giovedì 30 marzo 2017

Wilson e Trump


Wilson tradito da Trump



di Giovanni Bernardini - La Lettura 
Il nome di Woodrow Wilson, ventottesimo presidente degli Stati Uniti, è soprattutto associato all’intervento americano nella Prima guerra mondiale del 6 aprile 1917. L’obiettivo proclamato da Wilson, che rimase alla Casa Bianca dal 1913 al 1921, era trasformare il conflitto nella «guerra che doveva mettere fine a tutte le guerre» e in una pace «senza vincitori né vinti», con la creazione di un sistema multilaterale di relazioni internazionali volto a trasferire i futuri conflitti dal piano militare a quello giuridico. I suoi «14 punti» dovevano disegnare un’Europa nuova, sulla base dei principi di autodeterminazione dei popoli, di libertà commerciale e di abolizione della diplomazia segreta, per concludere con la creazione di una Società delle Nazioni come garante di «indipendenza politica e integrità territoriale tanto per i grandi Stati quanto per i piccoli». A cent’anni dalla scelta che avrebbe cambiato le sorti del XX secolo, ne discutiamo con Manfred Berg, americanista e professore dell’Università di Heildelberg (Germania), che ha appena pubblicato il volume Woodrow Wilson. Amerika und die Neuordnung der Welt («Woodrow Wilson. L’America e il nuovo ordine mondiale»).
Qual era il retroterra culturale e politico di Wilson? Da dove nascevano i suoi progetti di riordino delle relazioni internazionali?
«Sia il padre che il nonno paterno di Wilson erano sacerdoti presbiteriani. Crebbe dunque in un ambiente caratterizzato dalla tradizione calvinista. Fortemente religioso egli stesso, Wilson era convinto di essere uno strumento di Dio. Sebbene dimostrasse spesso e volentieri un’alta considerazione di sé, sgradevole per alcuni, non corrispondeva al “teocrate” tratteggiato dai suoi detrattori. Le sue idee di “patto” tra le nazioni avevano certo radici protestanti, ma risultavano attraenti anche per molte persone estranee a influenze calviniste. Nato nel 1856, Wilson crebbe nel Sud degli Stati Uniti all’indomani della Guerra civile. Questo ne faceva un democratico “per nascita”, ma non un fautore del mito eroico sudista (la cosiddetta Lost Cause ). Certamente dava per scontata la supremazia bianca: era un razzista per i nostri standard, ma all’epoca le sue opinioni razziali corrispondevano a quelle dominanti. Wilson era un intellettuale: prima di entrare in politica, era stato professore di Storia e rettore dell’Università di Princeton. Da governatore del New Jersey e poi da presidente, Wilson fu un riformatore progressista i cui risultati (creazione della Federal Reserve, leggi antitrust, ecc.) sono ampiamente riconosciuti. Tuttavia, prima del 1914 non aveva nutrito progetti di riforma delle relazioni internazionali: il suo programma di internazionalismo liberale fu essenzialmente una risposta ai disastri della Grande guerra».

Wilson resta discusso: un’icona per chi crede nel multilateralismo, un ingenuo ideologo per chi lo accusa di pericolose velleità. Qual è il suo giudizio?
«Dobbiamo fare attenzione a non cadere negli stereotipi che vogliono Wilson come un ingenuo idealista. Piuttosto, era per molti versi un realista e certamente un nazionalista che tenne sempre d’occhio gli interessi degli Stati Uniti. Eppure era fortemente convinto che il vecchio sistema europeo della politica di potenza avesse condotto all’abisso della Prima guerra mondiale e che dovesse lasciare il passo a un nuovo ordine mondiale fondato sulla sicurezza collettiva, l’uguaglianza delle nazioni, l’autodeterminazione, la democrazia e il libero commercio. Perseguì questi obiettivi con determinazione, ma non fu in grado di riconoscere i compromessi a cui era obbligato. La sua grande tragedia fu il rigetto della Società delle Nazioni da parte del Senato Usa: una tragedia però da imputare largamente allo stesso Wilson, incapace di accettare le riserve espresse dall’opposizione. E tuttavia dubito che la partecipazione statunitense alla Società delle Nazioni avrebbe prevenuto la Seconda guerra mondiale».
L’allora primo ministro francese Georges Clemenceau accusò Wilson di «candore»; il premier britannico David Lloyd George, evocando l’idealismo di Wilson e il nazionalismo di Clemenceau, dichiarò più tardi di essersi trovato a disagio «tra Gesù Cristo e Napoleone». Come si può distinguere tra ideologia e concretezza nella retorica wilsoniana? Quanto realmente credeva nell’applicabilità dei suoi principi?
«Le battute di Lloyd George e Clemenceau sono divertenti, ma non dobbiamo cedere alle caricature interessate. Fondamentalmente gli alleati non condividevano la fede di Wilson nella Società delle Nazioni come futura garante della pace mondiale. Essi furono piuttosto costretti ad adattarsi, dato che gli Stati Uniti erano il principale attore della conferenza di pace di Versailles. Inoltre, Wilson era estremamente popolare presso le popolazioni dei Paesi alleati: al suo arrivo in Europa fu salutato come un messia da milioni di persone. Semmai, una simile accoglienza fece credere a Wilson di rappresentare davvero l’interesse dell’umanità. Per quanto mi riguarda, non ho dubbi che credesse fermamente alla propria retorica».
Parte della storiografia riconduce l’impegno wilsoniano alla necessità di contrastare un altro forte disegno ideologico: quello della rivoluzione bolscevica, che a suo modo voleva «porre fine a tutte le guerre». Secondo lei esiste una correlazione così stretta?
«Si tratta certamente di un’interpretazione influente ma a mio parere esagerata, poiché tende a proiettare la logica della guerra fredda in retrospettiva. Pur diffidando dei bolscevichi, Wilson non si impegnò in alcuna crociata contro di essi. I suoi “14 punti” contenevano persino delle avance al nuovo regime al fine di mantenere in guerra la Russia. Wilson era anche riluttante a concordare con i propositi alleati di intervento diretto e in ogni caso il coinvolgimento statunitense nella guerra civile russa rimase limitato. Ritengo anche fuorviante ritrarre Wilson e Lenin come veri rivali negli anni tra il 1917 e il 1919. Il primo era il leader del Paese più potente del mondo, con un programma che dominava l’agenda internazionale. Lenin era un rivoluzionario il cui successo appariva molto incerto e che avrebbe potuto concludere la sua vita davanti a un plotone d’esecuzione. Wilson temeva che povertà e indigenza accrescessero l’attrazione europea per il bolscevismo, ma era pur sempre convinto che il modello liberale avrebbe prevalso».

A molti l’avvento di Trump sembra segnare la chiusura di un secolo di interventismo statunitense nel mondo e soprattutto l’accantonamento della «relazione speciale» tra Usa ed Europa. Qual è la sua opinione?
«Certamente Donald Trump abbraccia una tradizione politica fortemente contraria all’internazionalismo liberale di ascendenza wilsoniana. Wilson riteneva che il sistema statunitense di capitalismo liberal-democratico fosse un modello per il mondo e che gli Stati Uniti dovessero fornire la leadership necessaria ad assicurare un ordine mondiale fondato su principi “americani”. Al pari dei critici nazionalisti di Wilson, Trump ritiene che gli Stati Uniti debbano preservare la sovranità assoluta e perseguire i propri interessi nazionali senza prendere impegni vincolanti. Tuttavia il nazionalismo di Trump non significa necessariamente che gli Stati Uniti diventeranno spettatori isolazionisti della politica mondiale. Trump vede le relazioni internazionali come un gioco a somma zero, nel quale gli Usa devono necessariamente rimanere l’attore più forte, in grado di dominare unilateralmente e, se necessario, con mezzi militari. Trump non ha alcuna particolare vocazione a perseguire buone relazioni tra Europa e Stati Uniti, ha dichiarato il proprio disprezzo per l’Unione Europea e preferirebbe certamente trattare con ogni Paese europeo singolarmente. Apparentemente è ignaro delle ragioni sia politiche che economiche per cui gli Usa hanno promosso l’integrazione europea dopo la Seconda guerra mondiale».
Per concludere, non può sfuggire la coincidenza che sia uno storico tedesco a parlare oggi di Wilson. D’altro canto lei fa parte di una generazione che più di altre ha avuto l’opportunità di vivere e lavorare negli Stati Uniti. Ritiene che ciò abbia avuto un’influenza nel modo in cui lei analizza passaggi fondamentali di storia degli Usa, e in particolare la vicenda di Wilson?

«Ovviamente faccio parte di una generazione formata dalla convinzione che la Germania debba rimanere fermamente ancorata alla tradizione politica occidentale e all’Alleanza atlantica. Durante la prima parte del XX secolo, l’ignoranza della politica, della cultura e della potenza statunitense fu un fattore determinante nelle decisioni delle élite tedesche. Nel libro sostengo che Wilson volesse evitare l’ingresso nella Grande guerra. Le leadership civili e militari tedesche sottovalutarono grossolanamente il potere statunitense e optarono per la guerra sottomarina illimitata all’inizio del 1917, lasciando Wilson senza alternative. Sostengo anche che Wilson non «tradì» i tedeschi alla conferenza di pace, ma che al contrario la Germania beneficiò del suo intervento. Ciò detto, ritengo che sia necessario superare vecchie logiche di accuse reciproche per cercare piuttosto di comprendere come Wilson sia stato una delle figure chiave della storia del XX secolo».


Parte dal 1917 il primato dell’America

di Tiziano Bonazzi - La Lettura
Il 6 aprile 1917 gli Stati Uniti entrarono in guerra a fianco di Francia, Gran Bretagna, Russia e Italia contro gli Imperi centrali, Germania e Austria-Ungheria; ma non lo fecero come alleati, bensì come «potenza associata», una differenza linguistica e giuridica che sottolineava una profonda diversità di vedute e una continuità ideale con la neutralità proclamata dal presidente Woodrow Wilson allo scoppio della guerra nel luglio 1914. Neutralità necessitata dal fatto che il Paese era profondamente diviso sull’entrata in guerra; ma rinsaldata da una specifica cultura politica diversa da quella degli europei legati all’equilibrio di potenza e alle sfere di influenza.
Il neutralismo di Wilson non significava isolazionismo. Convinti a ragione dell’ormai raggiunta interdipendenza economica del mondo — oggi gli storici parlano di prima globalizzazione per l’inizio del Novecento —, i predecessori di Wilson, Theodore Roosevelt e Howard Taft, avevano perseguito un internazionalismo che, ritenendo ormai obsoleta la guerra, ne vedeva il pacifico, moderno sostituto nel libero commercio internazionale guidato dalle «potenze civilizzate». In questo contesto gli Usa godevano, per l’opinione pubblica, di una posizione peculiare perché avevano la missione provvidenziale di mostrare la via della libertà ai popoli. Era un’ideologia che sorreggeva la crescente potenza americana; ma che i trattati con Londra e Parigi del 1911 per risolvere le controversie internazionali con l’arbitrato parvero tramutare in realtà. Lo scoppio della guerra la annientò, e gli Stati Uniti si ritrassero.
Per tre anni Wilson tenne il Paese fuori dal conflitto cercando di promuovere la pace fra i contendenti; ma il suo neutralismo attivo divenne sempre meno praticabile. Davanti alla guerra, l’internazionalismo economicistico in cui anch’egli aveva creduto, e che consciamente sminuiva il ruolo della politica, si dimostrava impotente. Suo merito fu elaborarne un altro che manteneva, invece, la politica al centro. Lo abbozzò nel gennaio 1917 con l’idea della «pace senza vittoria» garantita da un’organizzazione internazionale e lo sviluppò con i «14 punti» del gennaio 1918, che divennero base di discussione alla conferenza di pace di Versailles del 1919. Il fulcro della sua visione era l’impossibilità in un mondo interconnesso di una pace imposta da uno o più Stati, da cui faceva discendere due proposte fondamentali, l’autodeterminazione dei popoli e un patto fra tutti gli Stati garantito da un’istituzione mondiale, la Società delle Nazioni, chiamata a salvaguardare la loro sovranità e integrità. Sappiamo che a Parigi Wilson dovette cedere su molti punti per la granitica volontà dei vincitori di spartirsi le spoglie dei vinti e per l’impossibilità pratica di realizzare il principio «un popolo uno Stato». Sappiamo, però, anche che fu il Senato americano a non ratificare il risultato essenziale che Wilson aveva strappato, la Società delle Nazioni, e a lasciarla con ridotta capacità di incidere per l’assenza del Paese più importante.
Un tale esito e la complessa personalità del presidente, vieppiù isolato a Versailles e inutilmente rigido nella difesa dei suoi principi in Senato, hanno portato ad accusare Wilson di ingenuità e utopico idealismo. Accusa che investe solo la superficie della sua azione, non la sua visione politica che con F.D. Roosevelt divenne il fulcro della politica estera americana e tale è rimasta, declinata in molti modi, fino, pare, all’avvento di Donald Trump. Un internazionalismo liberale wilsoniano al cui centro per Roosevelt erano la sicurezza e la pace assicurate dalle Nazioni Unite, nonché lo sviluppo economico promosso da istituzioni come Fondo monetario e Banca mondiale. Garanti di tutto erano, naturalmente, gli Stati Uniti che le egemonizzavano entrambe, oltre ai valori americani e all’ American way of life .
Wilson e il wilsonismo, pertanto, riproposero in chiave politica originale la visione americana di primo Novecento di un mondo interconnesso retto dalle o dalla «nazione civile», nonché la primogenitura del mercato nel determinare i contenuti dei valori politici di libertà e democrazia. Il che porta a concludere che nel 1917 gli Stati Uniti offrirono a un’Europa inconsapevole del suo tramonto una proposta politica e culturale ideologica, ma sagace — alternativa a quanto si andava delineando in Russia — che ha anche consentito al Vecchio Mondo, dopo il suo definitivo suicidio nella Seconda guerra mondiale, di sentirsi mosca cocchiera pur essendo al traino del peregrinare del mastodonte americano.
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