lunedì 20 marzo 2017

Tito Livio



L’autocensura di Tito Livio tra le grinfie di Augusto

Duemila anni fa moriva l’autore padovano che ricostruì per intero la storia di Roma partendo dall’approdo di Enea nel Lazio. Forse credette davvero che Ottaviano avesse restaurato la Repubblica, di certo si piegò al suo volere. E per scrivere su fatti rec


La valutazione dell’opera di Augusto, come di altri facitori di storia, dividerà sempre gli storici. «Il devoto rispetto di Augusto per la libera costituzione, che aveva egli stesso distrutto, non si può spiegare che con un attento esame dell’opera di questo sagace tiranno» scrisse di lui Edward Gibbon. Il primo a conoscere la difficoltà di tramandare una accettabile immagine di sé fu Augusto stesso, proprio perciò attento controllore degli intellettuali e in particolare degli storici del suo tempo. Tito Livio, morto duemila anni fa, per sua ventura, fu uno di essi: anzi il più noto e forse il più importante.
Non è la condizione più favorevole, sul piano dell’imparzialità, quella di uno storico che deve narrare il passato più recente, e ancora bruciante, sotto il governo di colui che è risultato vincitore nella lotta appena conclusa. Si potrebbe dire che il «problema» Livio (59 a.C.-17 d.C.) è tutto lì. Un «provinciale» — un romano «recente» visto che la guerra dei socii contro Roma era finita meno di trent’anni prima della sua nascita —, nato a Padova, il municipium che nel 43 a.C. s’era schierato col Senato contro Antonio, approda a Roma, centro del potere, quando ormai Augusto è rimasto unico vincitore dell’interminabile ciclo delle guerre civili, e si avvicina alla corte fino a integrarsi in essa, divenendo per un bel po’ di tempo lo storico «ufficiale» del nuovo ordine.
Una bella contraddizione. Il punto di partenza sono i sentimenti «repubblicani», peraltro caratteristici dei municipia e in particolare di Padova. L’equivoco della «restaurazione repubblicana» di Augusto può aver contribui- to. Asinio Pollione, ex cesariano, ex antoniano, freddo con Augusto e cocciutamente intento a scrivere una storia delle guerre civili (un proposito che Orazio definì «un vero azzardo») definiva Livio — che non aveva in grande simpatia — «affetto da patavinità». Si può spiegare questa definizione in modo piuttosto semplice: Livio era uno di quelli che avranno creduto che la restaurazione repubblicana ostentata da Augusto ci fosse davvero stata. Asinio Pollione no.
Sta di fatto che Asinio si mise a scrivere — prima di Azio (31 a.C.) o non molto dopo — la storia recente sulla quale poi Augusto (nel 25 a.C.) fece calare la sua verità con i 13 libri di autobiografia ( Commentarii de vita sua), mentre Livio decise di cominciare da Romolo, anzi dall’arrivo di Enea nel Lazio. Materia tranquilla? Fino a un certo punto: basti pensare all’insopportabile finale del VI libro dell’Eneide. Comunque materia più tranquilla che raccontare il colpo di Stato di Ottaviano (poi Augusto) del 19 agosto 43 a.C. o la mattanza delle proscrizioni triumvirali da lui avallate, con brutale voltafaccia verso il Senato, nel dicembre dello stesso annus terribilis.
Nella prima deca, nei libri sulla storia antichissima, Livio «abbandona la leggenda solo per immergersi nel romanzo», ha scritto Ronald Syme in uno dei suoi saggi più riusciti ( Livy and Augustus, «Harvard Studies in Classical Philology», 1959). Si era giustificato di questa scelta, Livio, nella tutt’altro che serena praefatio (scritta ovviamente ben dopo il libro I), dicendo che aveva preferito indugiare a lungo nel racconto dell’antica virtù ritardando il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto raccontare il tempo presente: tempo nel quale «non riusciamo a sopportare i nostri vizi e nemmeno i necessari rimedi». Ma anche la storia antichissima poteva rientrare nell’interesse politico-culturale del princeps, come ben sapeva Virgilio. Forse Livio non s’aspettava che Augusto intervenisse addirittura nella scrittura stessa dell’opera dando consigli che in fondo erano ordini. Di questo «interventismo» culturale del princeps sappiamo da Livio stesso in un passo del IV libro, che viene spesso ricordato. Vale la pena rievocare di che si tratta.
Livio aveva scritto, seguendo una tradizione consolidata, che oltre quattro secoli prima Cornelio Cosso, tribuno militare ( tribunus militum) avendo ucciso di suo pugno il re di Veio aveva dedicato le «spoglie opime» del vinto nel tempio di Giove Feretrio (437 a.C.). Nel 29 a.C. Marco Licinio Crasso (nipote del triumviro morto a Carre), avendo, quando era proconsole in Macedonia, trucidato con le sue mani il condottiero dei Bastarni, Deldone, voleva poter ripetere l’antico gesto. Augusto, pessimo generale, non sopportava la gloria militare di altri che magari potevano «montarsi la testa». Che cosa fece? Con procedimento tipico della sua ipocrisia, che strapperà parole di fuoco ad Edward Gibbon, segnalò a Livio che aveva sbagliato: c’era un’epigrafe (da lui Augusto personalmente ritrovata quando aveva fatto ricostruire il tempio di Giove Feretrio! Si vantò di averne fatti restaurare 82) attestante che Cornelio Cosso non era, quando sconfisse il re di Veio, tribunus militum, ma console. Il messaggio era che quell’onore che il giovane Crasso pretendeva spettava solo a consoli in carica, non a un proconsole. Livio si affrettò a registrare la rettifica, che infatti è incorporata in una sconcertante digressione del libro IV, e soggiunge che sarebbe stato «quasi un sacrilegio» non tener conto del documento evocato, sulla fiducia, da Augusto. Che però può essere stato un falso. Syme nota infatti che in pieno V secolo a.C. «il detentore del sommo comando militare (imperium) sarebbe stato sicuramente definito praetor, non consul ».
Ben altro successe più tardi. Procedendo nell’immane lavoro, Livio giunse a raccontare le vicende dell’anno 43 a.C., e quindi le proscrizioni (e quindi anche la morte violenta inflitta a Cicerone: la pagina sull’omicidio ci è stata salvata da Seneca padre in una Suasoria). Non era facile cavarsela; non tutti avevano la faziosità nutrita di servilismo di un Velleio Patercolo, storico cortigiano che aveva debuttato sotto Augusto e fatto carriera sotto Tiberio; Velleio giunse a scrivere che «Ottaviano si era invano, contro Antonio e Lepido, opposto alle proscrizioni». Al contrario, Seneca figlio (il filosofo) leggeva nell’opera storica rimasta inedita di suo padre che Ottaviano aveva scritto l’editto delle proscrizioni «a cena, sotto dettatura di Antonio». Livio non era Velleio. Nel libro CXX, che non è conservato (purtroppo si è persa tutta la parte recente dell’opera liviana) parlava unicamente di quella terrificante decimazione della classe dirigente «repubblicana». Ma il modo in cui ne parlò non piacque — a quanto pare — ad Augusto. Una notizia antica, tramandata con il riassunto del libro CXXI, dice laconicamente: «Questo libro (il CXXI) fu pubblicato dopo la morte di Augusto». La notizia illumina l’accaduto: evidentemente Livio decise di tacere dopo l’imbarazzante insuccesso del libro CXX. Riprese a pubblicare, o forse addirittura a scrivere, solo quando Augusto finalmente morì: nell’agosto del 14 d.C., nello stesso giorno in cui, 57 anni prima, «all’età di 19 anni», come si vanta, aveva attuato il colpo di Stato che lo aveva reso console e padrone della Repubblica che, pure, si era impegnato a servire.
Anche questo spiega perché Livio sia diventato un «classico» già per la generazione successiva. Quando nel 25 d.C., cioè appena otto anni dopo la morte di Livio, Cremuzio Cordo, senatore e storico repubblicaneggiante, venne deferito davanti al Senato (siamo sotto Tiberio e spadroneggia Seiano) per aver pubblicato libri elogiativi di Bruto e di Cassio («ultimo Romano», lo chiamava, cioè ultimo degno di essere definito tale), si difese invocando il precedente di Livio. «Tito Livio — disse Cremuzio davanti a un Senato di servi atterriti — che primeggiò per eloquenza e affidabilità, a tal punto, nella sua opera, aveva esaltato Gneo Pompeo che Augusto lo chiamava pompeiano». È Tacito che trascrive, o meglio rielabora, il discorso di Cremuzio. Ma possiamo credergli. Intorno a Cremuzio si era creato un vero e proprio «culto» repubblicano. In questo milieu la storia delle guerre civili era stata e continuava ad essere il grande tema incandescente. Quando Seneca si decise a pubblicare l’opera storica di suo padre, vi premise una introduzione nella quale diceva icasticamente — forse riprendendo una formula paterna — che «a partire dalle guerre» civili la veridicità degli storici aveva «incominciato a fare passi indietro». Tacito in apertura degli Annali dirà che il servilismo in campo storiografico aveva cominciato a diffondersi soprattutto con Tiberio, mentre «al racconto dei tempi di Augusto» non erano mancati «ingegni convenienti», che comunque non è un grande complimento. Non fa nomi ma sta di sicuro riferendosi (soprattutto) a Livio. Nel proemio delle Historiae invece era stato più severo: aveva scritto che, «già dopo Azio, quei grandi ingegni si erano fermati»; il che può anche significare che «avevano mostrato segni di cedimento». È evidente che un giudizio del genere investiva in pieno l’attività storiografica di Livio, appena ventottenne quando si combatté ad Azio.
In realtà l’adulatio era incominciata già sotto Augusto, e Tacito ben lo sapeva. Come sapeva che Augusto aveva esercitato la censura sulla storiografia in modi anche pesanti. Caso estremo quello di Labieno, che si era lasciato morire per protesta contro il rogo della sua opera ordinato da Augusto. Per non parlare della emarginazione di un cesariano della prima ora come Asinio Pollione o della cacciata del greco Timagene dalla casa del princeps: tutti episodi che ci sono noti da Seneca, che dal proprio padre aveva appreso molte verità scomode. Del resto non ci spiegheremmo il carattere catoniano-repubblicano del poema storiografico di Anneo Lucano sulla guerra civile ( Pharsalia) se non tenessimo conto della sua stretta parentela con il ceppo familiare repubblicano degli Annei, originari di Cordova e travolti nella repressione della congiura contro Nerone.
Livio aveva «navigato» in questo pelago. Molta parte della sua opera (gli ultimi dieci libri da CXXXIII a CXLII) riguardava il governo di Augusto ormai solo al potere, dopo Azio. Ma probabilmente quando mise in circolazione quei libri ormai Augusto era morto. Come mai, nei libri pubblicati vivente ancora il princeps, Livio era stato così freddo con Cesare e deferente verso Pompeo ai limiti della esaltazione? Su Cesare aveva espresso un giudizio raggelante: lo aveva paragonato al vento, del quale — precisava — è difficile dire se sia meglio che nasca o che non nasca. Per Pompeo invece i toni erano stati talmente diversi da meritargli (evidentemente nel corso di pubbliche letture a corte) l’epiteto di «pompeiano» da parte di Augusto, dietro la cui sorridente ironia bisognava spesso temere un’insidia. Ma era veramente una critica quella che Augusto così esprimeva? Detto da Ottaviano «capoparte» (per usare il titolo di un giustamente celebre libro di Mario Attilio Levi) quell’epiteto sarebbe suonato come una critica aspra: nello scontro delle fazioni o si sta da una parte o dall’altra. Ma detto da Augusto ormai princeps (capace persino di recuperare Cicerone e farne il proprio profeta e annunciatore) quel giudizio aveva un altro senso. Ormai il «padre» suo adottivo — cui doveva tutto, secondo una celebre battuta di Antonio — recedeva sempre più nello sfondo: Cesare, l’eversore, si era mosso contro la Repubblica, contro il clan politico-familiare dei Marcelli, con cui Augusto si era imparentato, addirittura puntando su di un erede (il Marcellus su cui si chiude, nell’Ade, il VI dell’Eneide). Preferiva ormai apparire, piuttosto, come colui che aveva realizzato finalmente il disegno, abortito, di Pompeo: princeps in republica, come Cicerone, ormai convinto della inevitabilità di un potere personale, lo aveva immaginato. E dunque un Livio «pompeiano» non era affatto sgradito. Forse Cremuzio Cordo non se ne era reso conto.

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