubini con il ministro Giuseppe Bottai. Ma non la spunta. Vien fuori allora la proposta (accolta dal filosofo) di far firmare il libro, sulla base di «un'intesa onorevole», a Plinio Carli, segretario del Comitato foscoliano. Il quale Carli, in una nota «riparatrice», avrebbe trovato il modo di «rendere a ciascuno il suo», cioè di attribuire a Fubini i dovuti meriti per la curatela. Fubini reagisce a quella che considera un'«intimazione» e se ne dispiace con Barbi: «Ho ricevuto la sua lettera. Non mi pare che vi sia, per usare le sue parole, la possibilità di un'intesa onorevole tra il Carli e me: un'intesa come quella di cui ella mi parla, non sarebbe onorevole né per me né per il Carli, e nemmeno, mi permetta di dirlo, per la Commissione che l'ha suggerita e che la dovrebbe sanzionare con la sua autorità… Non vedo poi come il Carli potrebbe in una nota riparatrice "rendere a ciascuno il suo", dal momento che di "suo" non vi è se non il nome, e mio è tutto il resto».
Successivamente Fubini si spiega con Giovanni Gentile: «Se io accettassi la soluzione propostami, quali fossero i vantaggi personali che ne potrei avere», gli scrive, «io verrei ad aderire ad un atto di ingiustizia, dando il mio consenso alla soppressione del mio nome a un lavoro che mi appartiene». E ancora: «Forse ella mi dirà che io ho pur consentito a lasciar pubblicare sotto un altro nome l'antologia dei Classici italiani da me curata: ma, a parte il fatto che si trattava di un'opera destinata alle scuole e perciò direttamente colpita da una proibizione legale, io sono stato indotto ad accettare la soluzione propostami, unicamente per far un piacere a suo figlio e al Russo, che sarebbero stati danneggiati da un mio rifiuto… Non ho mai amato i sotterfugi e forse avrei fatto meglio a rifiutare, ma non voglio che il caso costituisca un precedente». Inoltre, prosegue, quello foscoliano «è lavoro di tutt'altra importanza, e, a rigore, nessuna legge ne proibisce la pubblicazione… perciò col mio consenso io stesso contribuirei, in certo qual modo, alla effettiva esclusione di noi ebrei dalla cultura della nazione, a cui sentiamo, ora più che mai, di appartenere». Se poi, concludeva Fubini, «la Commissione ritiene di dovere, in seguito al mio rifiuto, ritirarmi l'incarico affidatomi, lo può naturalmente, quali siano i suoi moventi; da parte mia non posso, anche se non mi è dato farle valere, che opporre validissime ragioni giuridiche e morali a una simile decisione». Infine una sfida: «Mi permette di aggiungere che sarebbe per me cagione di vivo dolore il sapere che tra coloro che mi hanno posto quell'alternativa e al mio rifiuto sono disposti a rinunciare all'opera mia, vi è lei a cui, come non pochi della mia generazione, sono debitore di tanta parte della mia cultura? Non posso però credere che ella voglia contribuire, andando al di là dei divieti legali, o, almeno percorrendoli, alla nostra esclusione dalla cultura nazionale ed accrescere in tal modo l'isolamento cui siamo costretti».
Il filosofo rimane toccato da questa lettera e risponde quasi scusandosi: «Né io, né certamente il Barbi, abbiamo pensato un momento a fare la minima pressione sopra la sua volontà e tantomeno a un'intimazione». Dopodiché torna alla carica con Bottai, sottoponendogli nuovamente il «quesito Fubini». Ma non ottiene il via libera. Si muove anche Vittorio Cian — il quale era stato relatore in Senato al momento della conversione in legge dei decreti sulla razza — che parla di «colpa grave» (curioso lapsus, nota Simoncelli: non danno, colpa) inflitta «alla nostra edizione foscoliana» dai «giusti provvedimenti antiebraici» e relaziona a Gentile dicendogli di aver chiesto a Bottai una «semi discriminazione» (cioè una liberatoria) a favore di Fubini. Ma senza risultato. Si trova così un ennesimo compromesso e Barbi scrive a Fubini: «Posso finalmente darti l'assicurazione che desideri dal Comitato, il volume sarà pubblicato anonimo, senza che altro nome figuri né sul frontespizio, né sulla prefazione, neppure quello del Comitato onde nessun equivoco è possibile». Fubini non si rassegna del tutto: «Le condizioni di cui tu mi parli rappresentano per me delle condizioni minime e, se si presentasse la possibilità di condizioni differenti, vale a dire fra l'altro se esistesse anche un solo precedente in questo senso, io avrei diritto di esigere un più aperto riconoscimento dell'opera mia». Nel settembre del 1941 Barbi muore e tutto torna in alto mare. Cian va nuovamente alla carica con Fubini, che non ha più dato notizia di sé. Ma, prima di muoversi, manifesta a Gentile la sua perplessità: «Forse a Fubini sarebbe ostico d'avere a trattare con me di questa faccenda delicata anche perché mi conosce tutt'altro che tenero verso la sua razza». Gentile spedisce Cian da Bottai, che lo riceve con «un'accoglienza cordiale», ma «di pochi minuti, in piedi». Cian continua a lamentarsi del fatto che Fubini non si faccia vivo con lui e sostiene che ciò sia a causa delle sue «idee razziali» talché, suggerisce a Gentile, forse «si arrenderebbe più volentieri — o meno malvolentieri — dinanzi a una tua lettera». Se, osserva Simoncelli, Cian «continuava a ostentare le proprie "idee razziali" che, note al Fubini, lo avrebbero comprensibilmente trattenuto dal volere rapporti con lui, e se quindi toccava a Gentile ristabilire i contatti, era evidente che questi avesse idee diverse e che tale diversità fosse ben nota agli altri protagonisti del caso».
Un contatto tra Fubini e Giovanni Gentile si ristabilisce nell'aprile del 1942, quando il giovane critico scrive all'anziano filosofo una lettera di condoglianze per la morte (il 30 marzo) del figlio Giovannino. Gentile risponde con affetto, riprendendo il discorso da dove si era interrotto: il volume sarebbe stato pubblicato anonimo e ovviamente i diritti sarebbero stati riconosciuti per intero a Fubini nella misura da lui stesso indicata. Ne informa Cian, che così si complimenta: «Hai risposto, come sempre, come non si poteva meglio, ed hai fatto bene, data la razza, a toccare il tasto dei compensi che, del resto, gli spettavano». Ma Fubini non raccoglie quel cenno ai soldi, anzi scrive a Gentile: «Nemmeno ho da fare alcuna proposta sul compenso per il lavoro fatto o per i danni patiti, di cui ella mi parla nell'ultima sua; non chiedo nulla perché mi ripugna fare questione di lucro quella che è per me — a parte il lavoro fatto e reso inutile — una questione morale».

Le cose, poi, si complicarono ancora. Tra l'autunno del '43 e l'inverno del '45 è l'ora dell'occupazione nazista e della lotta partigiana. Gentile viene ammazzato da un commando dei Gap. A guerra terminata, nell'agosto del 1945, Cian torna a farsi vivo con Fubini, ma con toni diversi, più melliflui: «Come vedi dall'intestazione di questo foglio ti scrivo in veste, anzitutto, di rappresentante superstite e caduco del Comitato foscoliano, ma anche del vecchio maestro ed amico che gode di darti il tuo ben tornato e di farti i suoi auguri più cordiali… Dopo tanti guai e in mezzo a tante tristezze mi è motivo di conforto il poterti rinnovare oggi, senza più timore di veti di natura extra-letteraria, l'invito a riprendere l'opera tua di collaboratore di prestigio all'edizione del Foscolo…». Poi, come incidentalmente, Cian cerca di nascondersi dietro il filosofo ucciso l'anno precedente: «Non ho bisogno di ricordarti gli sforzi fatti da me allora, con l'aiuto del povero Gentile, per indurre il ministro d'allora a rinunziare al suo veto irragionevole». Fubini evita di fare polemiche e l'anno seguente viene chiamato a subentrare a Cian alla presidenza del Comitato dell'Edizione nazionale delle Opere di Foscolo. Nel 1951 gli è finalmente possibile dare alle stampe il libro che aveva tanto atteso, con il suo nome sul frontespizio. «Quali ragioni abbiano ritardato sino ad oggi la pubblicazione di questo volume, da tempo annunciata, non importa qui ricordare; non ai pochi che bene le conoscono, non agli altri, ai quali potrebbe sembrare che rammentandole io indulgessi a recriminazioni, per tanti rispetti inopportune, o mirassi a cattivarmi la benevolenza del lettore, facendogli presente le difficoltà incontrate in un lavoro già di per sé non facile, che ho dovuto interrompere e riprendere non una sola volta durante un così lungo spazio di tempo», scrive nella prefazione. Ringrazia poi Luigi Vigliani, che gli aveva «prestato» il nome, l'amico Franco Antonicelli, che nel '42 gli aveva offerto di pubblicare il saggio per l'editrice De Silva, e il preside della facoltà torinese di Giurisprudenza Giuseppe Grosso, «al quale consegnai il manoscritto nell'ottobre del '43 quando fui costretto ad allontanarmi dal Paese dove mi trovavo e che me lo custodì fedelmente in quei tempi fortunosi». E qui aggiunge — assieme ad una dedica a Michele Barbi — un'esplicita, inaspettata, menzione di Giovanni Gentile che «si dedicò all'Edizione nazionale del Foscolo con quell'impegno e quello zelo che portava in ogni impresa culturale». Per l'epoca fu un fatto clamoroso. Ma nessuno lo notò o fece sapere che lo aveva notato.
Paolo Mieli

sabato 28 gennaio 2017

I due destini dell'Universo


A partire dal saggio dell’astrofisico Paolo de Bernardis Solo un miliardo di anni? (il Mulino) «la Lettura» ha messo a confronto l’autore con due filosofi, Mauro Bonazzi e Vittorio Possenti, sul destino dell’uomo e dell’universo. Un dato che colpisce, leggendo il libro, è la dimensione infima della Terra rispetto al cosmo: solo nella Via Lattea ci sono 200 miliardi di stelle e le altre galassie pare siano duemila miliardi. L’uomo non appare irrilevante in tanta immensità?
VITTORIO POSSENTI — Per chi l’uomo sarebbe irrilevante? Non certo per se stesso. Anche se è un puntino sperduto nell’universo, ha tuttavia importanza dal suo punto di vista soggettivo. Poi c’è la questione sollevata da Blaise Pascal: l’uomo è una canna scossa dal vento, ma ha la capacità di pensare. Quindi è incommensurabile rispetto all’universo, che non ha pensiero. Non conta tanto la sproporzione dimensionale, quanto la differenza di livello ontologico.
MAURO BONAZZI — Sì, c’è una specificità dell’uomo che rimane tale, almeno finché non troveremo altre forme di vita intelligente nel cosmo. Nel suo saggio de Bernardis fornisce cifre impressionanti sull’immensità dell’universo, ma per concepire questa enorme grandezza ci vuole la coscienza umana, che non si può misurare. E allora l’uomo quanto più si scopre piccolo rispetto al cosmo, tanto più diventa grande per la sua ambizione a capirlo.
VITTORIO POSSENTI — Ma se pure trovassimo altre forme di vita intelligente, ciò non cambierebbe lo statuto ontologico dell’uomo. Anche il filosofo neoplatonico Proclo individuava tra l’Uno e l’umano una gradazione di esseri spirituali intermedi. E nella tradizione biblica ci sono gli angeli. La scoperta di alieni intelligenti non cambierebbe la struttura dell’essere, la renderebbe solo più complessa.
PAOLO DE BERNARDIS — L’uomo non è certo speciale per le sue dimensioni, ma questo conta poco. Noi astrofisici studiamo particelle ben più piccole dell’uomo, le cui interazioni hanno conseguenze decisive a livello cosmologico. Va aggiunto tuttavia che l’uomo ha un impatto quasi nullo sull’universo: può influire sulla Terra e forse (ma è molto improbabile) sul Sole, sul cosmo intero sicuramente no. Da questo punto di vista appare davvero irrilevante. Quanto al pensiero, è una facoltà meravigliosa, che ci distingue in modo netto. Forse, aumentando in futuro la potenza di calcolo dei computer, si otterrà qualcosa di simile al pensiero. In tal caso la specificità dell’uomo verrebbe meno. Oggi crediamo di essere gli unici in grado di spiegare come funziona l’universo, ma non possiamo escludere che qualcun altro, su un pianeta lontano, possa esserci riuscito.
MAURO BONAZZI — Diceva Aristotele che la forma di conoscenza più alta riguarda quelle realtà necessarie su cui non possiamo influire, perché è dotata di una perfezione che manca ai saperi relativi all’uomo, ben più incerti e precari. E anche la tradizione cristiana sostiene che esistiamo per ammirare l’opera di Dio. L’immagine su cui si chiude il libro di de Bernardis, con un universo che si spegne dopo essersi espanso su scala smisurata, è così potente e sconvolgente, ma anche affascinante, da indurci a concludere che, anche solo per concepire una simile idea, è valsa la pena che siano esistiti gli esseri umani.
PAOLO DE BERNARDIS — Credo che siamo prigionieri di un problema antropico. Noi ci poniamo queste domande perché si sono verificate premesse che ci hanno permesso di esistere. Ma che tali condizioni siano state definite apposta per noi non è dimostrato. Potrebbero del resto esistere infiniti altri universi paralleli, privi dei requisiti necessari alla comparsa della vita e con evoluzioni diversissime. In effetti non possiamo nemmeno rispondere all’interrogativo se l’uomo sia unico o no in questo universo, perché non lo abbiamo esplorato abbastanza per concludere che anche solo nella nostra galassia non esistano altre forme di vita intelligente. Tuttavia da alcuni anni abbiamo individuato alcuni «pianeti candidati», adatti a ospitare la vita. Sappiamo che esistono, ma dimostrare che siano abitati da esseri intelligenti è difficile. Possiamo solo stimare probabilità che non sono esigue. VITTORIO POSSENTI — Anch’io sono stato colpito dalle conclusioni del libro. Vi ritrovo un forte senso umanistico, con l’esortazione a impegnarci per evitare che la Terra diventi inabitabile. C’è però un’altra parte
Paolo de Bernardis è un astrofisico che ha appena pubblicato un saggio sul futuro delle galassie. Su questo tema — e sul senso dell’uomo e la sua collocazione all’interno della storia e della geografia del cielo — «la Lettura» ha organizzato un confronto con i filosofi Mauro Bonazzi e Vittorio Possenti
che inclina verso la malinconia cosmica, prospettando un universo che lentamente decade per miliardi di anni fino allo zero termico. Viene da chiedersi: a che pro tutto questo? La scienza propone scenari grandiosi, spinta dall’impulso naturale a conoscere di cui Aristotele parlava all’inizio della Metafisica. Ma la scienza non basta a se stessa, deve allearsi con la filosofia: noi siamo esseri dinamici, dotati di volontà, libertà e intelligenza, e non ci rassicura pensare che tutto finirà in uno stato di quiete o di morte.
PAOLO DE BERNARDIS — «A che pro?» è una domanda a cui la scienza non può rispondere. La filosofia forse sì. Quanto al destino del cosmo, resta un punto interrogativo. Le nostre conoscenze sono troppo limitate per stabilire con certezza che tutto finirà nella morte termica. È uno scenario possibile, ma finché non esploreremo meglio le componenti più elusive dell’universo, la materia oscura e l’energia oscura, non potremo essere sicuri che andrà così. Quella prospettiva vale sotto certe ipotesi ancora da verificare, prima fra tutte che l’energia oscura mantenga le sue attuali proprietà.
MAURO BONAZZI — Quando Aristotele dice che gli uomini vogliono conoscere, non parla solo di accumulare informazioni. Quello è il mezzo; l’obiettivo è comprendere il significato della nostra esistenza. La filosofia e la religione sono nate con l’assunto che ci fosse un senso da trovare per via razionale o con la fede. La scienza però descrive un mondo privo di un disegno, che sembra frutto del caso, quindi pone interrogativi radicali ai filosofi. Ne conseguono due atteggiamenti diversi. Uno è la «morte di Dio» di Friedrich Nietzsche, che carica lo scenario di angoscia: l’uomo si era sempre creduto al centro del creato e scopre con sgomento di essere marginale. L’altro atteggiamento risale a Epicuro, che invece di spaventarsi considerava meraviglioso il fatto (potremmo quasi chiamarlo «miracolo») che fossimo sorti dal caso ed esortava a gioirne. Questa potrebbe essere una soluzione saggia: di certo il compito della filosofia è tenere aperte le domande di senso alle quali la scienza non risponde. PAOLO DE BERNARDIS — Nel libro ho inserito alcuni dei «miracoli» (ma preferisco chiamarli eventi a bassissima probabilità) che fanno funzionare l’universo. Penso alle reazioni nucleari che avvengono nelle stelle, quando nuclei d’idrogeno si fondono producendo elio, nonostante la repulsione tra i due protoni. Ancora più improbabile è però che dall’elio si formi carbonio. La vi-
ta si basa sul carbonio, che è prodotto nelle stelle. Ed è davvero fantastico, quasi incredibile, che due nuclei di elio possano fondersi facilmente formando berillio e che una risonanza del nucleo di carbonio consenta di formarlo, fondendo berillio ed elio. Più in generale basterebbe che i valori di alcune costanti cosmiche fossero diversi, anche di poco, per mutare la struttura dell’universo e impedire la vita. È stupefacente apprezzare quanto improbabile sia la nostra esistenza. VITTORIO POSSENTI —
Lo scienziato Guido Tonelli, sulla «Lettura» del 18 settembre, esortava noi filosofi a non occuparci solo di linguaggio ed epistemologia, ma anche di cosmologia. Io sono d’accordo e vorrei raccogliere l’invito. Da sempre la filosofia ha studiato tre fattori: Dio, il cosmo, l’uomo. Ma in epoca moderna i primi due temi sono stati accantonati per privilegiare la riflessione dell’uomo su se stesso. Riscoprire la cosmologia significa aprire gli orizzonti, affrontando anche la questione del caso. La definizione migliore del caso, secondo me, risale a un filosofo vissuto tra il V e il VI secolo d.C., Severino Boezio: l’incontro non preordinato di serie causali che s’in- crociano. Per esempio, se esco a passeggio, posso incontrare una persona che va a imbucare una lettera. Si tratta di un evento casuale, sebbene ciascuno di noi sia sceso in strada per una ragione, una causa. Semplificando al massimo, ne consegue che l’idea di un caso originario, fucina primordiale del mondo, è contraddittoria: prima della casualità c’è sempre una causalità. Quindi la presenza del caso non comporta l’assenza di un progetto. La scienza moderna, come ipotesi, esclude le cause finali. Ma sotto il profilo filosofico una finalità immanente a tutta la realtà esiste, è il passaggio dalla potenza all’atto di cui parlava Aristotele.
PAOLO DE BERNARDIS — I fisici però definiscono il caso in modo differente da Boezio. Nella meccanica quantistica, fondata sul principio di indeterminazione di Werner Karl Heisenberg, non si parla di causalità. Quando lanciamo un dado, non possiamo tenere sotto controllo l’esito. Ma secondo Boezio, e anche secondo Albert Einstein, se fossimo in grado di conoscere in modo accurato tutti i fattori in gioco, potremmo stabilire il risultato del lancio. Invece nella meccanica quantistica la probabilità che si può calcolare è basata su fenomeni microscopici assolutamente casuali, di cui non è possibile prevedere lo svolgersi. Si può soltanto stabilire un risultato medio in senso probabilistico. E tuttavia una varietà enorme di fenomeni può essere spiegata proprio partendo dal principio di indeterminazione.
MAURO BONAZZI — Però, se capisco bene, a livello microscopico vige questa nozione di caso, mentre in campo cosmologico valgono ancora leggi causali.
PAOLO DE BERNARDIS — Ma ci sono contatti tra le particelle e il cosmo. Per esempio nel punto d’inizio dell’universo la densità è così elevata che le leggi vigenti sono quelle dell’infinitamente piccolo. Non abbiamo ancora una teoria valida circa i primi attimi del cosmo, perché mancano osservazioni sufficienti e leggi verificate per energie così alte. Sappiamo però che, per descrivere quella fase iniziale, la relatività generale (teoria classica che rifugge il caso) e la meccanica quantistica andrebbero unificate. Un tentativo di farlo è la teoria delle stringhe, ancora in fieri. MAURO BONAZZI — Un’altra obiezione alla tesi che ci sia una causa originaria dietro gli eventi casuali, esposta da Possenti, è che forse un inizio manca. Così la pensava Epicuro, per cui l’universo esiste da sempre e da
Le immagini Sopra e nella pagina seguente: teamLab, Light in
space (2016, installazione interattiva digitale). L’opera realizzata nel 2001 dal gruppo fondato dal giapponese Toshiyuki Inoko, è esposta al Mori Art Museum di Tokyo (www.mori.art. museum) fino al 9 gennaio nell’ambito di The Universe in
art: oltre duecento i lavori in mostra, dai meteoriti, ai fossili, ai Codici di Leonardo, alle fotografie di astronauti, alle opere di artisti contemporanei come Jules de Balincourt e Tom Sachs. teamLab si definisce «un gruppo di ultratecnologi che amano esplorare i punti di contatto tra arte, tecnologia e natura partendo dall’antica tradizione giapponese. La natura umana Possenti: la nostra specie, che pare un puntino sperduto, non è però irrilevante, ha la capacità di pensare De Bernardis: è vero ma non siamo in grado di influire sull’universo
sempre è governato da processi casuali.
VITTORIO POSSENTI — Vorrei approfondire il tema del principio di indeterminazione, per cui non possiamo fissare contemporaneamente in modo preciso la posizione e la velocità di una particella. Non mi pare un’obiezione decisiva nei confronti della causalità. Se una particella è in moto, ci dev’essere una forza che agisce. Che poi di tale moto si possa stimare soltanto una probabilità non penso precluda l’operare di una causalità.
PAOLO DE BERNARDIS — Nel ragionamento di Heisenberg sì. Quando fissiamo la posizione di una particella nella meccanica quantistica, la sua velocità è del tutto ignota. E concetti tipo la causa e l’effetto, come la forza che agisce su una massa e l’accelerazione che ne consegue, non sono applicabili a livello microscopico: li sostituiscono leggi non più deterministiche, che possono solo calcolare una probabilità, ma non prevedere univocamente un fenomeno a partire da condizioni iniziali. Anche perché proprio tali condizioni restano almeno in parte sconosciute. Si può ritenere che ciò sia un limite della fisica quantistica, considerarla monca. Alcuni scienziati la pensano così, altri reputano che la teoria sia pienamente valida e che non sia proprio possibile enunciare leggi deterministiche.
VITTORIO POSSENTI — Accetto che non si riesca a dominare la complessità straordinaria del moto delle particelle. Ma mi domando se ciò sia sufficiente a escludere una qualche forma di causalità.
MAURO BONAZZI — Forse no. Ma dato che la meccanica quantistica ha dimostrato il suo valore conoscitivo, l’onere della prova di smentirla tocca a chi sostiene la persistenza del principio di causalità.
PAOLO DE BERNARDIS — Il fisico pragmatico si accontenta di fare previsioni sui fenomeni. O perché alla base non c’è causalità o perché la teoria non è abbastanza potente da tenerne conto, posso solo valutare la probabilità di un certo risultato.
MAURO BONAZZI — Secondo me il principio di indeterminazione segna una svolta anche per la filosofia. Mentre prima cercavamo un disegno nella realtà, ades- so dobbiamo cominciare a pensare la realtà come se non avesse senso. Ora però vorrei chiedere a de Bernardis che cosa c’era, secondo i fisici, prima del Big Bang. Per la filosofia dal nulla non può nascere nulla, quindi qualcosa dev’esserci prima dell’esplosione originaria.
PAOLO DE BERNARDIS — Al momento non siamo in grado di rispondere. Ma è nostro dovere fare ipotesi e molti colleghi stanno lavorando su che cosa c’era prima e anche sulla natura del Big Bang. Del resto è stupefacente notare come la somma complessiva dell’energia nell’universo, considerando energia cinetica positiva ed energia gravitazionale negativa che si annullano a vicenda, sia oggi zero come lo era all’inizio. Tutto ciò che vediamo corrisponde a un’energia perpetuamente nulla. VITTORIO POSSENTI — Ma il fatto che l’energia sia la stessa all’inizio e oggi non significa che sia nulla. Il nulla è un ente di ragione, che formiamo con la mente attraverso una negazione assoluta della totalità dell’essere. E dal nulla non può nascere qualcosa. Se oggi c’è dell’essere, inevitabilmente c’è sempre stato, sebbene sotto altre forme. Inoltre l’essere, avendo come limite il nulla che non c’è per definizione, risulta infinito. Quindi è assurdo dire, come fanno fisici tipo Stephen Hawking e Leonard Mlodinow, che l’universo proviene dal nulla assoluto: semmai è sorto dal vuoto quantistico, che è un concetto ben diverso. PAOLO DE BERNARDIS — Dal punto di vista quantistico il nulla è visto come un pullulare di effimere particelle virtuali che si formano e spariscono immediatamente grazie al principio di indeterminazione. Le leggi
fisiche prevedono che per un tempo brevissimo possa manifestarsi un’energia molto elevata. Ed è plausibile che un evento simile abbia generato la sequenza da cui è scaturito l’universo. Che cosa c’era prima? Difficile dirlo. Di certo c’era la potenzialità di quanto è avvenuto e potrebbe essere successo anche altrove.
MAURO BONAZZI — Qui emerge una dualità: da una parte la fisica quantistica, retta da un’originale nozione di caso; dall’altra leggi caratterizzate invece dal requisito della necessità. Sono come norme che regolano una gamma infinita di possibilità. È quasi un ritorno a Platone, con il mondo delle idee e le loro realizzazioni concrete. VITTORIO POSSENTI — Per tornare alle vicende dell’universo, mi chiedo se la filosofia stoica non avesse intuito aspetti che oggi riscopriamo attuali. Quella scuola parlava di ekpyrosis, la dissoluzione nel fuoco e la rinascita dal fuoco dei cicli dell’«anno cosmico», cui assegnava una durata di 100 mila anni solari. Non è un processo simile al succedersi del Big Bang e del Big Crunch teorizzato dai fisici di oggi? Però bisogna fare i conti con l’entropia, cioè l’aumento del disordine nel sistema. Nel momento in cui l’espansione dell’universo giunge al culmine, con la temperatura prossima allo zero e l’entropia al massimo, come può partire un processo che ricrei ordine?
PAOLO DE BERNARDIS — Ci sono due teorie diverse. L’idea di un universo ciclico teorizza l’alternanza tra fasi di espansione innescate dal Big Bang, in cui la densità diminuisce, e fasi di collasso, in cui la densità prende ad aumentare fino al Big Crunch. Un cosmo del genere non ha inizio né fine, ma si scontra appunto con il problema, mai realmente risolto, dell’entropia nelle fasi di transizione da un ciclo all’altro. L’altra teoria prevede invece un’espansione ininterrotta, da cui non si torna indietro, conclusa dalla morte termica. Ed è questa l’ipotesi che sembra favorita dalle rilevazioni attuali. Dico «sembra» perché sappiamo troppo poco dell’energia oscura: una sua eventuale transizione di fase potrebbe cambiare le proprietà dell’universo, magari provocandone il collasso. La verità è che dobbiamo studiare molto per capirne di più.

VAN GOGH

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