Gian Antonio Stella per il ''Corriere della Sera''
Per secoli versi affissi ad una statua antica hanno liberato gli umori del popolo. Le verità di Pasquino, dietro il quale si nascondevano autori anonimi, scritte in rima contro i Papi e sberleffi per Napoleone.
«Alessandro sagratino/ or romano e pria d' Urbino,/ tutti i beni della Chiesa/ con ingiuria e con offesa/ e de' poveri e di Dio,/ con pensiero iniquo e rio/ dissipò pria nel bordello,/ come or fa il nipote fello,/ indi in fabbriche ed in ville/ con Faustine e con Camille».
Sapevano essere feroci, le «pasquinate». Come questa scagliata nel Settecento contro il cardinale Alessandro Albani, detto «il sagratino» (sbottava di continuo: «Per Dio sagrato!»), amante delle belle arti, del bel gioco, delle belle donne, che lo storico romano Claudio Rendina, autore di Pasquino statua parlante , bolla come «il porporato più galante e chiacchierato» dei suoi tempi.
I manifesti e il falso «Osservatore Romano» scagliati in questi giorni contro papa Francesco accusato d' esser troppo «aperto» e tirati in ballo qua e là come se ci fosse un filo rosso di collegamento con gli antichi sfoghi di «Pasquino», sia chiaro, sono un' altra faccenda. In comune hanno solo l' anonimato e qualche parola in romanesco.
Fine. Offrono però lo spunto per andare a rileggere pezzi di quella storia. Che Giorgio Manganelli, in un elzeviro sul «Corriere» di tanti anni fa dedicato a due poderosi tomi intitolati Pasquinate romane del Cinquecento , riassumeva come un'«anonima aggressione in versi, scurrile ed impudente, con cui ignoti verseggiatori sfregiavano il nome dei potenti di Roma pontificia».
Generalmente scritti su cartelli appesi nella notte al busto di una statua del III secolo in Piazza di Pasquino, vicino a piazza Navona, che forse rappresentava Menelao, Aiace o Ercole ma a quanto pare prese il nome dal maestro Pasquino di una scuola nelle vicinanze, quei versi satirici e anonimi, scrive Rendina, rappresentavano «una voce "contro", sobillatrice, ma senza fini rivoluzionari»:
«Il sistema non si discute. È la condizione determinante dell' esistenza stessa delle Statue Parlanti e della loro voce. Che è ironica, sarcastica, spudoratamente aperta alla risata maliarda, fino ad apparire oscena nella smitizzazione del potere» ma rientra «nel gioco del potere: e il gioco consiste nel denunciare immoralità e soprusi di chi è ai vertici, per screditarlo e subentrare». Non per altro «sono opera di una miriade di poeti e poetastri, memorialisti e avventurieri della penna che perlopiù scrivono su commissione».
I risultati sono spesso irresistibili.
Come nel caso delle pasquinate più famose. Ad esempio quella dedicata a papa Urbano VIII Barberini: «Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini».
O a Napoleone, reo d' impossessarsi delle opere d' arte altrui per portarle a Parigi. «Marforio: "È vero che i francesi sono tutti ladri?" / Pasquino: "Tutti no, ma BonaParte!"». O alle contese per il talamo di Maria Giovanna de' Medici tra il di lei marito, il principe Sigismondo Chigi, e il cardinale Filippo Carandini che con le sue attenzioni per la donna s' era tirato addosso le ire del cornuto (vero o presunto) fino a spingerlo ad avvelenare il rivale. Avvelenamento fallito e seguito da un clamoroso processo e dalla fuga: «Se Carandini non sfuggia al veleno/ ed al capestro non sfuggiva Chigi,/ due malfattori vi sarian di meno».
Non mancano, in tempi più vicini, esempi di pasquinate meritevoli di citazione. Come quella sprezzante di Trilussa dedicata a Corso Rinascimento, aperto nel '38 squarciando gli antichi rioni: «Se questo è il corso del Rinascimento/ ogni aborto diventa un lieto evento». O quella che lo stesso anno un anonimo vergò per la visita a Roma, tra pompose scenografie imperiali, di Adolf Hitler: «Povera Roma mia de travertino/ te sei vestita tutta de cartone/ pe' fatte rimira' da 'n imbianchino/ venuto da padrone!».
L' epoca d' oro, però, resta quella a cavallo tra Cinquecento e Settecento.
Quando lo sberleffo più irrispettoso si spinse al punto di costare il collo a Niccolò Franco, scrittore e avventuriero beneventano, segretario di Pietro Aretino, che dopo una serie di pasquinate contro il cardinale Carlo Carafa fu impiccato a Castel Sant' Angelo per aver passato ogni limite in un cartello affisso a una latrina fatta fare dal Papa: «Pio V, avendo compassione/ per tutto quel che si ha sullo stomaco/ eresse come opera nobile questo cacatoio».
Troppo anche per una satira dove la volgarità era assai diffusa. E in qualche modo tollerata. Basti citare le pasquinate su Olimpia Maidalchini, meglio nota come Donna Olimpia Pamphilj, detta «la Pimpaccia», donna ambiziosissima e traffichina che riuscì a imporsi come «la Papessa» al fianco di Innocenzo X: «Olimpia: Olim pia, nunc impia», Olimpia, un tempo pia: ora empia.
Amante delle belle arti, oltre che del lusso e del potere, fu in qualche modo la «madrina» della scelta del Papa di affidare a Lorenzo Bernini la realizzazione della Fontana dei Quattro Fiumi sovrastata dall' obelisco di Diocleziano. Opera meravigliosa ma, a leggere certi sfoghi sui muri, contestatissima dal popolino: «Noi volemo altro che guglie e fontane:/ pane volemo, pane, pane, pane!». Invettiva successivamente «ritoccata» da Pasquino: «Santo Padre non più puttane!/ Pane, pane, pane, pane!».
Un odio che si sarebbe tradotto al decesso di Innocenzo in nuove maledizioni: «È morto il pastore,/ la vacca ci resta;/ facciamole 'a festa,/ cavatele il core./ È morto il pastore». Nessuna pietà. E nessun riguardo per la figura, spesso ammaccata, di tanti figuri saliti al soglio pontificio.
Dice tutto la pasquinata su Pio VI, messo sullo stesso piano di Alessandro VI: «Per raggiro di nobile ruffiana,/ primo ministro eletto fu di Stato;/ otre di vino, Apicio effeminato,/ disonor della porpora romana./ Senna tripudi e al nuovo candidato/ cittadinanza invii repubblicana./ Ma Pietro esclama, pensieroso e mesto:/ Povera Roma in braccio a un altro Sesto!».
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