venerdì 24 febbraio 2017

I 23 libri di Zuckerberg

Io, che ho letto tutti e 23 i libri della lista di Zuckerberg, vi spiego come funziona la testa di mister Facebook

Mark è un lettore bulimico, ma con metodo e un’idea di fondo: che per comprendere la «forma» del contemporaneo come Rete dinamica e incessantemente ridisegnata, le aree di intersezione tra i saperi contino più dei saperi separati. Ma ecco cosa manca




A colpire d’impatto, nell’«elenco» di Zuckerberg, è la coerenza totale rispetto alla sua identità e alla sua parabola. Zuckerberg è infatti un polivalente da sempre: alla Ardsley High School eccelle nelle humanities, nel passaggio alla Phillips Exeter Academy soprattutto in materie scientifiche; e se da un lato è nota la sua passione divorante per le lingue classiche (con l’abitudine di citare a memoria versi dall’Iliade o dall’Eneide, anche nei brainstorming aziendali), dall’altro lo è il percorso ferreo che lo porterà alla creazione (controversa) di Facebook: i software analizzati fin dalle medie, gli studi di informatica (e psicologia) ad Harvard, la conquista precoce dei vertici delle classifiche delle «persone più influenti» (come quella di Vanity Fair dedicata a guru dell’ «età dell’informazione»). In definitiva, una propensione/formazione interdisciplinare che spiega letture così onnivore, anzi bulimiche.
Una bulimia in cui, però, c’è del metodo; perché le connessioni che ne derivano (tra cultura umanistica e scientifica, tra mondo antico-classico e attuale) sono decisive soprattutto in rapporto alla sua visione del mondo: in particolare, in rapporto all’idea che per comprendere la «forma» del contemporaneo come Rete dinamica e incessantemente ridisegnata, le aree di intersezione tra i saperi contino sempre più dei saperi separati.
Zuckerberg ha compreso cioè che nella società liquida capire vuol dire in primo luogo integrare: che è impossibile spiegare le società globali senza risalire alla loro genesi evolutiva (al «tempo profondo» della biologia e alla storia di Homo, da cui il libro di Harari); che le svolte tecno sono spesso incomprensibili senza quelle concettuali che le precedono o le accompagnano (da cui l’accostamento tra la storia dei Bell Labs e del transistor e un libro sui «mutamenti di paradigma» come quello di Thomas Kuhn); e che, più in generale - altra cerniera - è ormai risibile mantenere il diaframma tra scienze naturali e umane e per esteso tra «innato» e «appreso», «biologico» e «ambientale», «natura» e «cultura» dei processi psicologici e sociali (da cui la coesistenza tra il Matt Ridley di Genoma e il classico di William James sulle «varietà dell’esperienza religiosa»).
Fino a qui, l’«elenco» è quindi un’istruttiva guida metodologica prima ancora che un insieme di testi da leggere e/o consultare; un orientamento utile ed efficace non solo per i coetanei di Zuckerberg, ma anche per lettori/fruitori di generazioni precedenti (come mostra, del resto, l’inclusione di libri come L’ordine mondiale di Kissinger, in effetti un libro già classico, qualunque cosa si pensi sulle ambiguità politiche - eufemismo - dell’autore). Un orientamento particolarmente necessario per l’Italia, dove a lungo (e in parte ancora adesso) sacche di resistenza vetero-umanistica hanno contrastato proprio l’integrazione delle discipline.
Diverso il discorso se ci si sposta sul piano critico, con rilievi di due ordini. Quello più lieve riguarda la scelta dei libri singoli. Ricordato il taglio soggettivo della scelta stessa (di Zuckerberg e/o del suo think tank), molti sono infatti quelli opinabili in quanto a importanza gerarchica, a densità e profondità degli argomenti, a completezza e aggiornamento (pur tenendo conto che la lista è del 2015).
Si possono fare vari esempi.Il Muqaddimah di Ibn Khaldun (1377) è importante e sintomatico per la «visione del mondo» islamica, specie nell’ottica di risalire a una sorta di «pre-illuminismo» globale; ma forse sarebbe ancora più decisivo arretrare di qualche decennio fino a Ibn Taymiyyah, il contemporaneo di Dante che resta tutt’oggi - anche per le forzature ideologiche cui è stato sottoposto - l’antefatto di riferimento del salafismo e di tutto l’islamismo radicale fino a Al Qaeda e all’Isis.
Oppure, è encomiabile riesumare il grande William James per dare una spiegazione «naturalistica» alla pulsione trascendente. Ma il libro è del 1902: perché non ricorrere a testi di neurofisiologia e neurobiologia in chiave evoluzionistica, che rispondono alle stesse domande con strumenti e concetti molto più precisi e analitici (Pascal Boyer, Scott Atran, Michael Shermer o il nostro Franco Fabbro)?
E ancora, quanto alle basi genetiche dell’esperienza (comportamento, patologie fisiche e psichiche, e così via), il pur solido testo di Ridley è del 1999; nel settore, un’era fa, tanto da fargli preferire molti testi successivi e più aggiornati (già che ci siamo, consigliamo quello recentissimo di Siddharta Mukherjee, The Gene, appena tradotto per Mondadori).
Il rilievo critico più marcato, invece, riguarda il sottotesto «ideologico» dell’elenco, (o post-ideologico, ma anche la dimensione post-ideologica ha tratti ideologici). Tutto è ben riassunto nel titolo dell’altro libro di Ridley, L’ottimista razionale; libro che mostra il costante progresso della specie dal Neolitico a oggi, e che insieme a quello di Steven Pinker sul costante decremento di violenza (sempre sul lunghissimo periodo) comunica una visione costruttiva ma univoca, in cui l’ottimismo stesso (privato del suo controcanto gramsciano: il pessimismo della ragione) disegna un paesaggio dalla luce artificialmente onninvadente, senza ombre né opacità. Fatta eccezione per le «increspature» dei libri sulla discriminazione mediatica dei neri (The New Jim Crow) e sui bassifondi di Chicago (Gang Leader for a Day) - che sembrano inseriti, per la verità, come a raggiungere ogni categoria e target possibile - tutto il resto si salda in perfetta sintonia con quella visione. Lo vediamo nella «cornice» politico-economica, se il pur acuto testo di Acemoglu-Robinson sulle differenze di reddito e benessere tra popoli e nazioni viene inquadrato in una sorta di «neutralità» descrittiva di fondo (la stessa dei libri di alti esponenti dell’establishment quali lo stesso Kissinger e il Segretario del Tesoro di Bush junior, Paulson); e se del bravissimo Moisés Naim viene suggerito un libro (La fine del potere) che enfatizza le possibilità dell’individuo nelle società liberali e non il più scomodo e abrasivo Illecito, magistrale reportage su quel traffico nero composito (droga, armi, uomini) che con la contraffazione dei marchi va a comporre un decimo del mercato complessivo.
E lo vediamo in tanti altri aspetti specifici. Zuckerberg cita il libro di Vaclav Smil sulle energie alternative, decisive nel quadro del «global warming», ma non libri di denuncia come quello - magistrale e tutt’altro che apocalittico - di un maestro come James Flynn (in italiano da Bollati Boringhieri, Senza alibi); quello di Michael Suk-Young Chwe sull’«uso virtuoso» dei social, ma non quelli di Sherry Turkle sul loro «dark side»; e anche a livello di (science) fiction, consiglia libri come quelli di Iain Banks o di Liu Cixin (apprezzato anche da Obama) che definisce «divertenti» ma che rimuovono totalmente la dimensione distopica (e, di nuovo, critica) del genere; quella dimensione aperta dai classici e dalle avanguardie storiche (Vonnegut e Dick, Bradbury e Ballard) e ripresa oggi come sintomo di un nuovo malessere generazionale (vedi, tra i tanti, il cyberpunk o i libri di Lissa Price). Non a caso, la sintesi è un testo (Orwell’s Revenge di Peter Hubler) in cui si profetizza una tecnologia non più vessatoria ma liberatoria (Internet in primis) a rovesciamento simmetrico del pessimismo lucido di 1984.
Sia chiaro: qui non si tratta ovviamente di pretendere da Zuckerberg qualcosa di diverso dal filo-capitalismo embedded del tutto naturale in un a.d. come lui; un capitalismo che oltretutto - come nella migliore tradizione americana - è connotato da spinte filantropiche e donazioni non solo autopromozionali. Si tratta, semplicemente, di un problema di sensibilità culturale, o - se il termine non suonasse anacronistico - esistenziale: il sottotesto dell’elenco sembra in questo più vicino a Renzi che a Obama, a un’idea di futuro più efficientista che comunitaria, per certi versi anaffettiva. È come se da quel sottotesto - e più in generale dalla visione che Zuckerberg condivide con tanti colleghi o politici - fossero state espunte tutte quelle parole («solitudine», «emarginazione», «disagio», «disperazione», fino all’impronunciabile «suicidio», che pure riguarda tanti imprenditori o giovani precari) da stipare nei libri tristi di certa sociologia, se non da tenere ben nascoste, come i degenti di un manicomio. E l’altra faccia di questa rimozione è il diffondersi di una versione rinnovata dell’illusione dell’«opportunità per tutti»: vedi lo «Stay hungry, stay foolish» di Jobs, tanto più derisorio in un Occidente (America inclusa) in cui la mobilità sociale è sempre più ridotta, e l’«uno» che ce la fa ha come contrappunto fuoriscena milioni di esclusi.
Sarebbe bastato poco. Inserire nell’elenco, a esempio, un libro di Kafka (un romanzo, o solo un racconto, o solo un apologo) o uno di Orwell, quello vero. Tutto sarebbe risultato meno freddo; o, almeno, più credibile.

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