giovedì 9 marzo 2017

Fine vita


Paolo Isotta Il Fattoquotidiano
La paura della morte è di tutti, che si creda o non si creda all’anima, all’anima immortale, alla vita ultraterrena. La paura della morte è un sentimento innato in ogni forma di vita ed è stata inventata dalla natura per perpetuare se stessa: lo illustra Schopenhauer. La filosofia insegna a vincerla: Buddha, Epicuro, Lucrezio, Montaigne. Per me esiste un timore ancor più forte: il timore del morire.

Di certe sofferenze che precedono la morte e a volte la rendono desiderabile. Alla morte non c’è rimedio; all’orrore del morire c’è: la liberta di morire quando la vita si è fatta intollerabile. Il caso terribile di Fabiano Antoniani, “Fabo”, costretto a recarsi in Svizzera per poter morire; e l’odioso accanimento delle istituzioni contro chi ha avuto la somma pietà di accompagnarlo, hanno fatto discutere: spesso troppo e male. E basti l’orrore infinito di chi, a questo ragazzo straziato, gridava, magari dai banchi parlamentari: “Tu non hai il diritto di ucciderti!”

Gli antichi, i greci e i romani, avevano della dignità dell’uomo e della vita un’idea ben più alta della nostra. E il suicidio era per loro un atto eroico: suprema manifestazione di libertà di fronte alla perdita della libertà creata dalla tirannide. Catone, Seneca, Arria: questi modelli luminosi non saranno vinti da qualsiasi contraria predicazione.

Nelle Operette morali di Leopardi leggiamo il Dialogo di Plotino e di Porfirio: il maestro dissuade il seguace dal suicidio. L’argomentazione di Plotino è alta; ma Leopardi mette in bocca a Porfirio argomenti assoluti: e non dico che vadano seguiti là ove il filosofo considera il suicidio augurabile e necessario essendo la vita un male in sé, ma là ove ne dimostra la totale liceità.

La sofferenza è un valore. Il dolore ammaestra. Ma la sofferenza estrema toglie all’uomo libertà e dignità. La medicina, spesso animata da una spaventosa volontà di potenza, ha un culto per se stessa e dimentica che il suo scopo è guarire; e anche dal dolore essa deve guarire. La medicina, spesso animata da un desiderio di progresso che discende dalla volontà di potenza, costringendo a sopravvivere chi la natura non vorrebbe sopravvivesse, ha creato sofferenze che la natura non aveva escogitate.


Guardiamo l’aspetto religioso del caso, il più arduo che all’uomo si ponga. Per il cristianesimo ancor più il dolore è un valore. Non si ha il diritto d’impedire a chi voglia offrirlo a Dio di viverlo, questo dolore, fino in fondo.

Ma chi, essendo cattolico e credente, non crede che Dio esiga da noi tanta sofferenza? E chi non crede che la vita sia di Dio e l’uomo non può disporne? Chi crede che immortale sia solo la morte (Lucrezio, Il poema della Natura, III, 869)? Chi crede che la sofferenza senza scopo sia una cosa cieca e brutale che avvilisce l’uomo e gli toglie la dignità?

La Chiesa combatte il suicidio, e se potesse combatterebbe anche il combattimento contro la sofferenza: per una volontà di potenza atroce quanto quella della medicina. Adesso, nell’epoca del trionfo della tecnica, due volontà di potenza, una antichissima, una modernissima, coincidono nel comune interesse d’impedire all’uomo di essere libero almeno nel morire: nel quando, nel come.

Eppure il Vangelo è una predicazione di libertà e di rispetto per l’uomo. Così il nostro paese, che con Roma vide trionfare l’idea della libertà e della dignità dell’uomo, opprime soprattutto chi soffre e chi non ha i mezzi per procurarsi quella morte dolce ad alcuni necessaria e da alcuni invocata disperatamente. Noi non abbiamo, non si dice il “suicidio assistito”, nemmeno il testamento biologico.

I politici che hanno fatto in modo, e secondo me continueranno a fare in modo, che chi vuole morire con dignità debba emigrare, sono colpevoli della doppia viltà, asserviti ai preti e ai medici. Quelli di loro che giungessero a provare il dolore di tanti ammalati di tumore (ai quali i farmaci antidolorifici sono spesso somministrati con sadica parsimonia), o di ciò ch’era diventata la non-vita di “Fabo”, lo provebbero troppo tardi, quando anche l’aver compreso sarà inane: e un castigo inutile non lo auguro nemmeno a loro. Auguro invece che tutti, come me, s’iscrivano all’associazione “Luca Coscioni”. Grazie, Marco Cappato!

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