lunedì 27 febbraio 2017

Lo Sherman DD

L'ho raccontata sul CORRIERE della SERA del 18 maggio 2002 

LA STORIA, IL MISTERO DELLO SHERMAN. Scoperto da quattro amici a 24 metri di profondità . Gli americani avevano tentato di riportarlo in superficie senza riuscirci. Finirà  nel museo di Latina 
Trovata in mare l' arma segreta del D-Day 
Carro armato galleggiante Usa sarà  recuperato oggi al largo di Paestum. Eisenhower volle provarlo a Salerno; Esistono solo altri due esemplari dello stesso modello 

DAL NOSTRO INVIATO 

PAESTUM - Un pezzo di storia della Seconda guerra mondiale giace a 24 metri di profondità  nel golfo di Salerno, di fronte alle coste di Paestum. E' un carro armato speciale, un mezzo blindato che gli americani hanno provato a portarsi via senza riuscirci. E' l' arma segreta che nel ' 44 Eisenhower impiegò nel D-Day, durante lo sbarco in Normandia. Pesa 40 tonnellate e oggi viene recuperato con un' operazione eccezionale. Perché si trova lì e come è stato scoperto è una storia straordinaria. Comincia nel ' 91. Quattro amici di Salerno, Paolo, Marcello, Gigi e Agostino, tutti appassionati di immersioni subacquee, scoprirono sul fondo del mare i resti di un velivolo tedesco, uno Junker, forse abbattuto dalle truppe alleate che il 9 settembre 1943 furono protagoniste dello sbarco di Salerno, l' operazione Avalanche. Eccitati dal ritrovamento, i ragazzi passarono un' intera estate a scandagliare le acque alla ricerca di altri relitti. Ebbero la fortuna di trovare anche un mezzo da sbarco e un carro armato americano, uno Sherman, forse caduto da una nave durante le fasi di avvicinamento alla costa. Cominciarono a formarsi la convinzione che il golfo di Salerno fosse un autentico cimitero bellico. Ma all' improvviso una tragedia si abbatté sui quattro amici. Uno di loro, Paolo, durante un' immersione perse la vita. Gli altri, avviliti, abbandonarono le ricerche subacquee. UN MARINAIO - Il destino però sembrava averli legati indissolubilmente ai mezzi bellici affondati, perché nel 1998 un incontro casuale li spinse a ricominciare. Ad Agropoli, 40 chilometri a sud di Salerno, conobbero un vecchio marinaio di nome Peppino. Ascoltarono da lui una storia strana e appassionante. Peppino raccontò che c' era un punto, a poche miglia dalla costa, considerato dai marinai una vera maledizione. Quando gettavano le reti in quello specchio d' acqua, non riuscivano più a tirarle su. Rimanevano aggrappate a qualcosa di misterioso che doveva trovarsi sui fondali. Ci volle tempo, ma alla fine i tre amici furono in grado di individuare il punto esatto di cui parlava il vecchio marinaio. Sotto, a 24 metri di profondità , li aspettava una grande sorpresa. Trovarono un carro armato. Uno strano carro armato. Tutt' intorno era fasciato di gomma, come se fosse posato all' interno di un canotto. E dietro aveva due eliche. Attorno al cannone e al portellone erano impigliate decine di reti strappate ai marinai. NORMANDIA - Consultando un libro di carri armati, i tre subacquei si resero conto di aver scoperto un mezzo anfibio Sherman DD (Duplex drive). Decisero di informarne il Patton Museum di Fort Knox, nel Kentucky. Risposta: impossibile che abbiate trovato uno Sherman DD, perché questi carri non furono usati nello sbarco di Salerno, ma solo nell' invasione della Normandia nel giugno del ' 44. Per convincere gli scettici dirigenti del museo americano, i tre amici filmarono il carro e spedirono la cassetta negli Stati Uniti. Appena videro quelle immagini, gli americani si precipitarono a Salerno. «Non sappiamo come sia finito lì - dissero -, ma effettivamente si tratta di uno Sherman DD. Ne vennero costruite alcune centinaia, tutte sparite. Ne rimangono solo due esemplari, uno in un museo francese e l' altro in un museo inglese. Questo lo vogliamo assolutamente in America». Per portarselo via, due anni fa arriva la nave militare USS Grasp, specializzata in difficili operazioni sottomarine. Gli uomini della Grasp avevano già  recuperato i rottami dell' aereo Twa caduto in mare a New York nel ' 96 subito dopo il decollo, e quelli del velivolo sul quale perse la vita John John Kennedy. Nel golfo di Salerno non furono assistiti dalla buona sorte. Avevano solo quattro giorni di tempo per sollevare il carro. Poi dovevano assolutamente partire per altre missioni. Persero tre giorni a ripulire lo Sherman che era quasi completamente sepolto nella sabbia. Il quarto giorno tentarono il tutto per tutto, ma sbagliarono manovra e rinunciarono all' impresa. ARMA SEGRETA - Nel frattempo a Washington hanno risolto il mistero di quel carro nelle acque del Tirreno. La verità  è saltata fuori da alcune carte ritrovate negli archivi. Esse rivelano un capitolo della Seconda guerra mondiale finora sconosciuto agli storici. Risulta che il generale Dwight Eisenhower (eletto poi presidente degli Stati Uniti) aveva deciso di compiere un esperimento nel golfo di Salerno con uno Sherman DD. Il generale considerava quei carri l' arma segreta da schierare in seguito nell' invasione della Normandia. Mentre il mezzo blindato veniva messo in acqua, una sporgenza della nave aveva lacerato il gommone che gli permetteva di galleggiare. Quattro uomini si erano salvati e uno era affondato con il carro. MUSEO - E lì, sul fondo del mare, questo testimone del nostro recente passato sembrava destinato a rimanere per sempre. Ma ecco entrare in gioco un altro personaggio straordinario. Mario De Pasquale ha creato a Borgo Faiti, in provincia di Latina, il più grande museo europeo di mezzi bellici. Lo ha chiamato «Piano delle orme». Quando un regista deve girare scene di guerra va da lui. Il carro armato che si vede nel film di Benigni «La vita è bella» è uno Sherman preso a prestito da De Pasquale. E' lo stesso che compare anche nel film «Il paziente inglese». Alcuni dei suoi tesori De Pasquale li ha recuperati in mare. Come il caccia americano Curtiss P40L, sul quale il pilota Michael Mauritz volava al largo di Anzio nel ' 44. A causa di un' avaria ammarò, salvandosi con un gommone. Nel ' 98 è venuto a rivedere il suo aereo mentre lo ripescavano 54 anni dopo. Appena ha saputo la storia dello Sherman DD, De Pasquale si è messo in testa di strapparlo al mare per il suo museo. Ha trovato una ditta napoletana disposta, in cambio di 20 mila euro, a compiere l' impresa con un pontone enorme. Nei giorni scorsi i subacquei hanno lavorato attorno al relitto. Lo hanno imbracato con le catene. E oggi il vecchio carro ritorna a galla. Se tutto va bene, in serata lo Sherman sarà  caricato su un grande carrello e trasferito nel museo di Latina. «Va prima lavato a fondo con acqua dolce - spiega la direttrice del museo, Alda Dalzini -. La patina di sale che lo ricopre dev' essere perfettamente rimossa. Dopo lo smonteremo pezzo per pezzo. Ogni singolo ingranaggio, anche la più piccola vite, tutto sarà  trattato con oli speciali. Alla fine il carro sarà  rimontato e sembrerà  praticamente nuovo. Rimetteremo in funzione perfino il motore». Marco Nese 

domenica 26 febbraio 2017

Le Kessler

Vita, successi e amori famosi:
Alice e Ellen Kessler, le gambe più amate della tv compiono 80 anni

Ad agosto spegneranno 80 candeline. E hanno promesso di rimanere insieme fino alla fine. Storia delle gemelle tedesche che incantarono l’Italia dagli anni ‘60 in poi. Con i capelli biondi, le gambe lunghe e il loro «Da-da-umpa»



Anche i sogni invecchiano. E forse nessuno più di loro ha incarnato il sogno degli italiani. Con quelle gambe lunghe, i biondi capelli e il fascino delle straniere, ammaliavano gli uomini. Ma l’elegante leggerezza delle due stangone tedesche incantava anche le donne. Erano le gemelle Kessler, regine della tv. Il tempo è passato anche per loro: fra un paio di mesi, il 20 agosto, Alice ed Ellen compiranno 80 anni. Ma non ci pensano e se la godono ancora. A febbraio sono andate in vacanza in Florida e sono tornate all’inizio di maggio, dirette a Vienna, dove fino al 3 luglio sono protagoniste di un musical scritto da Udo Jurgens.
«Il ballo ci ha salvate»
«Invecchiare è normale - dicono - e l’età che avanza non ci fa paura». Il fisico è ancora giovanile, tenuto in forma con 40 minuti di esercizi ginnici ogni santo giorno. Se poi dovesse accadere il disastro, se una delle due fosse colpita da una malattia inguaribile, l’altra la aiuterebbe ad andarsene senza traumi. Un patto tra loro messo per iscritto sull’eutanasia, la dolce morte. Sono nate nel 1936 a Nerchau, una cittadina che a quel tempo si trovava nella Germania dell’Est. Da bambine frequentarono scuole di danza e non se la passavano tanto bene. «Mancava il cibo - hanno raccontato - e i nostri genitori ci dicevano di stare sempre zitte perché le spie erano dappertutto e portavano via le persone». Fortuna che i sovietici amavano la danza classica e le due giovani ballerine ebbero il permesso di andare a esibirsi nella Germania Ovest, a Dusseldorf e poi a Parigi. «Avevamo 15 anni - ricordano -, e per la prima volta abbiamo visto la frutta. Era un’altra vita rispetto alla miseria che avevamo vissuto all’Est. Ci si poteva sedere al ristorante e ordinare una fetta carne. Per noi era qualcosa di incredibile». 

L’Italia e il successo
Il grande successo arriva a 25 anni, quando approdano in Italia. Atterrarono il 16 gennaio 1961, proprio il primo giorno in cui apriva l’aeroporto di Fiumicino. Quel genio della tv che è stato Ettore Bernabei intuì che poteva fare di loro un mito. Erano belle, luminose, ma avevano anche l’aspetto delle ragazze pulite, perbene. Le ingaggiò obbligandole a esibirsi con le gambe velate da pesanti calze. Non si doveva vedere la pelle. Si racconta che nei corridoi di via Teulada si aggirasse un signore che controllava i costumi di scena delle gemelle e leggeva i copioni alla ricerca di eventuali aspetti scabrosi. Nessuno sapeva chi fosse, lo chiamavano «l’uomo delle mutande» e si sussurrava che fosse un incaricato del Vaticano. Fu un successo immediato con un programma che si chiamava “Giardino d’inverno”, regia di Antonello Falqui, l’orchestra diretta dal maestro Gorni Kramer e le coreografie di Don Lurio. Ennio Flaiano definì le gemelle: «Due paia di gambe con una testa sola». Diventarono il simbolo di un’Italia bramosa di allegria, piena di vitalità e ricca di fiducia nel futuro. Alice ed Ellen si rivelarono anche brave cantanti e lanciarono motivi orecchiabili dal titolo “Concertino” e “Pollo e champagne”. «Oh, dimmi di sì/ andiamo ancora al Bois de Boulogne/ ceniamo ancora con del pollo e champagne». Danzavano leggere, disinvolte, senza mosse audaci, un’esibizione per famiglie raccolte sui divani. C’era solo la Rai e le guardavano in 20 milioni. Risultarono così gradite al pubblico che si guadagnarono un ruolo di protagoniste anche l’anno successivo nella trasmissione “Studio Uno”. Il programma si apriva con le Kessler alte, statuarie, fasciate da bianchi piumaggi che cantavano “Da-da-umpa”, diventato famosissimo. «Hello boys/ traversando tutto l’Illinois/ valicando il Tennessee/ senza indugio fino a qui». Ormai erano una presenza stabile in tv, dove lanciarono un altro motivo col quale fecero ancora centro: “La notte è piccola”. Si accorse di loro la pubblicità, un noto marchio di calze le ingaggiò per Carosello. Con le loro gambe dovevano convincere le donne a comprare quel tipo di calze, ma la Rai impose che le calze pubblicizzate fossero di nylon scuro. Nel programma sull’Odissea il regista Falqui trasforma in sirene le gemelle tedesche, alle quali offrono anche ruoli nel cinema e a teatro, dove brillano nelle commedie musicali di Garinei e Giovannini.
Gli anni Settanta, e Playboy
Alice ed Ellen sono due star che trasformano in oro quello che toccano. Per tutti gli anni Settanta sono le showgirl più amate. Alla vigilia dei 40 anni tradiscono la loro immagine di signorine pudiche e accettano di posare, in atteggiamenti abbastanza castigati, per l’edizione italiana di Playboy. Dopo aver preso parte a “Palcoscenico”, nel 1980, e allo spettacolo “Al Paradise”, nel 1983, si rendono conto che non sono più ragazzine e i tempi sono cambiati, la concorrenza in tv è sempre più agguerrita e così, nella seconda metà degli anni Ottanta, le gemelle tornano a lavorare in Germania e si stabiliscono a Monaco di Baviera. Ma ogni tanto tornano. Nel 1989, eccole di nuovo con “Una rotonda sul mare”. Nel 2004 prendono parte a “Super Ciro”, un programma divertente su Italia 1 e lanciano un altro motivetto orecchiabile: “Quelli belli come noi”. Tra il 2010 e il 2011, le troviamo su Canale 5 nello show musicale “Io canto” e su Raiuno nel programma “I soliti ignoti”. Sempre nel 2011 il regista Giancarlo Sepe ne fa le protagoniste del musical “Dr Jekyll e Mr Hyde”. In Italia ci tornano, hanno anche una casa a Roma, ma non ci restano molto. Dicono di aver nostalgia dell’Italia «semplice che abbiamo trovato all’inizio, è diventata un Paese schiavo della burocrazia che rende tutto difficile». Non gradiscono nemmeno le tasse italiane: «Troppo alte, i tedeschi pagano molto meno».
Gli amori illustri
Ora, a 80 anni, volendo fare un bilancio, quelle di Alice ed Ellen sono due vite da favola, le vite di due donne che si comportano come fossero una persona sola. Allo scadere del 60 anni scrissero un libro dal titolo illuminante: “1+1= 1”. Sempre insieme, sempre unite, per essere più forti e determinate. «Abbiamo fatto una scelta - raccontano - niente matrimonio e niente figli, e non siamo pentite». Niente matrimonio, ma uomini sì. A 17 anni Ellen visse una notte d’amore a Parigi con l’attore americano Burt Lancaster. Difficile distinguerle, tanto sono simili, comunque Ellen è fra le due la più vivace, la più chiacchierona. E’ stata per 20 anni la compagna dell’attore Umberto Orsini. Lo piantò di colpo il giorno in cui scoprì che lui corteggiava un’altra donna. Lo ha definito «un vanitoso con il vizio delle scappatelle». Alice invece passò 4 anni con l’attore Enrico Maria Salerno. Ma non nasconde di aver avuto altri amori. Dice che se la sorella ha passato 20 anni con Umberto Orsini, lei ha «cambiato 20 uomini in un anno». I politici italiani le ammiravano. Una volta Aldo Moro bussò al loro camerino al teatro Sistina. «Ci riempì di complimenti». Giulio Andreotti invece lo incontrarono a Bonn. «Parlò con noi a lungo. Ogni tanto i suoi collaboratori gli ricordavano: Presidente, dobbiamo andare, ha un impegno. Ma lui non gli dava retta. Alla fine, nel salutarci, disse che dovevamo andarlo a trovare a Fiuggi. Promise che la moglie avrebbe cucinato qualcosa di buono per noi».

Potenza della Tecnica

Tecnica, padrona delle superpotenze

Un apparato che si autoalimenta e impone i suoi scopi anche agli Stati Uniti e alla Russia, i grandi Stati che dominano il mondo grazie agli armamenti nucleari

di Emanuele Severino
Due interpretazioni del mondo si sono contrapposte negli ultimi decenni. Una sostiene che la produzione industriale sta distruggendo la Terra e che procedendo di questo passo la catastrofe non è lontana; l’altra lo nega in base alla convinzione che le energie alternative saranno in grado di sventare questa minaccia. La prima rivendica il carattere scientifico della propria diagnosi; l’altra lo nega. D’altra parte l’atto di nascita della prima è il celebre rapporto I limiti dello sviluppo (1972), commissionato dal Club di Roma al Massachusetts Institute of Technology (Mit), ossia a uno dei maggiori centri di ricerca tecno-scientifica. (Gli autori ebbero in seguito a rivedere i loro risultati, ma la sostanza del rapporto è rimasta la stessa. Lo si è constatato nei successivi aggiornamenti. Tra gli ultimi, 2052: scenari globali per i prossimi quarant’anni, 2013, e il nuovo rapporto 2013 Il pianeta saccheggiato di Ugo Bardi). Queste due contrapposte interpretazioni hanno tuttavia in comune alcuni tratti di grande rilievo. Ne indico due.
Primo. È vero che l’interpretazione facente capo a I limiti dello sviluppo propone una drastica riduzione della forma attuale della crescita economica, ma tale riduzione, unita alla sostituzione dei combustibili fossili (ritenuti i maggiori responsabili della devastazione della Terra) con forme non inquinanti di energia, non significa fuoriuscita dalla produzione capitalistica delle merci. La contrapposizione di cui stiamo parlando va intesa cioè come espressione di una delle più imponenti forme di concorrenza capitalistica in atto sul pianeta: lo scontro si produce all’interno del mondo capitalistico. Una situazione comunque complessa, anche perché se i difensori dello status quo della produzione stanno perdendo credito ed è difficile negare lo sfruttamento e la devastazione della Terra, è peraltro anche diffusa la convinzione che opporsi a tale status significa contrastare quella crescita che oggi viene invocata per superare la crisi economica. Non solo i Paesi industrializzati, ma anche quelli in via di sviluppo promuovono quella crescita — e anche quelli che, come Cina e India, intendono portarsi al livello dell’economia statunitense. Tutti attori che non vogliono disturbare le possibilità della crescita col problema della sostituzione delle energie inquinanti. 
Ma la potenza e il successo di entrambe le forze che si contrappongono all’interno del mondo capitalistico è determinato dalla tecnica. Si affidano entrambe alla tecnica, anche se a forme diverse di essa. Richiamo qui in modo del tutto sommario la sequenza concettuale per la quale entrambe, affidandosi alla tecnica, sono destinate a portare al tramonto ciò che esse intendono tenere in vita: la produzione capitalistica della ricchezza. Infatti, se e poiché la forma attuale di tale produzione finisce col distruggere la Terra (ma nell’Urss e nei Paesi comunisti la devastazione è stata ed è altrettanto grave), il capitalismo finisce col distruggere la propria base e dunque sé stesso. Se invece, per evitare di distruggere la Terra e sé stesso, il capitalismo abbandona la sua forma attuale e va dotandosi delle energie alternative, allora lo scopo ultimo di questo processo non è più l’incremento indefinito del profitto privato, ma la salvaguardia della Terra; ossia questo processo non è più capitalismo; sì che anche in questo caso il capitalismo finisce col distruggere sé stesso. Le due contrapposte interpretazioni dello sviluppo non sospettano questa autodistruzione del capitalismo, nella quale restano anch’esse coinvolte.
Secondo. Tendono entrambe a considerare la gestione tecnologica dell’energia separatamente dal contesto storico in cui essa si trova. La tecnica ha potenza soltanto se è un apparato capace di sopravvivere, dunque di difendersi da tutto ciò che lo minaccia, e all’occorrenza di distruggerlo. Tale capacità è essa stessa una forma di potenza, tanto più potente quanto più ha carattere tecno-scientifico. Oggi la capacità massima di difesa-offesa da parte di tale apparato è quel prodotto della tecno-scienza che consiste nell’armamento nucleare. E oggi sul Pianeta sono due soli i luoghi in cui tale armamento è invincibile: Stati Uniti e Russia.
Durante la guerra fredda Usa e Urss sono diventati «superpotenze», ossia invincibili, per la potenza del loro arsenale atomico. Invincibili rispetto a terzi e, in un improbabile scontro tra esse, entrambe vincenti e insieme entrambe distrutte. Le due superpotenze continuano a essere tali e a fronteggiarsi, in una situazione dove la potenza dell’Urss è stata ereditata dalla Russia. Avendo raggiunto l’invincibilità sono intenzionate a non perderla, quindi, da un lato, a mantenere la distanza di sicurezza rispetto agli Stati e ai popoli via via emergenti e, dall’altro, a salvaguardare l’equilibrio che è venuto a formarsi tra i loro dispositivi militari. (A proposito: se Hillary Clinton, a differenza di Donald Trump, è pericolosamente ostile all’attuale dirigenza russa, allora gli attacchi informatici organizzati dalla Russia contro il Partito democratico statunitense per favorire Trump nelle elezioni presidenziali sono stati una mossa in favore della pace mondiale, che continua pur sempre a dipendere dal modo in cui si configura il rapporto tra gli Usa e la compagine statale costituita ieri dall’Urss e oggi dalla Russia).
Capaci di mantenere la distanza di sicurezza rispetto alla proliferazione nucleare, ora sono impegnati a mantenerla rispetto alla pressione dei popoli poveri, che soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale vogliono partecipare al benessere e alla ricchezza presenti sulla Terra. È l’esistenza di questa pressione a dare consistenza planetaria al fondamentalismo islamico, che altrimenti sarebbe un fenomeno angosciante, ma solo per le minoranze — anche se ingenti — da esso investite. D’altronde la fame umana esiste solo all’interno di una prospettiva «culturale», ed è nella propria cultura di fondo che il fondamentalismo islamico vuole inscrivere la fame del mondo. Anche se è triste riconoscerlo, l’autentico nemico umano dei popoli ricchi sono i popoli poveri (e sfruttati dal colonialismo).
La previsione del futuro non deve quindi tener conto soltanto del saccheggio e dello sfruttamento della Terra, ma anche dello sfruttamento dei popoli poveri da parte di quelli ricchi: conquista e sfruttamento della Terra dei più deboli da parte dei più ricchi e potenti e inevitabile reazione dei più deboli. Nonostante la crisi, l’Europa è ricca, ma non ha la capacità di difendere adeguatamente la propria ricchezza. I veramente ricchi sono quelli che la sanno difendere: Stati Uniti e Russia. Cina e India potranno anche sorpassare l’economia statunitense, ma è del tutto improbabile che si avvicinino alla potenza degli arsenali nucleari Usa e russi (ognuno dei quali dispone di più di settemila testate nucleari, mentre gli altri Paesi con armi nucleari, superano di poco, tutti insieme, le mille testate e quasi tutti si dividono tra quelli che come leader nucleare hanno gli Stati Uniti e quelli che hanno la Russia).
Il problema del futuro del mondo diventa dunque ancora più complesso. Si è detto della devastazione della Terra causata dalla produzione industriale; dell’incremento demografico a cui non corrisponde un’adeguata disponibilità di cibo e che il fondamentalismo islamico intende guidare contro l’Occidente; del contrasto tra gruppi industriali che difendono le vecchie forme di energia e gruppi che invece trarrebbero vantaggio dall’introduzione di energie non inquinanti. Ma tutti questi fattori non possono esistere separatamente dalla presenza di chi oggi è potente perché è l’incarnazione della potenza della tecnica (Usa e Russia) e pertanto vuole differenziare la propria sorte da quella di tutti gli altri. Anche prima del crollo dell’Urss ho sempre sostenuto che le due superpotenze avrebbero evitato di scontrarsi e distruggersi (col risultato di lasciar sopravvivere le grandi masse dell’Asia non sovietica, dell’Africa, dell’America meridionale). Ed è un’eccessiva sottovalutazione della razionalità delle due superpotenze — la cui preminente potenza è dovuta alla razionalità tecno-scientifica che ha come scopo il proprio perpetuarsi e potenziarsi — ritenere che esse lascerebbero arrivare quel punto di non ritorno dove la Terra non sarebbe più abitabile dall’uomo o dove esse e le aree del globo per esse vitali (come l’Europa) fossero sommerse dalle masse dei poveri.
Ma c’è di più: se la tecnica ha la capacità di prevalere su tutte le forze oggi presenti sulla Terra — quindi anche su quelle che la devastano e sono responsabili della fame nel mondo —, essa ha la capacità di prevalere perfino sulle dimensioni soprattutto nelle quali essa stessa oggi si incarna, cioè sulle dimensioni — Usa, Russia — che oggi ritengono di potersi servire della tecnica per realizzare gli scopi che esse perseguono in quanto Usa e Russia. Questi scopi differiscono e si oppongono allo scopo dell’apparato tecno-scientifico: l’aumento indefinito della propria potenza. Differendone e opponendovisi, sono destinati a soccombere di fronte a tale scopo, ossia a trasformarsi essi in mezzi per realizzarlo. La dominazione planetaria della tecnica si genera da questi scopi che, dandola alla luce, vanno incontro alla morte.

Il divenire

La vera Storia smentisce Hegel

Emanuele Severino: la fede nel divenire è un fraintendimento che sfocia nel nichilismo
Il nuovo saggio di un autore che propone un originale percorso di ricerca metafisica



Le molteplici strade di ciò che oggi si può chiamare filosofia vanno dal discorso retorico sui «fatti» (l’opinionismo) agli studi logici e neuro-linguistici sul funzionamento della mente. A stento sopravvive l’idea di filosofia come disciplina autonoma e più marginalmente la prospettiva di una teoresi individuale. Emanuele Severino si colloca in questo punto, delineando una particolare metafisica sin dai suoi esordi, dopo la laurea con Gustavo Bontadini, con La struttura originaria (La Scuola, 1958). L’attualità di questo percorso «inattuale» sta nell’opporsi alla visione nichilista, mostrandone i limiti di senso metafisico. 
Il suo nuovo libro è Storia, Gioia (Adelphi). È un punto di incontro tra i suoi testi più teoretici pubblicati da Adelphi e quelli rivolti alle questioni dell’«attualità», editi da Rizzoli. Storia, Gioia mostra che la relazione tra i due gruppi di scritti è stretta e lo fa evidenziando il rapporto tra il modo più «rigoroso» di comprendere in modo inautentico i tratti essenziali della storia dell’uomo (dal mito alla civiltà della tecnica e al tempo in cui i popoli si portano oltre essa) e il modo autentico di comprenderli. 

Per Severino le filosofie sono caratterizzate dalla fede nel divenire, che nella contemporaneità assume il volto del nichilismo delle tecnoscienze (la «vita inautentica» nel dispiegarsi del «dominio della tecnica»). Sin dai Greci, un ente viene considerato proveniente dal nulla, dotato di esistenza e condannato alla morte. Ma per Severino siamo invece di fronte a essenti e poiché l’essere è e non può diventare un nulla, «ogni essente è eterno». Quello che si ritiene il divenire degli enti è l’apparire su uno specchio (il mondo); ma gli essenti esistono prima e dopo. La storia dell’Occidente nichilista è destinata al tramonto per fare spazio al destino della verità. «Sin dall’inizio la filosofia pensa l’Eterno come Origine (arché) del mondo. Ma l’originante differisce dal non originante perché è un diventare altro. L’Eterno non può quindi essere originante... L’Eterno diventa un ente diveniente».
Già con La Gloria (Adelphi, 2001), Severino aveva introdotto la dimostrazione necessaria dell’esistenza degli «altri», ovvero ciò che è non visibile ed è diverso da ciò che l’esperienza conferma delle ipotesi scientifiche. I fallimenti nel determinare questo «altro» si determinano per l’assenza del senso dell’essente che è l’oltrepassamento nella «costellazione infinita di cerchi finiti dell’apparire del Destino». Per «cerchio dell’apparire» si intende la totalità degli essenti che appaiono e sono. Senza l’oltrepassamento siamo nella «terra isolata», dove mito, ragione e tecnica cercano di vincere la morte «anche attraverso una ricostruzione biopsichica dell’uomo che lo renda certo di averla vinta»; ma questa è fede, quindi un dubbio.
Così Severino conferisce alla storia un senso diverso dall’effettualizzarsi dell’Idea di Hegel. Oggi, scrive, si è disposti a riconoscere l’ipoteticità degli eventi storici, ovvero delle forme della storia del mortale nel mondo isolato, di cui la dominazione della tecnica è l’epifania più evidente, ma non l’esistenza della storia come contenuto di una ipotesi. Tecnica che è fede (quindi opposta al dubbio, pertanto non porterà a una «terza guerra mondiale che distruggerebbe l’apparato tecnico che l’ha resa possibile») in quanto riconosce il «carattere ipotetico del proprio sapere». Nel destino non c’è il dispiegarsi della storia come negazione della contraddizione (Hegel e Marx): «Il destino che appare nel proprio cerchio originario mostra che il sopraggiungere di un qualsiasi essente (…) nei cerchi del destino è necessario». Cerchi infiniti e in ognuno appare «eternamente il destino della verità».
«Poiché il destino della verità mostra la Follia estrema della fede nel diventar altro, l’inevitabilità e definitività del rifiuto di ogni “Verità” incontrovertibile che non sia il diventar altro di ogni essente (…) viene a cadere e… la Non-Follia del destino può presentarsi come l’autentica verità assolutamente incontrovertibile che tra l’altro implica con necessità l’eternità di ogni essente e pertanto di se stessa».
Nel suo significato più radicale la storia è l’infinito e sempre più ampio apparire degli eterni in ognuno dei «cerchi dell’apparire del destino della verità». Gli eterni non sono res gestae, bensì solo gli eterni hanno Storia perché possono «morire» e rimanere eterni. La totalità infinita degli eterni è la Gioia, ovvero «la manifestazione infinita del Tutto» che dà spazio all’infinito apparire degli eterni nella «costellazione» dei cerchi dopo il tramonto dell’isolamento della terra. Su questo si concentra la seconda parte del testo, una mappa per uscire dal «sottosuolo filosofico del nostro tempo», che assume anche toni metaforici e complessi per i quali si può solo rimandare a una lettura testuale.

My paintings

Non sono un pittore. Solo un dilettante. Qui alcuni miei oli su tela.







venerdì 24 febbraio 2017

I 23 libri di Zuckerberg

Io, che ho letto tutti e 23 i libri della lista di Zuckerberg, vi spiego come funziona la testa di mister Facebook

Mark è un lettore bulimico, ma con metodo e un’idea di fondo: che per comprendere la «forma» del contemporaneo come Rete dinamica e incessantemente ridisegnata, le aree di intersezione tra i saperi contino più dei saperi separati. Ma ecco cosa manca




A colpire d’impatto, nell’«elenco» di Zuckerberg, è la coerenza totale rispetto alla sua identità e alla sua parabola. Zuckerberg è infatti un polivalente da sempre: alla Ardsley High School eccelle nelle humanities, nel passaggio alla Phillips Exeter Academy soprattutto in materie scientifiche; e se da un lato è nota la sua passione divorante per le lingue classiche (con l’abitudine di citare a memoria versi dall’Iliade o dall’Eneide, anche nei brainstorming aziendali), dall’altro lo è il percorso ferreo che lo porterà alla creazione (controversa) di Facebook: i software analizzati fin dalle medie, gli studi di informatica (e psicologia) ad Harvard, la conquista precoce dei vertici delle classifiche delle «persone più influenti» (come quella di Vanity Fair dedicata a guru dell’ «età dell’informazione»). In definitiva, una propensione/formazione interdisciplinare che spiega letture così onnivore, anzi bulimiche.
Una bulimia in cui, però, c’è del metodo; perché le connessioni che ne derivano (tra cultura umanistica e scientifica, tra mondo antico-classico e attuale) sono decisive soprattutto in rapporto alla sua visione del mondo: in particolare, in rapporto all’idea che per comprendere la «forma» del contemporaneo come Rete dinamica e incessantemente ridisegnata, le aree di intersezione tra i saperi contino sempre più dei saperi separati.
Zuckerberg ha compreso cioè che nella società liquida capire vuol dire in primo luogo integrare: che è impossibile spiegare le società globali senza risalire alla loro genesi evolutiva (al «tempo profondo» della biologia e alla storia di Homo, da cui il libro di Harari); che le svolte tecno sono spesso incomprensibili senza quelle concettuali che le precedono o le accompagnano (da cui l’accostamento tra la storia dei Bell Labs e del transistor e un libro sui «mutamenti di paradigma» come quello di Thomas Kuhn); e che, più in generale - altra cerniera - è ormai risibile mantenere il diaframma tra scienze naturali e umane e per esteso tra «innato» e «appreso», «biologico» e «ambientale», «natura» e «cultura» dei processi psicologici e sociali (da cui la coesistenza tra il Matt Ridley di Genoma e il classico di William James sulle «varietà dell’esperienza religiosa»).
Fino a qui, l’«elenco» è quindi un’istruttiva guida metodologica prima ancora che un insieme di testi da leggere e/o consultare; un orientamento utile ed efficace non solo per i coetanei di Zuckerberg, ma anche per lettori/fruitori di generazioni precedenti (come mostra, del resto, l’inclusione di libri come L’ordine mondiale di Kissinger, in effetti un libro già classico, qualunque cosa si pensi sulle ambiguità politiche - eufemismo - dell’autore). Un orientamento particolarmente necessario per l’Italia, dove a lungo (e in parte ancora adesso) sacche di resistenza vetero-umanistica hanno contrastato proprio l’integrazione delle discipline.
Diverso il discorso se ci si sposta sul piano critico, con rilievi di due ordini. Quello più lieve riguarda la scelta dei libri singoli. Ricordato il taglio soggettivo della scelta stessa (di Zuckerberg e/o del suo think tank), molti sono infatti quelli opinabili in quanto a importanza gerarchica, a densità e profondità degli argomenti, a completezza e aggiornamento (pur tenendo conto che la lista è del 2015).
Si possono fare vari esempi.Il Muqaddimah di Ibn Khaldun (1377) è importante e sintomatico per la «visione del mondo» islamica, specie nell’ottica di risalire a una sorta di «pre-illuminismo» globale; ma forse sarebbe ancora più decisivo arretrare di qualche decennio fino a Ibn Taymiyyah, il contemporaneo di Dante che resta tutt’oggi - anche per le forzature ideologiche cui è stato sottoposto - l’antefatto di riferimento del salafismo e di tutto l’islamismo radicale fino a Al Qaeda e all’Isis.
Oppure, è encomiabile riesumare il grande William James per dare una spiegazione «naturalistica» alla pulsione trascendente. Ma il libro è del 1902: perché non ricorrere a testi di neurofisiologia e neurobiologia in chiave evoluzionistica, che rispondono alle stesse domande con strumenti e concetti molto più precisi e analitici (Pascal Boyer, Scott Atran, Michael Shermer o il nostro Franco Fabbro)?
E ancora, quanto alle basi genetiche dell’esperienza (comportamento, patologie fisiche e psichiche, e così via), il pur solido testo di Ridley è del 1999; nel settore, un’era fa, tanto da fargli preferire molti testi successivi e più aggiornati (già che ci siamo, consigliamo quello recentissimo di Siddharta Mukherjee, The Gene, appena tradotto per Mondadori).
Il rilievo critico più marcato, invece, riguarda il sottotesto «ideologico» dell’elenco, (o post-ideologico, ma anche la dimensione post-ideologica ha tratti ideologici). Tutto è ben riassunto nel titolo dell’altro libro di Ridley, L’ottimista razionale; libro che mostra il costante progresso della specie dal Neolitico a oggi, e che insieme a quello di Steven Pinker sul costante decremento di violenza (sempre sul lunghissimo periodo) comunica una visione costruttiva ma univoca, in cui l’ottimismo stesso (privato del suo controcanto gramsciano: il pessimismo della ragione) disegna un paesaggio dalla luce artificialmente onninvadente, senza ombre né opacità. Fatta eccezione per le «increspature» dei libri sulla discriminazione mediatica dei neri (The New Jim Crow) e sui bassifondi di Chicago (Gang Leader for a Day) - che sembrano inseriti, per la verità, come a raggiungere ogni categoria e target possibile - tutto il resto si salda in perfetta sintonia con quella visione. Lo vediamo nella «cornice» politico-economica, se il pur acuto testo di Acemoglu-Robinson sulle differenze di reddito e benessere tra popoli e nazioni viene inquadrato in una sorta di «neutralità» descrittiva di fondo (la stessa dei libri di alti esponenti dell’establishment quali lo stesso Kissinger e il Segretario del Tesoro di Bush junior, Paulson); e se del bravissimo Moisés Naim viene suggerito un libro (La fine del potere) che enfatizza le possibilità dell’individuo nelle società liberali e non il più scomodo e abrasivo Illecito, magistrale reportage su quel traffico nero composito (droga, armi, uomini) che con la contraffazione dei marchi va a comporre un decimo del mercato complessivo.
E lo vediamo in tanti altri aspetti specifici. Zuckerberg cita il libro di Vaclav Smil sulle energie alternative, decisive nel quadro del «global warming», ma non libri di denuncia come quello - magistrale e tutt’altro che apocalittico - di un maestro come James Flynn (in italiano da Bollati Boringhieri, Senza alibi); quello di Michael Suk-Young Chwe sull’«uso virtuoso» dei social, ma non quelli di Sherry Turkle sul loro «dark side»; e anche a livello di (science) fiction, consiglia libri come quelli di Iain Banks o di Liu Cixin (apprezzato anche da Obama) che definisce «divertenti» ma che rimuovono totalmente la dimensione distopica (e, di nuovo, critica) del genere; quella dimensione aperta dai classici e dalle avanguardie storiche (Vonnegut e Dick, Bradbury e Ballard) e ripresa oggi come sintomo di un nuovo malessere generazionale (vedi, tra i tanti, il cyberpunk o i libri di Lissa Price). Non a caso, la sintesi è un testo (Orwell’s Revenge di Peter Hubler) in cui si profetizza una tecnologia non più vessatoria ma liberatoria (Internet in primis) a rovesciamento simmetrico del pessimismo lucido di 1984.
Sia chiaro: qui non si tratta ovviamente di pretendere da Zuckerberg qualcosa di diverso dal filo-capitalismo embedded del tutto naturale in un a.d. come lui; un capitalismo che oltretutto - come nella migliore tradizione americana - è connotato da spinte filantropiche e donazioni non solo autopromozionali. Si tratta, semplicemente, di un problema di sensibilità culturale, o - se il termine non suonasse anacronistico - esistenziale: il sottotesto dell’elenco sembra in questo più vicino a Renzi che a Obama, a un’idea di futuro più efficientista che comunitaria, per certi versi anaffettiva. È come se da quel sottotesto - e più in generale dalla visione che Zuckerberg condivide con tanti colleghi o politici - fossero state espunte tutte quelle parole («solitudine», «emarginazione», «disagio», «disperazione», fino all’impronunciabile «suicidio», che pure riguarda tanti imprenditori o giovani precari) da stipare nei libri tristi di certa sociologia, se non da tenere ben nascoste, come i degenti di un manicomio. E l’altra faccia di questa rimozione è il diffondersi di una versione rinnovata dell’illusione dell’«opportunità per tutti»: vedi lo «Stay hungry, stay foolish» di Jobs, tanto più derisorio in un Occidente (America inclusa) in cui la mobilità sociale è sempre più ridotta, e l’«uno» che ce la fa ha come contrappunto fuoriscena milioni di esclusi.
Sarebbe bastato poco. Inserire nell’elenco, a esempio, un libro di Kafka (un romanzo, o solo un racconto, o solo un apologo) o uno di Orwell, quello vero. Tutto sarebbe risultato meno freddo; o, almeno, più credibile.

VAN GOGH

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