lunedì 18 dicembre 2023

I DOLORI DEL GIOVANE WERTHER

Quando scrisse “I Dolori del Giovane Werther”, Goethe aveva 24 anni, la pubblicazione del libro, l’anno successivo, fu un evento non semplicemente confinato entro il piccolo mondo della letteratura, ma divenne un fatto di costume senza precedenti.

Il Werther divenne il vademecum esistenziale di un’intera generazione di giovani tedeschi istruiti; e, nel giro di brevissimo tempo, lo divenne anche della più parte giovani di buona famiglia, e dunque in grado di leggere, di tutta Europa.
Non ha alcuna importanza cosa Goethe avesse realmente voluto comunicare ai lettori con quella sua operetta giovanile; quale fosse il suo contenuto più intimo e più vero, magari da leggersi fra le righe. Ciò che conta fu come la gioventù europea lo lesse, quali contenuti vi volle trovare.
Fu il testo nel quale trovava giustificazione la ribellione permanente dei giovani contro i vecchi; dell’individuo contro il collettivo, ovvero l’ordine sociale e le sue regole; che trovò nell’inseguire sentimento, libero e spontaneo, contro l’obbligo e la convenzione, la chiave di volta per la felicità.
Parimenti inizia la favola del giovane incompreso, il vittimismo universale di una mente libera e aperta contro l’opprimente stantio insieme di convenzioni che governano lo scambio sociale. Regole meschine e assurde che tarpano le ali a chiunque abbia idee e generoso senso del vivere.
Nella raffigurazione dei giovani dell’epoca, il sentire era l’espressione più nitida dell’anima quella che ne definiva la natura e generava la forza con cui si sarebbe stati al mondo in un certo modo piuttosto che in un altro.
La felicità è sentire di volere e potere essere liberi; ma sentirsi liberi è essere felici. È libero chi segue il suo sentire, ma non puoi sentire il tuo sentire - il tuo vero sentire - se non sei libero.
È una rivoluzione culturale di enormi proporzioni, quella che ha disegnato una volta per tutte il senso comune del mondo moderno riguardo alle ragioni che rendono lecito l’agire di ciascuno. Se l’azione è espressione di un sentimento generoso, sincero e onesto, non solo è lecita, ma è la benvenuta non può che rendere tutti migliori, anche coloro che non ne sono direttamente investiti, ma semplici spettatori.
Del resto buona parte della letteratura femminile di successo, dall’ottocento ai giorni nostri, si regge su questo mito. Il romanzo come “Il padrone delle ferriere” non poteva essere scritto senza che nel senso comune si desse per scontato che è un sentimento genuino dovesse e potesse far crollare qualunque barriera sociale, qualunque distanza fra le anime. …
Lotte è fidanzata con Albert, un giovane serio e assennato quanto lei, in definitiva il miglior partito che potesse trovare in vista del matrimonio, quello che le avrebbe assicurato e garantito il compimento di quello che era lei stessa, la realizzazione concreta di quello che era il suo profondo desiderare: una famiglia sorretta da solide fondamenta di ordine affettivo e pratico, ossia totale abnegazione ai ruoli ben definiti di moglie e marito dei due contraenti il matrimonio, rispettosa osservanza degli obblighi sociali, dedizione assoluta al lavoro, spettante ai due coniugi. Insomma l'antica saggezza della cultura popolare trovava nella coppia Lotte/Albert il suo modello ideale: ci si sposa non per passione ma per un condiviso sentimento di affetto e per unione di intenti e intendimenti. Il suo scopo è la durata in grazia del massimo livello di armonia che le inclinazioni caratteriali di una certa coppia possono offrire.
E' in questo contesto di relazioni umane, strettamente legate alla tradizione, che viene a inserirsi Werther. E naturalmente le fa esplodere, ma non nella forma diretta e dirompente per cui tutti gli impegni presi, gli obblighi consuetudinari fra promessi sposi, vengono cancellati in nome di una reciproca passione fra amanti di tale forza, da trasportarli su di un altro piano di realtà, liberandoli di ogni obbligo verso gli altri. No, avviene esattamente nella forma opposta, in modo indiretto, attraverso l'annichilimento del soggetto della passione, ossia di Werther, che, vedendo l'impossibilità di una via d'uscita ragionevole al suo desiderare, si suicida. Il messaggio, almeno come fu letto dai contemporanei, fu inequivocabilmente questo: che giustizia, e dunque quale bene, possiamo trovare in un ordine sociale le cui istituzioni antepongono il gelido calcolo dell'utile al nobile sentire del cuore? Che felicità potremo mai trovare nel sottometterci a regole dettate dal bisogno della società di conservare se stessa, quando rimuovono il principio stesso da cui sgorga ogni possibile felicità umana, ossia il diritto, anzi il dovere, di seguire il proprio sentimento, quando questo sorge spontaneo e innocente da un cuore puro e libero da qualunque meschino calcolo d'interesse?
Werther è il prototipo dell'incompreso, la figura sociale che ha sostituito quella più antica del peccatore, rimpiazzandola in forma rovesciata.
Se la vicenda del peccatore imponeva lo snodarsi della trama letteraria di ogni racconto verso la redenzione, la figura dell'incompreso prevede la messa sotto accusa permanente dell'ordine sociale esistente e l'esaltazione del giovane che ne diviene vittima proprio perché assolutamente superiore alla meschinità grazie alla quale l'uomo comune si associa ai suoi simili e fa della comune convivenza una ragnatela di regole inderogabili e asfissianti.Werther si suicida, come Didone abbandonata. Ora questo epilogo è interessante sotto molti punti di vista.
In primo luogo, la valutazione morale del suicidio stesso. Il suicidio non è concepibile nel mondo medioevale, cioè Cristiano. Nessuno si sarebbe suicidato per amore e non perché fosse semplicemente un tabù etico. Dante non si suicida, scrive la Divina Commedia; Petrarca, il Canzoniere. Lo scopo dell'amore non era la soddisfazione di un desiderio, ma un mezzo, una via per accedere a un desiderio d'amore ancora più vasto e totalizzante, quello di Dio nel quale trovare la verità della propria esistenza.
Dunque quando Werther si suicida siamo davvero fuori dal mondo Cristiano. Il gesto viene letto secondo criteri che a tutt'oggi rimangono invariati. E' un gesto "folle", come in genere si dice, ma in fondo comprensibile, dunque meno folle di quanto retoricamente si dica e, in fondo, accettato perché accettabile. Perché? Perché il desiderio, il proprio soggettivo desiderio di felicità, è l'unica realtà riconoscibile come sensata, l'unica alla quale possiamo dare un nome. Tutto intorno opacità e impenetrabilità.
E’ una chiave di volta che guida il nostro stare al mondo. Si vive per essere felici, naturalmente; ma si è felici solo inseguendo e realizzando i propri desideri. E i desideri sono l’altro nome con cui diciamo di sentire, di provare, dei sentimenti. La modernità è questo. Siamo soli col nostro desiderio, completamente soli, e proprio non c’è nulla che possiamo inventarci come compagno, quando abbiamo fatto del desiderio l’ancora di salvataggio del nostro stare al mondo.
Alfredo Morosetti

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