Verso la fine del XIV secolo, si era diffusa, a Firenze, l’abitudine di celebrare l’Epifania con un sontuoso corteo di re Magi. Alla guida della sfilata c’erano i Medici: in primo luogo Cosimo, «il gran mercante», astuto, sottile, generoso con gli amici, impietoso con i nemici, come scrive Giulio Busi nel bel libro: Lorenzo de’ Medici, pubblicato da Mondadori. Lorenzo, figlio di Piero e nipote di Cosimo, nacque il 1° gennaio 1449: ma non venne portato subito al fonte battesimale: si attese il 6 gennaio, con l’arrivo dei Magi. Quando, qualche anno dopo, fu completato il Palazzo Medici di via Larga, Benozzo Gozzoli dipinse nella cappella privata una colorita cavalcata di Magi: tra la folla si distinguevano i ritratti di Cosimo, di Piero, di Giovanni — e Lorenzo ragazzo, con gli occhi astutissimi.
Il 10 dicembre 1468 Lorenzo sposò Clarice Orsini, senza conoscerla: tra i bambini allevati in casa sua c’erano due futuri Papi, Leone X (suo figlio) e Clemente VII (orfano del fratello Giuliano). Nella giostra del 1469 il suo vessillo venne preparato da Andrea del Verrocchio: sull’insegna brillava il sole e sotto l’arcobaleno, con scritto: Le temps revient «il tempo ritorna». Il 2 dicembre 1469 il padre morì, e il giorno successivo una delegazione di notabili si presentò a Palazzo Medici, pregandolo di assumere il ruolo di Cosimo e del padre. L’ambasciatore di Milano scrisse: «Vedo quello giovane a uno perfectissimo camino». Lorenzo aveva trovato il suo segno. Le temps revient riprendeva le parole della quarta bucolica di Virgilio: «Redeunt Saturnia regnat... surget gens aurea mundo». Il tempo ritornava: ritornava l’età di Saturno, l’età dell’oro; e lui sarebbe stato il primo nell’immenso svolgimento delle cose umane.
Ormai il carattere di Lorenzo era definito. Nessuno, forse, lo descrisse meglio di Angelo Poliziano, suo grandissimo amico: «Era così versatile ed acuto, che là dove gli altri eccellono in una singola cosa, egli in tutte egualmente si distingueva». Marsilio Ficino insisteva: ci sono tre vite, quella contemplativa, quella attiva e quella voluttuosa: ci sono tre strade verso la felicità, la saggezza, la potenza e il piacere; e Lorenzo le percorreva tutte, ricevendo la saggezza da Pallade, la potenza da Giunone, la grazia, la poesia e la musica da Venere. Nelle Notti attiche, Aulo Gellio aveva ricordato un motto dell’imperatore Augusto: festina lente, «affrettati lentamente», che raccomandava una combinazione di rapidità e di pazienza, di audacia e di controllo. Il motto ebbe grande fortuna nel Rinascimento: nessuno, forse, lo conobbe e, per così dire, lo esaurì meglio di Lorenzo. Gli umanisti avevano appreso da Platone un altro motto: serio ludere, «giocare seriamente»: nelle Metamorfosi Apuleio aveva parlato dei più profondi misteri con tocchi fatui e leggeri; e Ficino aveva scritto: «Iocari serio, et studiosissime ludere». Lettore di Apuleio e amico di Ficino, Lorenzo avrebbe certo sottoscritto con gioia e compiacimento queste parole che ispirarono tutta la sua esistenza.
Le sue moltissime lettere sono mutevoli e imprevedibili: come doveva essere imprevedibile e mutevole la sua conversazione, che seduceva e incantava tutti coloro che lo ascoltavano. Amava l’amicizia. «La società e compagnia delli uomini l’uno con l’altro — scrisse — dalla natura fu ordinata acciò che tutte le comodità necessarie alla vita umana, che non si possono trovare in uno solo se abbino da molti». «Non si leggerà su lui — scrisse Guicciardini — una difesa bella d’una città, non un’espugnazione notabile di un luogo forte, non uno stratagemma in uno conflitto, e una vittoria sugli inimici... ma bene si troverà in lui tutti quegli segni e indizi di virtù, che si possono considerare e apparire in una vita civile».
Lorenzo inseguiva il bene della città, cercando sempre di favorire la propria famiglia. Coltivava il segreto: aveva una vita modesta: era inafferrabile: ora diceva di non potersi occupare della banca, preso com’era dagli affari pubblici; ora sosteneva che non si poteva occupare della Signoria di Firenze perché la banca l’assorbiva. Galeazzo Sforza lo invitò a farsi signore di Firenze: ma egli preferì una strategia più morbida. Come diceva un inviato di Galeazzo, «Egli segue pace, ché in vero bisogna andarci saviamente et non violenter né troppo in fretta». Usava il danaro come leva politica, e la politica come leva economica. Dubitava, temporeggiava, criticava ogni certezza: cercava compromessi, se non felici, almeno sopportabili.
Durante la prima parte del suo governo, Lorenzo de’ Medici conobbe una serie di congiure, che volevano rovesciarlo ed ucciderlo: egli reagì con cautela e violenza. Nella primavera del 1470 Bernardo Nardi cercò di impadronirsi, a Prato, del Palazzo del Podestà: ma Lorenzo gli fece tagliare la testa. Nella primavera del 1477 Francesco Salviati, arcivescovo di Pisa, Giovambattista da Montesecco, il banchiere Francesco de’ Pazzi e Girolamo Riario volevano «mutar lo stato di Firenze», con l’appoggio del Papa Sisto IV. Lorenzo non aveva paura delle insidiationes sebbene Giovanni Tornabuoni lo mettesse sull’avviso: «Abbi l’occhio al fatto dello stato tuo, che si sente assai disegni strani».
Il 26 aprile 1478, a Santa Maria del Fiore, Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini circondarono Giuliano de’ Medici, l’atterrarono, lo crivellarono di colpi, lo uccisero. Antonio Maffei e Stefano Bagnone riuscirono soltanto a ferire al collo Lorenzo, che si avvolse il mantello attorno al braccio raggiungendo la sagrestia, mentre Angelo Poliziano chiudeva le porte di bronzo. Sulla piazza i sostenitori di Lorenzo uccisero i congiurati: Francesco de’ Pazzi venne impiccato alle finestre del Palazzo della Signoria insieme all’arcivescovo di Pisa; il cadavere dell’arcivescovo fu fatto cadere dall’alto, e rimase sfracellato a terra, con gli abiti vescovili, per un giorno intero. Tutti i membri della famiglia dei Pazzi furono imprigionati o impiccati: o ebbero il naso mutilato e le orecchie tagliate. La città era tappezzata di morti.
Presto il governo di Lorenzo rimase quasi senza rivali. Alfonso di Calabria, prima comandante dell’esercito antimediceo, gli scrisse: «Lorenzo mio multo caro et multo amato». Lorenzo si imbarcò a Pisa, per andare a Napoli. Quando, il 16 marzo 1480, ritornò a Firenze, scrisse: «Questo poco di tempo che io sono stato a Firenze, ho tutto consumato in logorare le mani et le gote in fare convenevoli, ché non è huomo in questa terra, di che conditione si sia, che non sia venuto a tocharmi le mani et baciarmi». Il sultano Mehmet II gli consegnò l’uccisore di Giuliano, Bernardo Bandini. Ai piedi del capestro Leonardo da Vinci schizzava e annotava, descrivendo il vestito di Bandini, deciso a non perdere nemmeno un particolare della veste del morto: «Berettino di tane, farsetto di raso nero, giupba turchina foderata, calze nere».
Lorenzo finì di sistemare il Palazzo Medici di via Larga: la sala al pian terreno veniva indicata come la sua chamera; ai muri c’erano tre Battaglie e il Giudizio di Paride di Paolo Uccello, la Caccia del Pesellino e tre grandi quadri di Antonio Pollaiolo, che rappresentavano le fatiche d’Ercole. Lorenzo diceva di lui: «Antonio è il principale maestro di questa città, e forse per avventura non ve ne fu mai l’eguale». Aprì l’Accademia, che nel 1489 diventò una vera scuola, nel giardino di via Larga, vicino al Palazzo Mediceo e al convento di San Marco. Aveva l’idea di un museo all’aria aperta: un luogo di riposo e di piacere, animato da opere antiche, insieme galleria e gabinetto di studio.
Lorenzo amava le ville medicee fuori Firenze, Poggio a Caiano e Careggi. La villa di Poggio a Caiano era una delle sedi dell’Accademia neoplatonica: a Careggi i membri della «famiglia platonica» si raccoglievano il 7 novembre, data immaginaria della nascita e della morte di Platone. In tutta la vita Lorenzo ebbe la nostalgia delle dimore bucoliche; e dedicò ogni cura al giardino di Careggi. Ne fece una specie di parco botanico, con «il pallido ulivo», sacro a Minerva, il mirto sacro a Venere, la quercia sacra a Giunone. Doveva essere il luogo dell’otium philosophicum. Tutto stava sotto il segno della ninfa del luogo, Ambra, alla quale Lorenzo dedicò una favola.
Amava i cammei: comprò uno dei cammei più grandi e belli che ci siano giunti dal mondo ellenistico: da un lato c’era la Medusa, e dall’altro una Sfinge, con dèi, eroi, giovani nudi. Prediligeva le cosiddette arti minori: «Tutti quelli che volevano renderglisi graditi gli offrivano delle medaglie preziose e lavorate, delle pietre, e tutto ciò che avesse un sapore antico da tutte le parti del mondo». Faceva lavorare soprattutto i bronzisti, i medaglieri, gli intarsiatori, i decoratori. Aveva tutti gli egoismi del collezionista e dell’amatore; e voleva completare la raccolta di antichità e di oggetti preziosi lasciata da Cosimo. Mise le mani sul gabinetto di medaglie di Papa Paolo II: aveva agenti dovunque; e Galeazzo Sforza affermava con invidia che tutti gli oggetti più nobili del mondo erano affluiti a Firenze. Solo più tardi Lorenzo si interessò di mosaici: avrebbe voluto rivestire di mosaici le vele della cappella di san Zanobi, trasformando Firenze in una nuova Venezia.
Lorenzo non era geloso dei suoi artisti, che esportava a maggior gloria di Firenze. Nel 1482 mandò a Milano Leonardo, che lasciò in tronco l’Epifania e scrisse: «I Medici mi crearono e mi distrussero». Inviò Botticelli, Ghirlandaio, Pollaiolo e Filippino Lippi a Roma; Verrocchio a Venezia; Giuliano da Maiano, Luca Fancelli e Giuliano da Sangallo a Napoli; Andrea Sansovino a Giovanni II, re del Portogallo. Le risorse di Firenze sembravano inesauribili: Lorenzo si preoccupava di inviare gli artisti fuori Firenze piuttosto che occuparli in città; e i prìncipi e i prelati stranieri attribuivano un grandissimo peso al suo giudizio in fatto d’arte.
Nel dicembre 1490 Tribaldo de’ Rossi, un commerciante fiorentino, voleva conoscere il principe-mercante che governava Firenze da casa sua, a un tempo superiore ed accessibile. Lorenzo passeggiò insieme a Tribaldo fino al monastero di san Nicolò di Cafaggiolo. Vorremmo sapere — ma non lo sapremo mai — cosa si dissero. Sappiamo soltanto che in quegli anni, Lorenzo era oppresso dalle cure di Stato: «Sempre — scriveva — ho travagliato senza ghustare mai una hora di riposo». «Sono stracho habbiatemi per excusato». Nell’aprile 1492 si ammalò: per venti giorni non lesse la posta; i medici lo invitavano «a mitigare quel suo umore malinconico». Camminava per casa, «passando dolcemente tempo»: fece addirittura il progetto di un grande convito, per onorare la vestizione del figlio Giovanni a cardinale. Si affacciò dalla finestra, «colla capperuccia in capo», per assistere al passaggio delle maschere.
L’8 aprile 1492, alle quattro di notte, Lorenzo morì di uricemia ereditaria, nella villa di Careggi. Due medici, inviati dalle corti di Milano e di Napoli, cercarono invano di salvarlo. Il medico Pier Leone da Spoleto si uccise gettandosi in un pozzo. Come racconta Poliziano, Lorenzo lo chiamò e gli chiese, «con molta dolcezza», di Pico della Mirandola. «Io, se non temessi che questo lungo viaggio gli pesasse desidererei vederlo, e parlargli per l’ultima volta, prima di lasciarvi per sempre». Pico venne e si sedette: anche Poliziano sedette ai ginocchi di Lorenzo per ascoltare più facilmente la sua voce che si andava spegnendo. Quando entrò nella stanza Girolamo Savonarola, Lorenzo gli chiese la benedizione. «E chinando la testa e il volto — racconta Poliziano — ed atteggiando entrambi a grande pietà, rispondeva alle sue parole e pregava secondo il rito, per niente turbato dal dolore dei familiari. Avresti detto che la morte pesava su tutto, non su Lorenzo. Così egli solo fra tutti, non dava segno alcuno di dolore, di agitazione e di affanno, conservando fino all’ultimo la forza d’animo abituale, la fermezza, l’equilibrio, la dignità. A tal punto si mantenne forte fino all’ultimo, da scherzare sulla propria morte… Alla fine guardò fissamente un crocifisso d’argento, splendidamente ornato di perle e di gemme, lo baciò e morì».
La morte di Lorenzo colpì e spaventò l’Italia. «Fu denotata questa morte — scrisse Guicciardini — come di momento grandissimo da molti presagi: era apparita poco innanzi la cometa, erasi udito urlare lupi: una donna di Santa Maria Novella infuriata aveva gridato che un bue con le corna di fuoco ardeva la città; eransi azzuffati insieme alcuni leoni, e uno bellissimo era stato morto dagli altri».
Bibliografia
Il libro di Giulio Busi Lorenzo de’ Medici. Una vita da Magnifico (Mondadori, pagine 366, euro 25) è una biografia che si snoda per date, dalla nascita del signore di Firenze (gennaio 1449) alla sua scomparsa (aprile 1492). Sulle complesse vicende del casato fiorentino Newton Compton ha pubblicato un saggio di Marcello Vannucci, I Medici. Una famiglia al potere (pagine 511, euro 9,90), e una trilogia di romanzi storici firmati da Matteo Strukul: I Medici. Una dinastia al potere (pagine 382, euro 9,90); I Medici. Un uomo al potere (pagine 376, euro 9,90) ; I Medici. Una regina al potere (pagine 374, euro 9,90). Da segnalare sullo stesso argomento anche il libro di Umberto Dorini I Medici. Storia di una famiglia (Odoya, pagine 448, euro 12,90) e quello di Marcello Simonetta Volpi e leoni. I Medici, Machiavelli e la rovina d’Italia (Bompiani, pagine 427, euro 19).
13 febbraio 2017 (modifica il 13 febbraio 2017
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