È stato uno dei testi più diffusi del Basso Medioevo. Certamente tra i più tradotti, letti, consultati. Un manuale di politica, di morale, di educazione civile e domestica. Il De regimine principum di Egidio Romano è una di quelle opere che ricorrono continuamente nei saggi di cultura medievale quale monumento imprescindibile, anche se ormai più citato che letto, visto che leggerlo è operazione impervia non essendone disponibile un’edizione moderna.
Ma andiamo con calma. Intanto, Egidio. Teologo e filosofo tra i più prestigiosi nella seconda metà del Duecento, erroneamente assimilato alla famiglia dei Colonna, è comunque originario di Roma, dove nasce tra il 1243 e il 1247 e che lascia ben presto per trasferirsi a Parigi per ragioni di studio. Entrato da giovane nell’ordine degli Agostiniani, è stato probabilmente allievo di Tommaso d’Aquino durante il suo secondo soggiorno parigino (1269-72). Divenuto magister artium nel 1266, dopo qualche anno è già in ascesa nella carriera accademica. Condannato nel 1277 dal vescovo Etienne Tempier nell’ambito della censura contro l’aristotelismo eterodosso (cosiddetto averroista), il frate sarebbe stato precettore del futuro Filippo il Bello regnante suo padre, Filippo l’Ardito: al decenne erede al trono sarà infatti dedicato il trattato De regimine principum, composto tra il 1277 e il 1280.
È un’occasione editoriale di straordinaria importanza che suggerisce di tornare oggi sul De regimine. Si tratta dell’uscita, in edizione critica a cura di Fiammetta Papi (Ets Edizioni di Pisa, «Biblioteca dei volgarizzamenti» diretta da Claudio Ciociola), della più antica traduzione italiana del trattato egidiano (versione, come si vedrà, derivata dalla più antica traduzione francese). Per cogliere esattamente di cosa si tratta, bisogna soffermarsi sulla fortuna editoriale del trattato latino e sulle ragioni profonde di un’opera destinata a diventare pietra miliare nel filone dei cosiddetti specula principis, un genere filosofico-didascalico che arriverà ben oltre Machiavelli. Organizzato in tre libri, il De regimine elabora, come tesi politica di fondo, una teoria monarchica improntata sull’assolutismo di un rex-quasi semideus, cioè un sovrano come mediatore indiscusso tra legge naturale e legge positiva.
Ma quel che conta, in termini più generali, è che si tratta di uno dei primi manuali di comportamento morale e politico basati sulle opere aristoteliche (da poco entrate nel circolo culturale dell’Occidente latino) senza farsene semplice commento espositivo, ma proponendosi come complessa rilettura anche in chiave teologica. Non da ultimo per questa ragione, il libro avrà un seguito impressionante di traduzioni nelle lingue volgari sin dagli immediati dintorni della sua prima comparsa (1280 circa): non volgarizzamenti fedeli, ma versioni che spesso rielaborano il testo autonomamente, togliendo e aggiungendo. Fiammetta Papi, nella sua pregevole Introduzione, offre una sinossi ragionata delle fonti (usate da Egidio anche in modo spericolato) e dei contenuti dell’opera (in sé molto cospicua). Basti qui segnalare che il primo libro, che occupa la metà del totale, si divide in quattro parti: sulla felicità, sulle virtù morali, sulle passioni e sui costumi degli uomini in relazione all’età e allo stato. Seguono un secondo libro sulla donna, il matrimonio, l’educazione dei figli, la gestione della casa, e un terzo sulla natura e l’organizzazione dello Stato, il governo in tempo di pace e in tempo di guerra.
Fatto sta che tutta questa materia così magmatica ha rappresentato, fino al Quattrocento ben inoltrato, un canovaccio mobile utile a scopi e a contesti diversi. Non è solo un «must delle biblioteche principesche» capace di dare sostanza alla coscienza politica della monarchia medievale europea, è anche un compendio di filosofia aristotelica che diviene quasi libro di testo universitario; e si propone inoltre come «specchio» di cavalleria e ausilio per l’ufficio pastorale dei chierici. Sicché, gli studiosi hanno mostrato come il successo incomparabile dell’opera si debba in sostanza alle tre potenti spinte propulsive imposte in contemporanea dall’ordine agostiniano, dall’università di Parigi e dalla corte capetingia. La popolarità del De regimine è poi avvalorata dalla sua «presenza» entro celebri cicli di affreschi, come per esempio la giottesca Cappella degli Scrovegni, le cui fasce laterali di Vizi e Virtù rivelano un «programma etico» particolarmente consonante con la visione egidiana: d’altra parte, è dimostrato che il committente padovano Enrico Scrovegni era in possesso del volgarizzamento. Analoghe affinità emergono osservando l’affresco di Lorenzetti sul Buono e Cattivo Governo nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena.
Questi multiformi interessi e riusi spiegano il rapido proliferare di traduzioni: sei in francese, sei in italiano, altre in castigliano, catalano, portoghese, ebraico, tedesco, fiammingo, inglese, svedese. Prima tra tutte quella in francese commissionata da Filippo l’Ardito a tale Henry de Gauchy nel 1282. È da questa che deriva la più antica versione italiana, opera di un anonimo volgarizzatore, e cioè il Governamento, edito adesso e noto finora grazie a una poco affidabile edizione fiorentina del 1858 a cura di Francesco Corazzini. Data l’importanza culturale del testo, siamo di fronte a un autentico evento editoriale: l’edizione filologica, fondata sul manoscritto più antico (il Nazionale Centrale di Firenze II.IV.129, datato 1288), è la premessa indispensabile per ulteriori approfondimenti (un secondo volume, previsto entro l’anno, conterrà l’analisi linguistica di un testo che è anche prezioso documento in senese antico). Per esempio, sarà importante valutare fino a che punto Dante sia rimasto influenzato dalla versione in volgare, oltre che dall’opera latina. Così come sarà utile indagare i rapporti di interazione tra la cultura alta - latina, curiale, universitaria - e la cultura bassa che, attraverso il procedere più «grosso» delle traduzioni in volgare, provava a divulgare gli stessi contenuti per un pubblico nuovo. Già la filosofia egidiana, «di secondo grado», nasce dall’esigenza di avvicinare il pubblico laico alla principale novità della cultura in corso nella seconda metà del Duecento. Le traduzioni spingono ulteriormente il pedale, aprendo quella materia ribollente e controversa a un pubblico di illetterati che ne faceva un uso più pratico e libero, orientato alla viva attualità del mondo cittadino e mercantile.
Paolo Di Stefano - Corriere della Sera
Paolo Di Stefano - Corriere della Sera
31 gennaio 2017 (modifica il 31 gennaio 2017
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