sabato 4 marzo 2017

Burocrazia

di Angelo Panebianco-Corriere della Sera

Guardare il dito anziché la luna. L’Italia contemporanea si trova in una condizione paradossale. È attraversata da veementi, e feroci, correnti antipolitiche, correnti che accusano la politica (rappresentativa) di ogni possibile misfatto proprio nel momento storico in cui quella stessa politica è debolissima, alla mercé di centri di potere, amministrativi e giudiziari, che l’hanno svuotata di ogni autentica capacità decisionale. Siccome è sempre la politica ad essere sotto i riflettori e siccome, in democrazia, i politici, per acchiappare voti, sono costretti a trasmettere al pubblico un’immagine di onnipotenza («faremo questo e faremo quello») anche quando, in realtà, sono deboli e impotenti, sono soltanto loro i destinatari della riprovazione collettiva per tutto ciò che non va. Mentre i principali responsabili (amministrazione e magistrature) rimangono nell’ombra, al riparo dagli strali dell’opinione pubblica e possono continuare — impuniti, impunibili, inattaccabili — a mal amministrare come hanno sempre fatto.




Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri hanno appena pubblicato un testo agile ma rigoroso, e leggibilissimo, perfettamente comprensibile anche dai non addetti ai lavori, I signori del tempo perso (Longanesi). Il libro mostra, ricorrendo anche a molti esempi, che cosa succede quando, come è accaduto nel nostro Paese, il potere reale si sia spostato dalla politica alla burocrazia.




L’ultima dimostrazione in ordine di tempo dell’impotenza della politica di fronte all’amministrazione è data dal fallimento del tentativo di riforma della pubblica amministrazione, la riforma Madia voluta dal governo Renzi. Voleva incidere colpendo l’inamovibilità dei dirigenti e introducendo, addirittura, la possibilità di licenziarli. È stata fermata da un fuoco di sbarramento che ha coinvolto i potentissimi capi di gabinetto (i veri reggitori dello Stato, molto più importanti dei ministri), il Consiglio di Stato, la Corte costituzionale. La burocrazia non si fa riformare da nessuno. E anzi, come Giavazzi e Barbieri osservano, la guerra sorda scatenata dall’amministrazione contro il governo Renzi conta quanto il risultato del referendum per spiegarne la caduta.




Perché il Paese è finito in mano a una burocrazia al tempo stesso irriformabile e inefficiente? È la conseguenza, dicono Giavazzi e Barbieri, di alcune tare storiche. L’assenza di concorrenza in settori-chiave dell’economia è una delle principali cause. Un’altra, connessa alla prima, è data dalla lentezza e inefficienza della giustizia civile. Lo stato della giustizia civile — che rende troppo onerosi per le parti gli eventuali contenziosi — riduce lo spazio dei contratti privati e determina l’ipertrofia della regolazione burocratica. La moltiplicazione delle regole aumenta il potere discrezionale della burocrazia, rendendola incontrollabile. I vizi della pubblica amministrazione italiana sono antichi, ma negli ultimi decenni la situazione si è assai aggravata. L’ipertrofia regolamentare non mette soltanto l’intero Paese nelle mani di una amministrazione inefficiente, ma apre anche grandi spazi per la corruzione: più regole, più margini di manovra per le attività di corruttela.
Giavazzi e Barbieri, constatando che tutti i tentativi di riforma dell’amministrazione sono fin qui falliti (proprio perché il potere burocratico è molto più forte di quello politico) pensano che l’unica possibilità consista nel giocare d’astuzia: comportarsi con la burocrazia più o meno come fece l’imperatore del Giappone, nel secondo Ottocento, quando, volendo modernizzare il Paese, si trovò di fronte all’ostacolo rappresentato dalla potente casta dei samurai. Anziché tentare di piegarli con la forza, l’imperatore scelse saggiamente di blandirli e di compensarli, fornendo loro i mezzi per riciclarsi come imprenditori nel nascente Giappone moderno. Analogamente, non si potrà mai piegare la burocrazia italiana, non si potrà mai obbligarla a cambiare, a cessare di essere il più potente ostacolo alla crescita economica e allo sviluppo sociale del Paese, senza giocare d’astuzia, dando incentivi e vantaggi ai funzionari che accettano di cambiare i propri comportamenti.
Gli autori immaginano tre possibili strade. La prima, la più radicale, consiste nel modificare in profondità il rapporto fra lo Stato e la società, dando vita a uno Stato leggero che si limiti a regolare lo strettamente necessario, solo quanto non può essere lasciato alla competizione di mercato. Gli autori sono consapevoli, naturalmente, che mancano in Italia le condizioni perché questa soluzione venga adottata. La seconda strada consiste nell’incentivare una variante di quella istituzione francese che è il pantouflage: frequenti passaggi dei dirigenti dall’amministrazione pubblica alle aziende private (nonché, come negli Stati Uniti, anche passaggi dal privato al pubblico). Ma anche questa soluzione, nelle condizioni italiane, è difficile da realizzare. La terza possibilità è che si ritorni alla situazione di almeno trenta anni fa, quando la politica era più forte dell’amministrazione e, almeno entro certi limiti, la teneva in pugno. Sfortunatamente, né l’amministrazione né le magistrature hanno interesse a permettere un nuovo rafforzamento della politica: dal loro punto di vista, una politica debole e sottomessa come oggi è quanto di meglio ci sia.
È per questo che quando compare all’orizzonte un qualche uomo politico che minacci di restituire il primato alla politica, la burocrazia, amministrativa e giudiziaria, si compatta e lo combatte senza quartiere. Riuscendo persino a convincere una disinformata opinione pubblica che la difesa della onnipotenza (e dell’inefficienza) burocratica coincida con la difesa della democrazia.

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