Domenica 29 gennaio 2017
Processo a Lenin (Putin assolto)
Sergio Romano-Luciano Canfora-Antonio Carioti - La Lettura
Cent’anni fa, nel marzo 1917, sull’onda delle ripetute sconfitte nella guerra contro Germania e Austria-Ungheria, cade in Russia la monarchia zarista: è la svolta che, per la differenza tra il calendario occidentale e quello ortodosso (indietro di 13 giorni) viene chiamata Rivoluzione di Febbraio. Ma la spinta decisiva viene impressa agli eventi in aprile, con il ritorno dall’esilio di Lenin, che schiera il partito bolscevico, ala estrema del socialismo marxista (i riformisti si chiamavano menscevichi), contro il governo provvisorio borghese, chiedendo che la guerra cessi e tutto il potere passi ai soviet, consigli di base dei lavoratori e dei soldati. Da quella scelta e dalla successiva Rivoluzione d’Ottobre (7 novembre per il nostro calendario) nascerà il primo Stato comunista. È uno dei casi in cui una singola personalità gioca un ruolo cruciale nella storia. Ma come giudicare oggi l’opera di Lenin?
SERGIO ROMANO – È indiscutibile l’importanza del «fattore Lenin» nella vicenda rivoluzionaria. Tutto cambia quando lui scende dal treno alla stazione Finlandia di Pietrogrado. Infatti ha le idee molto chiare, a cominciare dal problema della pace: per completare la rivoluzione bisogna uscire subito dalla guerra. Lenin dà prova di una straordinaria spregiudicatezza. Ha un debito con la Germania, che gli ha permesso di attraversare il suo territorio per tornare in patria dalla Svizzera, e lo paga subito: prima sabota lo sforzo bellico e poi, una volta al potere, accetta un trattato di pace umiliante per la Russia. Il secondo punto del suo programma è mettere fuori gioco non tanto le forze borghesi, ma i compagni di cordata nell’avventura rivoluzionaria: gli anarchici, i menscevichi e soprattutto i socialisti rivoluzionari (Sr), eredi del populismo russo, che godono di un notevole seguito nelle campagne. All’Assemblea Costituente, eletta nel novembre 1917, gli Sr sono in netta maggioranza rispetto ai bolscevichi. E Lenin scioglie l’Assemblea, manda a casa i costituenti, sostenendo che i veri organi rivoluzionari sono i soviet, da lui controllati. In una prima fase si allea con i socialisti rivoluzionari di sinistra (minoritari nel partito), ma poi loro si ribellano alla pace con i tedeschi e i bolscevichi li liquidano.
Per dei patrioti russi il trattato di Brest-Litovsk del marzo 1918 è duro da digerire.
SERGIO ROMANO – Invece Lenin applica tutte le clausole, fornisce anche grano al Reich affamato. D’altronde è convinto che la Germania, per l’economia progredita e la forza della classe operaia, sia destinata a essere il Paese guida della rivoluzione mondiale. Ed è un realista brutale. Una volta al potere, per stroncare la borghesia, le forze controrivoluzionarie e gli altri partiti socialisti, crea subito la Ceka: la polizia segreta che – guarda caso – è diventata la struttura portante della Russia postsovietica. Tuttora i suoi eredi del Fsb (ex Kgb) festeggiano la nascita della Ceka e brindano al suo primo capo, Feliks Dzeržinskij. Lenin dimostra grande abilità durante la rivoluzione, nel prendere il potere e mantenerlo nel corso della guerra civile, ma va giudicato anche per il dopo, per la costruzione del nuovo Stato. Quali sono i suoi meriti? A mio avviso sono inferiori a quelli di Stalin, vero creatore dell’Urss. Lenin naviga alla giornata, nel 1921 fa concessioni al mercato e ai contadini con la Nuova politica economica (Nep), per salvare la Russia dalla fame. Ma la costruzione della potenza sovietica comincia nel 1929, quando Stalin vara il primo piano quinquennale.
LUCIANO CANFORA – Vorrei tornare sul ruolo della personalità nella storia. I grandi eventi sono legati alle condizioni oggettive, ma anche alle capacità dei protagonisti. Il fondatore della socialdemocrazia russa Georgij Plechanov (a lungo maestro di Lenin) criticava la teoria paleomarxista per cui le leggi dell’economia conducono automaticamente al crollo del capitalismo. Aveva una visione antimeccanicista, quasi attivista, poi ripresa dai bolscevichi. Secondo me è utile il paragone con la rivoluzione francese, che si svolse a tappe come quella russa. Nel 1789 Maximilien Robespierre, futuro uomo simbolo, è una figura di secondo piano. Appare sul proscenio il 10 agosto 1792, quando il re Luigi XVI viene deposto e imprigionato, ma diventa protagonista solo con un’operazione simile allo scioglimento della Costituente da parte di Lenin: l’arresto dei deputati girondini, suoi avversari, il 2 giugno 1793. Poi si afferma come leader unico, eliminando oppositori di destra e sinistra. Lenin è simile a Robespierre per la crescita progressiva del suo ruolo durante la rivoluzione.
Però ci sono anche grosse differenze. Robespierre dura poco e finisce ghigliottinato.
LUCIANO CANFORA – Certo. Un altro elemento che li distingue nettamente è la posizione verso la guerra. Aleksandr Solženitsyn, nel libro Lenin a Zurigo, descrive il leader bolscevico quasi entusiasta per l’inizio del primo conflitto mondiale. Ciò mi fa venire in mente un articolo di Giuseppe Mazzini comparso nel 1854, allo scoppio della guerra di Crimea: se i popoli non sono indegni della libertà, scriveva, ora devono cogliere l’opportunità rivoluzionaria offerta dal conflitto. Lenin nel 1914, inconsapevolmente, ripercorre le orme di Mazzini, diversificandosi dal semplice pacifismo della sinistra socialista, che rifiuta la guerra in quanto tale. Robespierre invece nel 1792 si schiera contro la guerra: i popoli, dice, non amano i missionari armati, che esportano le idee con la forza. Non si rende conto che la rivoluzione sarà accelerata dal conflitto. Invece Lenin ha un’intuizione, chiamiamola pure «mazziniana», che si rivela esatta: è il protrarsi del conflitto che in Russia porta alla caduta dello zar e destabilizza i regimi borghesi anche nel resto d’Europa. Poi Lenin insiste per la presa del potere, nonostante la perplessità dei suoi stessi compagni bolscevichi. Quando Lev Kamenev e Grigorij Zinoviev esprimono il loro dissenso su un giornale non di partito, Lenin è durissimo, li bolla come crumiri. E gli eventi gli danno ragione, dato che l’insurrezione del 7 novembre è abbastanza indolore, assomiglia sul piano tecnico a un colpo di Stato, come osserverà più tardi Curzio Malaparte.
SERGIO ROMANO – L’atteggiamento volontaristico, che vede nella guerra la premessa della rivoluzione, avvicina Lenin a Mussolini. Tra loro vi era un’ammirazione reciproca.
LUCIANO CANFORA – Sì, certo. Sotto Mussolini l’Italia è tra i primi Paesi occidentali a riconoscere la Russia bolscevica e stabilisce con Mosca rapporti così amichevoli da suscitare una protesta di Antonio Gramsci verso i sovietici. Nei successivi colloqui con Emil Ludwig, editi nel 1932, Mussolini ammette che ci sono analogie tra il suo regime e quello sovietico, pur sottolineando le differenze: «Noi – osserva – abbiamo messo il capitalismo sotto controllo, mentre loro lo hanno abrogato. Noi abbiamo subordinato il partito allo Stato e loro hanno fatto il contrario». Poi tra i due regimi ci sarà una divaricazione lancinante, ma sarebbe poco serio non tenere conto dei punti di contatto. Del resto Gramsci a Mosca, nell’agosto 1922, paragona i fascisti agli Sr russi, il che equivale a riconoscere, pur disapprovandola, la vocazione rivoluzionaria di Mussolini.
SERGIO ROMANO – Non a caso nel 1936 il Partito comunista d’Italia in esilio rivolgerà un appello ai fascisti di sinistra, i «fratelli in camicia nera».
LUCIANO CANFORA – Un altro dato interessante è la libertà di Lenin statista rispetto al dogmatismo ideologico. Alla morte di Stalin, il 6 marzo 1953, il fondo non firmato del «Corriere della Sera» definisce Lenin «genio universale». Mi pare una lode eccessiva: comunque esprime una preferenza rispetto a Stalin, al quale si riconoscono meriti come statista e non come teorico. Di certo in Lenin troviamo una disinvoltura quasi eterodossa nell’interpretare la dottrina marxista. In un’intervista del 1919 dichiara: «Io faccio in questo momento un’esperienza di comunismo. Essa è riuscita in parte, ma in molti punti è fallita. Davanti a questi risultati io non intendo fare violenza ai fatti. Se Marx si è sbagliato, bisogna riscrivere Il Capitale». Fa capire che stava già pensando alla Nep, che poi introdurrà nel 1921. Inoltre sa imparare dal fallimento dei moti rivoluzionari europei, dall’Ungheria alla Baviera, fino alla sconfitta subita dall’Armata rossa nel 1920 davanti a Varsavia. Nel suo ultimo articolo, datato marzo 1923, scrive: «Abbiamo perso in Occidente e dobbiamo guardare all’Asia, coalizzarci con i nazionalismi orientali per aggirare le potenze capitaliste. Ma per farlo, aggiunge, dobbiamo consolidare il potere sovietico. Qui c’è già in embrione la linea del «socialismo in un solo Paese», che Stalin applicherà dopo la morte del suo maestro, scomparso nel 1924. Lo storico Isaac Deutscher scrive nel 1953 che Lenin morì presto, ma se fosse vissuto avrebbe compiuto le stesse scelte del suo successore. Non c’è dubbio a mio avviso che Stalin sia l’autentico erede di Lenin, con tutto il rispetto per la personalità e la cultura del suo rivale Trotsky.
Avete notato entrambi che Lenin è poco vincolato ai sacri testi del marxismo. Ma ciò non deriva anche da influenze della cultura russa? Si pensi al volontarismo dell’anarchico Mikhail Bakunin, o al progetto, perseguito dallo zar Pietro il Grande, di attuare una modernizzazione dall’alto sulla spinta di un forte potere centrale.
SERGIO ROMANO – L’impronta russa sicuramente c’è. Ma non darei molta importanza al rapporto con il pensiero volontarista anarchico. Penso piuttosto che Lenin sia stato influenzato dal contesto in cui si era formato. La Russia o si governa dal centro o non si governa. E il leader bolscevico ne era consapevole. Il tentativo di fare della Russia uno Stato davvero federale, con forti autonomie, venne compiuto negli anni Novanta da Boris Eltsin, ma con esiti fallimentari. I governatori delle singole entità territoriali volevano trattenere in sede locale tutto il gettito fiscale, il che avrebbe impedito la sopravvivenza dello Stato centrale. E a quel punto è arrivato Vladimir Putin per restaurare l’autorità di Mosca sul resto del Paese.
LUCIANO CANFORA – L’idea che il populismo e l’anarchismo russo abbiano influenzato la formazione di Lenin è stata sostenuta da Vittorio Strada nella sua lunga e utile prefazione all’edizione Einaudi del Che fare?, testo centrale nel pensiero del leader bolscevico. Il prefatore tra l’altro concludeva con un inno a Lenin e alla sua opera, definita fondamentale per chiunque aspiri a cambiare il mondo in meglio. Io però non sono del tutto d’accordo nel ritenere la tradizione nazionale russa decisiva nel pensiero di Lenin, anche se ovviamente ognuno è figlio dell’ambiente in cui si forma. In lui c’è un richiamo occidentalistico costante, perché vede nella Germania l’esempio da imitare: sognava di sommare il socialismo all’efficienza guglielmina, ma si scontra con la realtà della Russia, dove è difficile trapiantare il modello tedesco. A me pare che il sistema sovietico risentisse piuttosto di un’eredità più remota, quella dell’Impero bizantino. Lo ha messo in luce Aleksandr Každan, storico russo poi emigrato negli Stati Uniti. Il suo libro sull’aristocrazia bizantina mostra come il reclutamento della classe dirigente fosse analogo a quello praticato in Urss: contava la fedeltà politica, ma c’era anche una componente non trascurabile di meritocrazia, con rapide ascese di individui capaci e altrettanto improvvise cadute degli stessi, se finivano in disgrazia presso l’imperatore. D’altronde la macchina statale zarista ereditata dai bolscevichi non scompare, viene assorbita sulla base di un’accettazione di fedeltà politica.
SERGIO ROMANO – Senza dubbio il centralismo autoritario di Lenin è una ragione del successo bolscevico in Russia, ma anche della frattura provocata da quegli eventi nella sinistra europea. Rosa Luxemburg, che pure è tra i fondatori del comunismo tedesco, polemizza a più riprese con Lenin, anche per il suo ritorno in patria con l’aiuto del governo imperiale di Berlino. La rivoluzione russa segna uno spartiacque ideologico che divide la sinistra e la rende molto più debole di quanto avrebbe potuto essere.
LUCIANO CANFORA – La prima rottura avviene però nel 1914, quando la Spd tedesca vota i crediti di guerra, quindi sceglie la patria e non l’Internazionale socialista, che di conseguenza va in pezzi. Ciò induce Lenin a credere che la socialdemocrazia sia perdente e la rivoluzione abbia la strada aperta. Ma quando si vota in Germania, a guerra finita, la Spd risulta di gran lunga il partito più forte: un risultato che induce il leader bolscevico ad accentuare la polemica verso le «aristocrazie operaie», a suo dire corrotte dalle provvidenze concesse dallo Stato borghese. La successiva campagna staliniana contro il «socialfascismo» si riallaccia a questa idea per cui la socialdemocrazia è nemica della rivoluzione.
SERGIO ROMANO – La prima vittima dei comunisti, in qualsiasi Paese vadano al potere, sono i socialisti. O li inglobano in un partito unitario diretto da loro, o li mettono al bando.
Veniamo all’attualità. Putin, ex ufficiale del Kgb, è senza dubbio un leader di ascendenza sovietica, ma ama richiamarsi al passato zarista. È almeno in parte ancora viva, nella Russia di oggi, l’eredità di Lenin?
SERGIO ROMANO – Credo che l’assillo di Putin sia ricostituire la continuità della storia russa. I momenti di rottura, gli eventi che rendono meno scorrevole il grande fiume, lo preoccupano. In tutti i Paesi europei, dopo le lacerazioni interne del XX secolo, è arrivato il momento in cui la nuova generazione ha condannato i suoi padri, riesumando ciò che era stato nascosto. Lo abbiamo visto nel 1968 in Italia e in Germania, molti anni dopo in Spagna con la riapertura del dibattito sulla guerra civile. Io ho sempre pensato che quel momento sarebbe arrivato anche per la Russia, che si sarebbe aperto un processo a chi aveva creduto nel comunismo accettando il terrore staliniano. Invece non è accaduto. E non è accaduto perché Putin è stato molto bravo: ha evitato tutto ciò che avrebbe potuto ridestare una guerra civile culturale nel Paese e ha conservato tutto ciò che poteva rafforzare il sentimento di una continuità mai veramente interrotta. Perciò la salma di Lenin resta nel mausoleo sulla piazza Rossa, ma è come se non ci fosse. Di lui non ci si ricorda, non lo si cita, perché rappresenta la rottura rivoluzionaria. Invece Putin ha usato Stalin, che, benché responsabile delle grandi purghe, è pur sempre il vincitore della guerra contro i nazisti. Un fatto che lo rende prezioso per il prestigio della Russia. Putin non accetterà mai che sia sminuito il ruolo di Stalin. Lenin è più ingombrante e credo che il Cremlino non sappia che farsene.
LUCIANO CANFORA – Il mausoleo di Lenin equivale a quello di Mao a Pechino. L’attuale classe dirigente cinese ha cambiato completamente rotta rispetto al maoismo, eppure gli rende omaggio. Perché – come scrisse Pietro Nenni nei suoi diari, concludendo un fervido elogio di quel leader – Mao è «un gigante della storia nazionale della Cina». Le rivoluzioni sono destinate tutte ad essere archiviate, a volte anche demonizzate. Quella francese fu recuperata solo un secolo dopo il suo scoppio, la figura di Robespierre ancora più tardi. Ma resta il fatto che le rivoluzioni sono tappe fondamentali nella modernizzazione dei Paesi in cui si producono. Ciò è valso in modo evidente per la Cina, uscita da una condizione che rasentava la servitù coloniale fino a ergersi come grande potenza. Qualcosa di analogo è avvenuto per la Russia. Perfino al Messico la rivoluzione ha dato una forma statale stabile, che prima non aveva. Per questo nessuno può liberarsi dell’opera di Lenin, perché è un capitolo del processo che ha trasformato la Russia nella potenza moderna che attualmente è. I fondamenti ideologici del bolscevismo sono stati sacrificati, ma l’effetto storico della rivoluzione dura nel tempo.
Quindi gli eventi del 1917 sono soprattutto una tappa della storia russa?
LUCIANO CANFORA – Non solo. Le grandi rivoluzioni avviano anche processi mondiali. L’Ancien Régime finisce in tutta Europa a causa della rivoluzione francese, nonostante la sconfitta di Napoleone. Nel caso russo invece l’effetto storico è la decolonizzazione. La vittoria di Lenin innesca i nazionalismi attraverso la conferenza di Baku del 1920, dove Zinoviev lancia un forte appello ai popoli oppressi dell’Oriente. Le potenze capitaliste hanno reagito con il neocolonialismo e di recente anche in modo più brutale, con le operazioni che hanno distrutto l’Iraq, la Siria e la Libia. Insomma la grande partita iniziata nel 1917, che non si è ancora conclusa, riguarda l’emancipazione dei mondi dipendenti, alla quale l’Occidente si oppone con tutte le sue forze. Purtroppo, mentre un tempo a contrastare l’imperialismo erano forze di orientamento nazionalista e vagamente socialista, oggi sono in prevalenza gruppi di matrice fondamentalista islamica incolti, oscurantisti e feroci.
SERGIO ROMANO – Non bisogna sopravvalutare la conferenza di Baku: è una mossa tattica escogitata da Lenin per rompere l’accerchiamento delle potenze capitaliste e indebolirle, ma senza una strategia per esportare davvero il socialismo nei Paesi colonizzati. Perciò era quasi inevitabile che quell’appello finisse per risvegliare nazionalismi e tradizioni identitarie religiose. Piuttosto dobbiamo chiederci dov’è Lenin nell’attuale società russa. E siccome parliamo di un Paese assai poco liberale, in cui il governo agisce per indirizzare gli studi e l’opinione pubblica, dobbiamo constatare che Lenin è stato dimenticato. Sono convinto che molti studiosi russi scriverebbero su di lui, se questo piacesse al regime, ma non avviene. C’è un silenzio che colpisce. E tuttavia, ogni volta che si parla di eliminare un monumento a Lenin, si levano proteste. La discussione sull’opportunità di trasferirne la salma a San Pietroburgo, nella tomba di famiglia, si è risolta con un nulla di fatto.
LUCIANO CANFORA – Ancora nel 2000 risultava da un sondaggio che i russi consideravano Lenin l’uomo del secolo. Ma da allora sono passati 17 anni e in un certo senso è proprio il regime di Putin che, valorizzando Stalin, deprime Lenin. Non dimentichiamo poi che l’apertura alla Chiesa ortodossa e alla tradizione zarista possono ancora convivere con Stalin, ma non con Lenin, che ordinò il massacro della famiglia reale russa e scatenò una lotta frontale contro la religione.
SERGIO ROMANO – Secondo me Putin è convinto che una discussione su Lenin dividerebbe i russi. E quindi è meglio evitare di farla. Su Stalin è più facile mettersi d’accordo.
LUCIANO CANFORA – Lo aveva capito lo storico tedesco Arthur Rosenberg, che presentava l’opera di Stalin come la torsione nazionale della rivoluzione russa. Un tempo quel giudizio faceva inorridire gli ortodossi di sinistra, oggi sembra quasi filosovietico. Ma semplicemente esprime una verità storica.
SERGIO ROMANO – È indiscutibile l’importanza del «fattore Lenin» nella vicenda rivoluzionaria. Tutto cambia quando lui scende dal treno alla stazione Finlandia di Pietrogrado. Infatti ha le idee molto chiare, a cominciare dal problema della pace: per completare la rivoluzione bisogna uscire subito dalla guerra. Lenin dà prova di una straordinaria spregiudicatezza. Ha un debito con la Germania, che gli ha permesso di attraversare il suo territorio per tornare in patria dalla Svizzera, e lo paga subito: prima sabota lo sforzo bellico e poi, una volta al potere, accetta un trattato di pace umiliante per la Russia. Il secondo punto del suo programma è mettere fuori gioco non tanto le forze borghesi, ma i compagni di cordata nell’avventura rivoluzionaria: gli anarchici, i menscevichi e soprattutto i socialisti rivoluzionari (Sr), eredi del populismo russo, che godono di un notevole seguito nelle campagne. All’Assemblea Costituente, eletta nel novembre 1917, gli Sr sono in netta maggioranza rispetto ai bolscevichi. E Lenin scioglie l’Assemblea, manda a casa i costituenti, sostenendo che i veri organi rivoluzionari sono i soviet, da lui controllati. In una prima fase si allea con i socialisti rivoluzionari di sinistra (minoritari nel partito), ma poi loro si ribellano alla pace con i tedeschi e i bolscevichi li liquidano.
Per dei patrioti russi il trattato di Brest-Litovsk del marzo 1918 è duro da digerire.
SERGIO ROMANO – Invece Lenin applica tutte le clausole, fornisce anche grano al Reich affamato. D’altronde è convinto che la Germania, per l’economia progredita e la forza della classe operaia, sia destinata a essere il Paese guida della rivoluzione mondiale. Ed è un realista brutale. Una volta al potere, per stroncare la borghesia, le forze controrivoluzionarie e gli altri partiti socialisti, crea subito la Ceka: la polizia segreta che – guarda caso – è diventata la struttura portante della Russia postsovietica. Tuttora i suoi eredi del Fsb (ex Kgb) festeggiano la nascita della Ceka e brindano al suo primo capo, Feliks Dzeržinskij. Lenin dimostra grande abilità durante la rivoluzione, nel prendere il potere e mantenerlo nel corso della guerra civile, ma va giudicato anche per il dopo, per la costruzione del nuovo Stato. Quali sono i suoi meriti? A mio avviso sono inferiori a quelli di Stalin, vero creatore dell’Urss. Lenin naviga alla giornata, nel 1921 fa concessioni al mercato e ai contadini con la Nuova politica economica (Nep), per salvare la Russia dalla fame. Ma la costruzione della potenza sovietica comincia nel 1929, quando Stalin vara il primo piano quinquennale.
LUCIANO CANFORA – Vorrei tornare sul ruolo della personalità nella storia. I grandi eventi sono legati alle condizioni oggettive, ma anche alle capacità dei protagonisti. Il fondatore della socialdemocrazia russa Georgij Plechanov (a lungo maestro di Lenin) criticava la teoria paleomarxista per cui le leggi dell’economia conducono automaticamente al crollo del capitalismo. Aveva una visione antimeccanicista, quasi attivista, poi ripresa dai bolscevichi. Secondo me è utile il paragone con la rivoluzione francese, che si svolse a tappe come quella russa. Nel 1789 Maximilien Robespierre, futuro uomo simbolo, è una figura di secondo piano. Appare sul proscenio il 10 agosto 1792, quando il re Luigi XVI viene deposto e imprigionato, ma diventa protagonista solo con un’operazione simile allo scioglimento della Costituente da parte di Lenin: l’arresto dei deputati girondini, suoi avversari, il 2 giugno 1793. Poi si afferma come leader unico, eliminando oppositori di destra e sinistra. Lenin è simile a Robespierre per la crescita progressiva del suo ruolo durante la rivoluzione.
Però ci sono anche grosse differenze. Robespierre dura poco e finisce ghigliottinato.
LUCIANO CANFORA – Certo. Un altro elemento che li distingue nettamente è la posizione verso la guerra. Aleksandr Solženitsyn, nel libro Lenin a Zurigo, descrive il leader bolscevico quasi entusiasta per l’inizio del primo conflitto mondiale. Ciò mi fa venire in mente un articolo di Giuseppe Mazzini comparso nel 1854, allo scoppio della guerra di Crimea: se i popoli non sono indegni della libertà, scriveva, ora devono cogliere l’opportunità rivoluzionaria offerta dal conflitto. Lenin nel 1914, inconsapevolmente, ripercorre le orme di Mazzini, diversificandosi dal semplice pacifismo della sinistra socialista, che rifiuta la guerra in quanto tale. Robespierre invece nel 1792 si schiera contro la guerra: i popoli, dice, non amano i missionari armati, che esportano le idee con la forza. Non si rende conto che la rivoluzione sarà accelerata dal conflitto. Invece Lenin ha un’intuizione, chiamiamola pure «mazziniana», che si rivela esatta: è il protrarsi del conflitto che in Russia porta alla caduta dello zar e destabilizza i regimi borghesi anche nel resto d’Europa. Poi Lenin insiste per la presa del potere, nonostante la perplessità dei suoi stessi compagni bolscevichi. Quando Lev Kamenev e Grigorij Zinoviev esprimono il loro dissenso su un giornale non di partito, Lenin è durissimo, li bolla come crumiri. E gli eventi gli danno ragione, dato che l’insurrezione del 7 novembre è abbastanza indolore, assomiglia sul piano tecnico a un colpo di Stato, come osserverà più tardi Curzio Malaparte.
SERGIO ROMANO – L’atteggiamento volontaristico, che vede nella guerra la premessa della rivoluzione, avvicina Lenin a Mussolini. Tra loro vi era un’ammirazione reciproca.
LUCIANO CANFORA – Sì, certo. Sotto Mussolini l’Italia è tra i primi Paesi occidentali a riconoscere la Russia bolscevica e stabilisce con Mosca rapporti così amichevoli da suscitare una protesta di Antonio Gramsci verso i sovietici. Nei successivi colloqui con Emil Ludwig, editi nel 1932, Mussolini ammette che ci sono analogie tra il suo regime e quello sovietico, pur sottolineando le differenze: «Noi – osserva – abbiamo messo il capitalismo sotto controllo, mentre loro lo hanno abrogato. Noi abbiamo subordinato il partito allo Stato e loro hanno fatto il contrario». Poi tra i due regimi ci sarà una divaricazione lancinante, ma sarebbe poco serio non tenere conto dei punti di contatto. Del resto Gramsci a Mosca, nell’agosto 1922, paragona i fascisti agli Sr russi, il che equivale a riconoscere, pur disapprovandola, la vocazione rivoluzionaria di Mussolini.
SERGIO ROMANO – Non a caso nel 1936 il Partito comunista d’Italia in esilio rivolgerà un appello ai fascisti di sinistra, i «fratelli in camicia nera».
LUCIANO CANFORA – Un altro dato interessante è la libertà di Lenin statista rispetto al dogmatismo ideologico. Alla morte di Stalin, il 6 marzo 1953, il fondo non firmato del «Corriere della Sera» definisce Lenin «genio universale». Mi pare una lode eccessiva: comunque esprime una preferenza rispetto a Stalin, al quale si riconoscono meriti come statista e non come teorico. Di certo in Lenin troviamo una disinvoltura quasi eterodossa nell’interpretare la dottrina marxista. In un’intervista del 1919 dichiara: «Io faccio in questo momento un’esperienza di comunismo. Essa è riuscita in parte, ma in molti punti è fallita. Davanti a questi risultati io non intendo fare violenza ai fatti. Se Marx si è sbagliato, bisogna riscrivere Il Capitale». Fa capire che stava già pensando alla Nep, che poi introdurrà nel 1921. Inoltre sa imparare dal fallimento dei moti rivoluzionari europei, dall’Ungheria alla Baviera, fino alla sconfitta subita dall’Armata rossa nel 1920 davanti a Varsavia. Nel suo ultimo articolo, datato marzo 1923, scrive: «Abbiamo perso in Occidente e dobbiamo guardare all’Asia, coalizzarci con i nazionalismi orientali per aggirare le potenze capitaliste. Ma per farlo, aggiunge, dobbiamo consolidare il potere sovietico. Qui c’è già in embrione la linea del «socialismo in un solo Paese», che Stalin applicherà dopo la morte del suo maestro, scomparso nel 1924. Lo storico Isaac Deutscher scrive nel 1953 che Lenin morì presto, ma se fosse vissuto avrebbe compiuto le stesse scelte del suo successore. Non c’è dubbio a mio avviso che Stalin sia l’autentico erede di Lenin, con tutto il rispetto per la personalità e la cultura del suo rivale Trotsky.
Avete notato entrambi che Lenin è poco vincolato ai sacri testi del marxismo. Ma ciò non deriva anche da influenze della cultura russa? Si pensi al volontarismo dell’anarchico Mikhail Bakunin, o al progetto, perseguito dallo zar Pietro il Grande, di attuare una modernizzazione dall’alto sulla spinta di un forte potere centrale.
SERGIO ROMANO – L’impronta russa sicuramente c’è. Ma non darei molta importanza al rapporto con il pensiero volontarista anarchico. Penso piuttosto che Lenin sia stato influenzato dal contesto in cui si era formato. La Russia o si governa dal centro o non si governa. E il leader bolscevico ne era consapevole. Il tentativo di fare della Russia uno Stato davvero federale, con forti autonomie, venne compiuto negli anni Novanta da Boris Eltsin, ma con esiti fallimentari. I governatori delle singole entità territoriali volevano trattenere in sede locale tutto il gettito fiscale, il che avrebbe impedito la sopravvivenza dello Stato centrale. E a quel punto è arrivato Vladimir Putin per restaurare l’autorità di Mosca sul resto del Paese.
LUCIANO CANFORA – L’idea che il populismo e l’anarchismo russo abbiano influenzato la formazione di Lenin è stata sostenuta da Vittorio Strada nella sua lunga e utile prefazione all’edizione Einaudi del Che fare?, testo centrale nel pensiero del leader bolscevico. Il prefatore tra l’altro concludeva con un inno a Lenin e alla sua opera, definita fondamentale per chiunque aspiri a cambiare il mondo in meglio. Io però non sono del tutto d’accordo nel ritenere la tradizione nazionale russa decisiva nel pensiero di Lenin, anche se ovviamente ognuno è figlio dell’ambiente in cui si forma. In lui c’è un richiamo occidentalistico costante, perché vede nella Germania l’esempio da imitare: sognava di sommare il socialismo all’efficienza guglielmina, ma si scontra con la realtà della Russia, dove è difficile trapiantare il modello tedesco. A me pare che il sistema sovietico risentisse piuttosto di un’eredità più remota, quella dell’Impero bizantino. Lo ha messo in luce Aleksandr Každan, storico russo poi emigrato negli Stati Uniti. Il suo libro sull’aristocrazia bizantina mostra come il reclutamento della classe dirigente fosse analogo a quello praticato in Urss: contava la fedeltà politica, ma c’era anche una componente non trascurabile di meritocrazia, con rapide ascese di individui capaci e altrettanto improvvise cadute degli stessi, se finivano in disgrazia presso l’imperatore. D’altronde la macchina statale zarista ereditata dai bolscevichi non scompare, viene assorbita sulla base di un’accettazione di fedeltà politica.
SERGIO ROMANO – Senza dubbio il centralismo autoritario di Lenin è una ragione del successo bolscevico in Russia, ma anche della frattura provocata da quegli eventi nella sinistra europea. Rosa Luxemburg, che pure è tra i fondatori del comunismo tedesco, polemizza a più riprese con Lenin, anche per il suo ritorno in patria con l’aiuto del governo imperiale di Berlino. La rivoluzione russa segna uno spartiacque ideologico che divide la sinistra e la rende molto più debole di quanto avrebbe potuto essere.
LUCIANO CANFORA – La prima rottura avviene però nel 1914, quando la Spd tedesca vota i crediti di guerra, quindi sceglie la patria e non l’Internazionale socialista, che di conseguenza va in pezzi. Ciò induce Lenin a credere che la socialdemocrazia sia perdente e la rivoluzione abbia la strada aperta. Ma quando si vota in Germania, a guerra finita, la Spd risulta di gran lunga il partito più forte: un risultato che induce il leader bolscevico ad accentuare la polemica verso le «aristocrazie operaie», a suo dire corrotte dalle provvidenze concesse dallo Stato borghese. La successiva campagna staliniana contro il «socialfascismo» si riallaccia a questa idea per cui la socialdemocrazia è nemica della rivoluzione.
SERGIO ROMANO – La prima vittima dei comunisti, in qualsiasi Paese vadano al potere, sono i socialisti. O li inglobano in un partito unitario diretto da loro, o li mettono al bando.
Veniamo all’attualità. Putin, ex ufficiale del Kgb, è senza dubbio un leader di ascendenza sovietica, ma ama richiamarsi al passato zarista. È almeno in parte ancora viva, nella Russia di oggi, l’eredità di Lenin?
SERGIO ROMANO – Credo che l’assillo di Putin sia ricostituire la continuità della storia russa. I momenti di rottura, gli eventi che rendono meno scorrevole il grande fiume, lo preoccupano. In tutti i Paesi europei, dopo le lacerazioni interne del XX secolo, è arrivato il momento in cui la nuova generazione ha condannato i suoi padri, riesumando ciò che era stato nascosto. Lo abbiamo visto nel 1968 in Italia e in Germania, molti anni dopo in Spagna con la riapertura del dibattito sulla guerra civile. Io ho sempre pensato che quel momento sarebbe arrivato anche per la Russia, che si sarebbe aperto un processo a chi aveva creduto nel comunismo accettando il terrore staliniano. Invece non è accaduto. E non è accaduto perché Putin è stato molto bravo: ha evitato tutto ciò che avrebbe potuto ridestare una guerra civile culturale nel Paese e ha conservato tutto ciò che poteva rafforzare il sentimento di una continuità mai veramente interrotta. Perciò la salma di Lenin resta nel mausoleo sulla piazza Rossa, ma è come se non ci fosse. Di lui non ci si ricorda, non lo si cita, perché rappresenta la rottura rivoluzionaria. Invece Putin ha usato Stalin, che, benché responsabile delle grandi purghe, è pur sempre il vincitore della guerra contro i nazisti. Un fatto che lo rende prezioso per il prestigio della Russia. Putin non accetterà mai che sia sminuito il ruolo di Stalin. Lenin è più ingombrante e credo che il Cremlino non sappia che farsene.
LUCIANO CANFORA – Il mausoleo di Lenin equivale a quello di Mao a Pechino. L’attuale classe dirigente cinese ha cambiato completamente rotta rispetto al maoismo, eppure gli rende omaggio. Perché – come scrisse Pietro Nenni nei suoi diari, concludendo un fervido elogio di quel leader – Mao è «un gigante della storia nazionale della Cina». Le rivoluzioni sono destinate tutte ad essere archiviate, a volte anche demonizzate. Quella francese fu recuperata solo un secolo dopo il suo scoppio, la figura di Robespierre ancora più tardi. Ma resta il fatto che le rivoluzioni sono tappe fondamentali nella modernizzazione dei Paesi in cui si producono. Ciò è valso in modo evidente per la Cina, uscita da una condizione che rasentava la servitù coloniale fino a ergersi come grande potenza. Qualcosa di analogo è avvenuto per la Russia. Perfino al Messico la rivoluzione ha dato una forma statale stabile, che prima non aveva. Per questo nessuno può liberarsi dell’opera di Lenin, perché è un capitolo del processo che ha trasformato la Russia nella potenza moderna che attualmente è. I fondamenti ideologici del bolscevismo sono stati sacrificati, ma l’effetto storico della rivoluzione dura nel tempo.
Quindi gli eventi del 1917 sono soprattutto una tappa della storia russa?
LUCIANO CANFORA – Non solo. Le grandi rivoluzioni avviano anche processi mondiali. L’Ancien Régime finisce in tutta Europa a causa della rivoluzione francese, nonostante la sconfitta di Napoleone. Nel caso russo invece l’effetto storico è la decolonizzazione. La vittoria di Lenin innesca i nazionalismi attraverso la conferenza di Baku del 1920, dove Zinoviev lancia un forte appello ai popoli oppressi dell’Oriente. Le potenze capitaliste hanno reagito con il neocolonialismo e di recente anche in modo più brutale, con le operazioni che hanno distrutto l’Iraq, la Siria e la Libia. Insomma la grande partita iniziata nel 1917, che non si è ancora conclusa, riguarda l’emancipazione dei mondi dipendenti, alla quale l’Occidente si oppone con tutte le sue forze. Purtroppo, mentre un tempo a contrastare l’imperialismo erano forze di orientamento nazionalista e vagamente socialista, oggi sono in prevalenza gruppi di matrice fondamentalista islamica incolti, oscurantisti e feroci.
SERGIO ROMANO – Non bisogna sopravvalutare la conferenza di Baku: è una mossa tattica escogitata da Lenin per rompere l’accerchiamento delle potenze capitaliste e indebolirle, ma senza una strategia per esportare davvero il socialismo nei Paesi colonizzati. Perciò era quasi inevitabile che quell’appello finisse per risvegliare nazionalismi e tradizioni identitarie religiose. Piuttosto dobbiamo chiederci dov’è Lenin nell’attuale società russa. E siccome parliamo di un Paese assai poco liberale, in cui il governo agisce per indirizzare gli studi e l’opinione pubblica, dobbiamo constatare che Lenin è stato dimenticato. Sono convinto che molti studiosi russi scriverebbero su di lui, se questo piacesse al regime, ma non avviene. C’è un silenzio che colpisce. E tuttavia, ogni volta che si parla di eliminare un monumento a Lenin, si levano proteste. La discussione sull’opportunità di trasferirne la salma a San Pietroburgo, nella tomba di famiglia, si è risolta con un nulla di fatto.
LUCIANO CANFORA – Ancora nel 2000 risultava da un sondaggio che i russi consideravano Lenin l’uomo del secolo. Ma da allora sono passati 17 anni e in un certo senso è proprio il regime di Putin che, valorizzando Stalin, deprime Lenin. Non dimentichiamo poi che l’apertura alla Chiesa ortodossa e alla tradizione zarista possono ancora convivere con Stalin, ma non con Lenin, che ordinò il massacro della famiglia reale russa e scatenò una lotta frontale contro la religione.
SERGIO ROMANO – Secondo me Putin è convinto che una discussione su Lenin dividerebbe i russi. E quindi è meglio evitare di farla. Su Stalin è più facile mettersi d’accordo.
LUCIANO CANFORA – Lo aveva capito lo storico tedesco Arthur Rosenberg, che presentava l’opera di Stalin come la torsione nazionale della rivoluzione russa. Un tempo quel giudizio faceva inorridire gli ortodossi di sinistra, oggi sembra quasi filosovietico. Ma semplicemente esprime una verità storica.
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