martedì 14 marzo 2017

Roma nel Dopoguerra

Stefano Malatesta per "La Repubblica"

Quando arrivò a Roma, nell’autunno del 1946 Janet Flanner, era già famosa come giornalista. Per quasi vent’anni questa giovane americana aveva mandato corrispondenze da Parigi al New Yorker, una rivista diretta ad un pubblico intellettuale che non leggeva riviste.

I suoi articoli erano noti per qualche stravaganza in più di quelle normalmente consentite e per le “arresting sentences” che da sole facevano la fortuna di un articolo. Era stata la Flanner e non Hemingway a creare il mito di Parigi dove gli artisti di tutto il mondo potevano trovarsi in un’unica patria, quella delle Lettere e delle Belle Arti.

Molti giovani americani avevano seguito i suoi consigli e dal ‘20 al ‘40 l’area compresa tra Montparnasse la Senna era stata colonizzata da sedicenti scrittori e artisti Usa.
Che passavano la maggior parte del loro tempo sedendo nei caffè, come i “Deux Magot”o il “Flore”, convinti che prima o poi l’ispirazione sarebbe caduta dall’alto sulle loro spalle come lo Spirito Santo. Et manea semper.


Alla fine del ‘45 Jannet era stata mandata a Norimberga a seguire il processo ai gerarchi nazisti. Rimase memorabile un ritratto di Göring, il temerario asso dell’aviazione tedesca, diventato un cinico gerarca nazista con tendenze paranoiche, che al processo aveva tentato di dissociare la sua responsabilità da quella degli altri.

Da Norimberga la Flanner, invece che ritornare in Francia, prese il primo aereo disponibile per Roma con l’incarico di scrivere un bel numero di articoli. In Francia circolavano curiose notizie sul modo con cui gli italiani, in particolare i romani, stessero vivendo
il dopoguerra. E la Flanner doveva accertare queste voci.

Arrivata a Roma, si accorse con un certo stupore che questa volta l’incarico si stava rivelando molto più difficile del previsto. Oltrepassare quella crosta di superficialità che ricopriva e nascondeva tutti gli italiani, non era complicato. Ma dopo ci si ritrovava in un vasto spazio dove non c’erano indicazioni né suggerimenti da seguire. In Germania il senso di colpa — quando era autentico — era così diffuso da raggiungere un livello di cupezza mai visto in precedenza.

Mentre in Italia la sconfitta sembrava fosse stata presa come una leggenda metropolitana inventata dai detrattori del nostro Paese. Gli italiani sembravano non aver perso, ma vinto la guerra. E il senso di colpa, come modo per confrontarsi con la realtà, era totalmente sconosciuto agli italiani.

La popolazione di Roma, che nel passato veniva definita sonnacchiosa, lenta a muoversi, fangosa come il fiume che attraversava la città, ora si svegliava presto per prendere un caffè al volo e partiva in cerca di fortuna. Tutto era all’insegna della velocità, del moltiplicarsi degli incontri che si svolgevano da una parte all’altra.

In poco tempo Janet divenne una figura popolare in certi ambienti di Roma. In quel periodo vestiva indumenti di foggia militare, come un’impermeabile lungo fino ai piedi, simile a quello che portava il generale Clark, simpatico personaggio e modesto stratega, comandante dell’VIII armata americana che aveva liberato Roma.

In alternativa indossava un giubbotto di pelle da aviatore con il risvolto in pelliccia, tipo pilota obiettivo Burma. Aveva un fisico imponente — dicevano che vista di spalle assomigliasse a Jack Dempsey, famoso pugile degli anni venti, idolo delle folle americane. Quando Janet passava così vestita davanti ai marines di guardia all’ambasciata americana a Roma, i soldati scattavano con un attenti ed uno sbattere di tacchi così clamoroso che sembrava stessero salutando un generale.

Arrivando a Roma Janet credeva di trovare una città, se non in coma, in grande difficoltà. Si accorse che in poco tempo la città aveva superato lo stato della fame e era arrivata a quella di una precaria sopravvivenza che mostrava punte di benessere, introvabili in Europa. Quasi tutti i negozi avevano riaperto i battenti, in via Condotti i gioiellieri esponevano nelle vetrine broches di diamanti mai visti neppure a Place Vendôme da Cleef & Arpels.

Nei mercati rionali si potevano trovare frutta e verdura, anche se c’era ancora poca carne. Ma a Piazza Vittorio aveva ripreso a echeggiare il richiamo del venditore di porchetta che si esibiva in tutta la sua celebre inventiva verbale, ancora più ricca di quella immortalata da Gadda nel Pasticciaccio .

I romani del centro e anche quelli della periferia a un certo punto delle loro migrazioni continue, venivano attratti e come risucchiati da quel gorgo implacabile, simile al Maelström di Porta Portese, dove sotto gli occhi di tutti si svolgeva la vita del mercato nero più grande d’Europa.

Anche Parigi aveva un mercato nero, ma era infinitamente più piccolo di quello di Roma, e molto più rischioso da quando in Francia erano uscite leggi che prevedevano fino alla pena di morte per i borsari neri. A Porta Portese potevi trovare di tutto: bastava far intravedere qualche banconota di grosso taglio e l’introvabile si materializzava davanti
a te in pochi secondi.
 
Molti italiani che incontrava Janet davano l’impressione di aver ricevuto di recente un trauma. Non c’era mai nessuno che facesse riferimento al «non mai abbastanza lungo deprecato ventennio», se non per rapidissimi accenni di genere sarcastico, ma fuggevole, come se il fascismo fosse stato un argomento sul quale non valeva la pena perdere troppo tempo. Un fenomeno semi sconosciuto, d’importazione estera, non un prodotto locale.
 

Nessuno ammetteva di essere andato per convinzione o per sbaglio ad osannare il duce in Piazza Venezia, con la camicia nera e il braccio alzato. I fascisti erano anzi di imprecisabile identità. E lo scrittore inglese, Harold Acton, magnifico storico dei Borboni, anche se reazionario, che viveva a La Pietra, una villa all’inizio della Via Bolognese, presso Firenze, si esibiva in un suo notorio numero con i visitatori: «Mi sa spiegare come mai prima della guerra a Firenze erano tutti fascisti e dopo la guerra sono diventati tutti comunisti?».

È stata la Flanner per prima a dare la spiegazione di un neologismo nato in quei giorni: “paraculo”. Questo veniva dalle imbottiture dei calzoni che le mamme previdenti preparavano ai loro figlioli, ragazzini di 14 o 15 anni e già distinti ladruncoli, specializzati nel furto su camion con salto. Questi si nascondevano nelle vicinanze di qualche salita dove arrancavano i camion sgangherati, ricoperti di teli, l’unico trasporto dell’epoca, perché la rete ferroviaria ancora non funzionava.

Quando i camion erano costretti a rallentare, vi salivano sopra con un salto e gettavano la merce in strada dove veniva raccolta dai compari. Qualcuno nell’impresa cadeva, ma veniva salvato dall’imbottitura dei pantaloni che avevano cucito le mamme consapevoli delle difficoltà del lavoro dei loro figlioli.

Con il passare del tempo la Flanner si era abituata al carattere dei romani e degli italiani in genere. Scrisse articoli che andavano dall’invenzione degli scooter alla caccia al bandito Giuliano. Fu la prima a parlare della nuova moda italiana, molto meno impegnativa e molto più disinvolta di quella francese, che stava provocando furore nelle sfilate all’estero. Visitò la Fiat e fece anche il ritratto di Adriano Olivetti, l’industriale illuminato, una specie umana che negli Usa non esisteva in natura e nemmeno nei romanzi.

Scrivendo su Roma la Flanner era portata a fare quasi sempre un confronto con Parigi. Era chiaro a tutti che nel dopoguerra la città che dimostrava più vivacità e che si presentava più carica di aspettative e di speranze e che stimolava più curiosità era la capitale italiana, non quella francese.
 Parigi aveva risentito enormemente della più grande sconfitta subita dalla Francia in tutta la sua storia: una catastrofe militare, subito trasformata in una catastrofe politica con la creazione del governo di Vichy che aveva portato una disastrosa ambiguità per tutto quello che veniva dalla Francia.

Troppi personaggi famosi si erano strofinati con le SS: Cocteau, Coco Chanel e molte donne non avevano avuto la fierezza di Boule de Suif, celebre puttana, sia pure letteraria, che all’inizio del meraviglioso racconto di Maupassant si rifiuta di cedere la cittadella della sua onorabilità a quel “Sale boche” per puro spirito patriottico.
 

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