sabato 18 febbraio 2017

Russia

Klemens von Metternich considerava il volubile zar Alessandro I «troppo debole per vere ambizioni, ma troppo forte per la pura vanità». Con quella descrizione, sembra che il cancelliere austriaco abbia in realtà tratteggiato più l’anima eterna della Russia che l’anima transitoria di uno dei suoi leader — sempre capricciosi, proprio perché alla testa di un Paese perennemente sospeso tra inaccessibili ambizioni e azzardate vanità. Come molti suoi più energici predecessori, Vladimir Putin maschera da un paio di decenni le debolezze del suo Paese con l’instancabile esibizione di una prorompente vanità: il mondo, estasiato o impensierito, si lascia distrarre dalla seconda al punto di ignorare le prime. È così che la Russia si trova ad essere il fenomeno politico probabilmente più sopravvalutato del XXI secolo.
Eppure, gli handicap strutturali russi sono noti. E non da oggi. Nel 1900, il contrammiraglio americano Alfred Mahan notava che l’«irrimediabile lontananza della Russia dai mari aperti» la pone in una «posizione svantaggiosa per l’accumulazione della ricchezza». I suoi 37.653 chilometri di coste, infatti, sono bloccati dal ghiaccio per gran parte dell’anno, facendone un Paese virtualmente senza sbocchi sul mare. Con serio pregiudizio per il suo sistema economico: secondo l’«Economist», il prodotto pro capite dei Paesi senza accesso al mare sarebbe in media più basso degli altri del 40% .
Si tratta del più importante handicap strutturale russo, ma non del solo. Alla morsa del freddo (più della metà del Paese è coperta di neve sei mesi l’anno, la temperatura media annua di quasi tutta la Siberia non supera gli zero gradi, e quella della maggior parte della Russia europea non supera i cinque) si aggiungono le vaste aree desertiche, i fiumi lontani tra loro e non navigabili, le enormi distanze (undici fusi orari), lo squilibrio demografico tra la parte europea e quella asiatica, e così via. La storia della Russia si avviluppa in un inesorabile circolo vizioso, in cui i vincoli geografici impediscono il decollo economico, e il mancato decollo economico non permette di avere la meglio sui vincoli geografici. Si potrebbe dire che tutta la sua storia è storia di lotte per domare la geografia, con qualche sporadico successo e molte severe sconfitte.
È la storia che Putin ha ereditato. Una storia zavorrata, nel suo caso, dagli anni catastrofici seguiti alla dissoluzione dell’Urss, fino ai problemi dei giorni nostri: il crollo del prezzo del petrolio, lo scivolone del rublo e le sanzioni economiche. Secondo il Fondo monetario internazionale, il Pil russo è passato dagli oltre 2.200 miliardi di dollari del 2013 ai 1.200 dello scorso anno, facendo scendere il Paese dall’ottava posizione tra le potenze economiche alla tredicesima, dietro non solo all’Italia e al Brasile, ma anche a Spagna e Corea del Sud. Nello stesso periodo, il prodotto pro-capite è passato da 14.500 dollari a meno di novemila. Secondo il sito Gazeta.ru, i russi in grado di mettere da parte un po’ di risparmi sono scesi dal 72% della popolazione nel 2012 al 27% nel 2016.
Nonostante tutto, la popolarità del presidente continua in patria a navigare indefettibilmente intorno all’80% fin dai giorni dell’intervento in Crimea, ed è in costante crescita all’estero: secondo YouGov/ Economist poll, tra gli elettori repubblicani americani la sua popolarità è aumentata di 56 punti tra luglio 2014 e dicembre 2016, e nella classe politica mondiale il suo fan club conta sempre nuovi adepti, tra ammiratori e aspiranti imitatori.

La sopravvalutazione della Russia, beninteso, non è nata con Putin. Anzi, non è mai stata tanto sopravvalutata come all’epoca dell’Urss quando, per opposte ragioni ideologiche e pratiche, sostenitori e avversari ne enfatizzavano la forza. Ma chi se ne occupava professionalmente conosceva i fatti: gli «inventori» del containment (la strategia americana di contenimento dell’influenza di Mosca), Nicholas Spykman e George Kennan, non credevano alla minaccia sovietica; e ancora nel marzo 1976, alla vigilia di una corsa al riarmo giustificata dal «pericolo rosso», Henry Kissinger segnalava al suo governo che «le debolezze e le frustrazioni del sistema sovietico sono lampanti e sono state chiaramente documentate».
Dove nasce allora la sopravvalutazione della Russia in generale e di Putin in particolare? Lo schema della Guerra fredda si applica anche ad altri periodi, compreso il nostro: con la sua sola forza, la Russia non può alterare gli equilibri internazionali, ma può essere decisiva nell’aiutare altri a farlo. Come si evince da una lettera di Eisenhower a Churchill del 1954, la posta in gioco in Vietnam non era un eventuale (e insensato) espansionismo russo, quanto la possibilità che l’Urss offrisse al Giappone una sponda per staccarsi dall’alleanza obbligata con gli Stati Uniti. Per consolidare il suo schieramento, Washington doveva ingigantire la minaccia russa (col risultato, non trascurabile, di accreditarne lo statuto di superpotenza). Anche oggi, il peso della Russia può tornare utile, ora agli uni ora agli altri; agitarne lo spauracchio può servire a tagliare le gambe a un eventuale avversario. Come ha sintetizzato a dicembre David Filipov sul «Washington Post», «il suo successo dipende dal fatto che altri Paesi le permettono di aver successo».
La costante popolarità interna di Putin è stata invece spiegata con la tradizionale resilienza del popolo russo, aduso tanto a soffrire i rigori di una geografia e di regimi inclementi quanto a compensare la miseria materiale con la soddisfazione morale di veder appagato l’orgoglio nazionale. Dopo le cocenti (e a volte gratuite) umiliazioni subite negli anni successivi al crollo dell’Urss, Putin ha saputo coltivare magistralmente il ritorno di fervore patriottico, culminato con l’annessione della Crimea e mantenuto incandescente proprio dalla facilità con cui il resto del mondo si lascia ammaliare dalla vanità russa. E qui si torna al nocciolo della questione: non erano le ambizioni russe a preoccupare Metternich, ma i rischi legati alla «pura vanità». Fin dove possa spingersi una Russia infatuata di se stessa è difficile a dirsi. Finché le «sofferenze economiche crescenti» del popolo glielo consentiranno, come suggerisce Filipov, o ben al di là, usando quelle sofferenze come prova dello strangolamento esterno e quindi come elemento di coesione interna?

Alla scuola degli uomini (e delle donne) forti — oggi vincenti sui mercati elettorali — l’Abc consiste nel saper scaricare le proprie magagne sulle spalle di un nemico, invariabilmente straniero, e delle sue quinte colonne in patria. «La Russia», ha scritto Kissinger, «ha sempre preferito il rischio della sconfitta al compromesso»; e anche in questo, Putin può essere un eccellente caposcuola.

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