Quelli convinti che Israele sia “l’avamposto dell’imperialismo americano”, e i commentatori distratti che enfatizzano come una “grave crisi” il rifiuto dell’amministrazione Biden di fornire a Israele le “bunker buster” da novecento chili, non sanno cosa accadde tra il 1953 e il 1961, durante l’amministrazione Eisenhower (e anche negli anni precedenti).
In quegli otto anni, gli Stati Uniti hanno sviluppato una politica nettamente antisraeliana e filoaraba. Non a caso, tutti i sistemi d’arma e tutta l’aviazione israeliana, determinanti per la vittoria nella guerra dei sei giorni del 1967, erano stati forniti a Gerusalemme dalla Francia del generale Charles De Gaulle, non dagli Stati Uniti.
Il fatto è che nel 1948, subito dopo la nascita di Israele e la vittoria contro i Paesi arabi, Washington fece una netta virata filoaraba, per il timore di consegnare gli strategici fornitori di petrolio nelle braccia dell’Unione Sovietica. Tra l’altro fornì a Egitto, Siria e Iraq tutta la rete superstite di spionaggio nazista in Medio Oriente che gli si era consegnata, e favorì il ruolo di primo piano assunto in Egitto e in Siria di alti ufficiali nazisti. Indicativa la definizione di Israele che diede nel 1952 l’ultimo segretario di Stato di Harry Truman, Dean Acheson: «Un danno non necessario alle relazioni arabo-americane».
Ma la vera e propria svolta antisraeliana e filoaraba della politica di Washington si ebbe una volta terminata l’amministrazione Truman. Dal 1953 al 1961 sono gli otto lunghi anni dell’amministrazione Eisenhower a opera dei fratelli Foster Dulles, segretario di Stato, e Allen Dulles, direttore della Cia. La loro dottrina, che ebbe peraltro effetti disastrosi su tutti gli scacchieri mondiali, era ispirata solo e unicamente al più rigido anticomunismo sovietico. E i Paesi arabi nel 1953 parevano indubbiamente attestati su un rigido anticomunismo.
Ma le scomposte mosse, tutte rigidamente antisraeliane, dei due fratelli Dulles ebbero l’effetto opposto. Grazie a queste sciagurate scelte mediorientali, Paesi arabi chiave come l’Egitto, l’Algeria, la Siria e l’Iraq furono letteralmente gettati nelle braccia dell’Unione Sovietica. Un allargamento della sfera di influenza di Mosca in Medio Oriente, provocato da plateali errori strategici di Washington, determinante per decenni, le cui conseguenze arrivano sino ai giorni nostri.
Il culmine dei marchiani errori mediorientali del trio composto da Ike Eisenhower e Foster e Allen Dulles fu la decisione di far fallire la guerra di Suez contro l’Egitto dell’alleanza militare tra Francia, Inghilterra e Israele. Se non fosse stata fermata violentemente da Washington, l’operazione bellica congiunta su Suez avrebbe infatti con facilità determinato la caduta di Nasser in Egitto e quindi avrebbe risparmiato al Medio Oriente un trentennio di egemonia del panarabismo nasseriano alleato di Mosca, di cui persino l’Olp terrorista di Yasser Arafat fu una sciagurata propaggine.
Tutto ebbe inizio il 26 luglio 1956, quando Nasser, da Alessandria, annunciò al mondo la nazionalizzazione del Canale di Suez, con un discorso roboante di due ore e mezza che fece tremare di passione “la piazza araba”. Fu una mossa audace, col solo precedente della nazionalizzazione del petrolio persiano della Anglo-Iranian da parte dell’iraniano Mossadeq di cinque anni prima. Ma Nasser, a differenza di Mossadeq, fece questa mossa dopo, non prima, avere concordato col governo britannico i termini economici dell’esproprio delle azioni della Società del Canale.
Contrariamente a quanto la pubblicistica continua a riportare, infatti, il contenzioso che portò Francia e Inghilterra alla guerra contro Nasser e l’Egitto, non verté affatto sull’importo della nazionalizzazione o sulle modalità del suo pagamento, né sulla contestazione egiziana della presenza di militari inglesi. Nel 1954, Londra si era infatti già impegnata a ritirare entro venti mesi il suo contingente dispiegato lungo il Canale e aveva allargato la presenza egiziana nel Consiglio di Amministrazione della Compagnie Universelle du Canal Maritime de Suez a capitale anglo-francese.
Soprattutto Nasser, contestualmente alla nazionalizzazione, emise un decreto che disponeva l’indennizzo degli azionisti in base al corso di chiusura alla Borsa di Parigi, nel giorno precedente la nazionalizzazione. Dunque, un pagamento a pieno valore patrimoniale reale del Canale. Il braccio di ferro in realtà si sviluppò e la guerra divampò solo perché Nasser dichiarò subito la sua intenzione di decidere unilateralmente di escludere dal passaggio nel Canale non solo le navi israeliane, ma anche quelle battenti altra bandiera dirette in Israele.
Era una violazione aperta, palese, della convenzione di Costantinopoli del 29 ottobre 1888 (firmata da Gran Bretagna, Austria, Ungheria, Germania, Francia, Italia, Olanda, Spagna, Russia e Turchia che allora esercitava la sovranità sull’Egitto) che appunto garantiva il passaggio nel Canale alle navi battenti qualsiasi bandiera. Era una mossa che Nasser rivendicava in nome «della battaglia contro l’imperialismo, i modi e le tattiche dell’imperialismo: la battaglia contro Israele, la punta avanzata dell’Imperialismo».
Combinato il disastro dei finanziamenti alla diga di Assuan, prima promessi e poi negati, dopo aver gettato Nasser nelle braccia dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti si arroccarono in una posizione attendista e non reagirono alla mossa di Nasser. Ma non fecero così anche Londra e Parigi: per il Canale passava un quarto delle importazioni britanniche, in buona parte petrolifere, due terzi dell’intero approvvigionamento di petrolio dell’Europa, inoltre il trentatré per cento delle navi che transitavano per Suez battevano bandiera britannica.
Se si fosse lasciato a Nasser il diritto di decidere quali navi potessero e quali non potessero transitare per il Canale – come accadde subito per quelle israeliane – l’intera economia europea avrebbe rischiato di essere sottoposta ai suoi ricatti, ai suoi diktat, alle sue imposizioni. Chi controllava Suez, controllava l’economia europea e Nasser aveva dichiarato al mondo che intendeva fare questo.
Christian Pineau, il ministro degli Esteri francese disse che la mossa era equivalente all’occupazione della Renania da parte di Hitler nel 1936. Il paragone era calzante e rifletteva una divaricazione netta tra la visione del Mediterraneo di Washington e quella di Parigi.
Quello che esplose nel 1956 nel punto di incontro tra Africa e Asia fu dunque un conflitto epocale, che aveva al suo centro la certezza di Parigi che il nazionalismo arabo di Nasser, il panarabismo, all’opera anche in Algeria, fosse esattamente, come era, un jihad, che incubasse cioè una ideologia totalitaria paragonabile solo a quella di Hitler.
Dal canto suo, Londra era certa, a ragione, che consegnare non la proprietà del Canale, ma il controllo della sua navigazione nelle mani di Nasser avrebbero reso l’Europa un ostaggio permanente di forze incontrollabili (esattamente quello che sarebbe successo dal 1973 in poi, col ricatto petrolifero) e quello che accade oggi con gli Houti nel canale di Bab el Mandeb sul mar Rosso.
Washington non colse nulla di tutto questo, né dal punto di vista dei rapporti di forza sul teatro geopolitico né da quello del radicamento di un’ideologia antioccidentale che era già in evidente formazione e che sarebbe poi emersa in forma virulenta. L’Amministrazione Eisenhower guardava solo al rapporto con l’Urss, vedeva solo il pericolo diretto dell’espansione comunista, sottovalutava i timori politico-ideologici di Parigi nei confronti del panarabismo islamista di Nasser, come quelli geopolitici di Londra e organizzò un disastro epocale, con una strategia che portò gli Usa in rotta di collisione con Francia, Inghilterra e Israele alleate, e che venne sviluppata in maniera tanto caotica da produrre esattamente il risultato più sfavorevole a Washington.
Inutilmente Guy Mollet in persona si impegnò a spiegare il 31 luglio 1956 all’ambasciatore americano Dillon la propria certezza che il panarabismo di Nasser, che il suo regime, che il grande movimento d’opinione arabo di cui era alla testa, fossero ideologicamente, e non solo politicamente, pericolosi. Guy Mollet spiegò che i funzionari del Dipartimento di Stato avrebbero dovuto subito leggere il testo fondamentale di Nasser “La filosofia della rivoluzione” per rendersi conto che era una scopiazzatura del Mein Kampf di Hitler.
Il premier francese cercò in tutti i modi di spiegare ai suoi interlocutori americani che la filosofia dell’accordo tra Mosca e il Cairo era identica a quella del Patto Molotov-Ribbentropp tra il totalitarismo sovietico e nazista del 1939. Tentò invano di far comprendere che l’enorme potere che Nasser si voleva arrogare nel decidere chi potesse transitare per il Canale in deroga alle leggi internazionali, costituiva una formidabile sfida politica all’Occidente, ben più che un problema di violazione della libera circolazione delle merci, quale era in fondo inteso a Washington.
Guy Mollet aveva compreso perfettamente il m nodo della sfida, un nodo ideologico, politico e di scontro tra una concezione democratica e una totalitaria della convivenza tra Stati. Aveva compreso il senso profondo dell’alleanza tra l’ex filonazista Nasser e il totalitarismo comunista rappresentato dall’Urss.
Eisenhower e la sua Amministrazione repubblicana si rapportarono dal primo all’ultimo giorno secondo una logica di crisi prettamente territoriale, sopravvalutando, per di più, le possibilità che l’Urss, impegnata nella rivolta ungherese e nella sua sanguinosa repressione, potesse decidere un “a fondo” militare nella crisi egiziana.
Parigi e Londra decisero invece di troncare sul nascere il regime nasseriano, di soffocare nella culla il panarabismo, perché comprendevano che la sua vittoria sul controllo politico di Suez si sarebbe irradiata per decenni in tutto il mondo arabo con effetti disastrosi (come avverrà e come avviene, sino ad oggi).
Ma il Dipartimento di Stato continuò a affrontare la questione del Canale come se fosse stata chiusa in sé stessa. Vide (e non a torto) un residuo di mentalità coloniale nei suoi alleati europei, ma non seppe apprezzare la loro capacità di indicare nel nasserismo un pericolo epocale per i decenni futuri. A più riprese Eisenhower e Foster Dulles tentarono di impegnare l’Egitto a una trattativa che lo vincolasse a rispettare la convenzione di Costantinopoli del 1888, ma Nasser boicottò apertamente tutti questi tentativi, col non casuale e determinante appoggio diplomatico dell’Urss.
Israele, da parte sua, era ben cosciente di essere in una situazione sempre più drammatica, perché Nasser non faceva mistero di avere un primo obiettivo: ribaltare la sconfitta araba del 1948. Nasser, che aveva organizzato nei primi mesi del 1956 un comando militare unificato assieme alla Siria, era infatti palesemente teso a organizzare una guerra contro Gerusalemme, in cui poteva ormai impegnare il modernissimo armamento di cui l’Urss aveva dotato l’Egitto. Guerra preparata, appunto, dal blocco navale totale, da Aqaba a Suez, che chiudeva ora tutte le vie di comunicazione marittima di Israele al di fuori del Mediterraneo.
Alle ore 16 di lunedì 29 ottobre 1956, Israele iniziò dunque la sua seconda guerra contro l’Egitto. Capo di Stato Maggiore israeliano era Moshé Dayan. In cento ore, solo in cento ore, gli israeliani attraversarono il Sinai, arrivarono al Canale e a Aqaba il 31 ottobre 1956 entrarono in azione i bombardieri anglo-francesi decollati da Cipro.
Nonostante le proteste statunitensi e dell’Onu, il 5 novembre 1956 le brigate di paracadutisti anglo-francesi attaccarono Port Said. La sera stessa, il presidente del Consiglio dell’Urss, Nikolaij Bulganin, inviò un secco ultimatum a Ben Gurion. Il 6 novembre, Washington usò un’arma infallibile per bloccare l’avventura militare inglese: comunicò a Londra che il prestito urgente di un miliardo di dollari richiesto al Fondo monetario internazionale era congelato e subordinato al “cessate il fuoco”.
La sera stessa del 6 novembre, Guy Mollet e Anthony Eden capirono di non avere fiato. Francia e Inghilterra si resero conto, nell’arco di 48 ore, della loro improvvisa impotenza: sulla scena internazionale non erano più protagonisti, ma solo deboli comprimari. I due premier superarono la soglia della farsa e diedero l’ordine di cessare il fuoco alle truppe mandate all’attacco solo due giorni prima.
Il 7 novembre, Ben Gurion ordinò la ritirata delle truppe israeliane che si erano attestate a soli 15 chilometri dal Canale. L’esercito egiziano non aveva vinto una sola battaglia, aveva perso rovinosamente e rapidamente su tutti i fronti, non aveva tenuto una sola posizione, aveva lasciato agli israeliani e agli anglo-francesi il controllo completo del Canale di Suez, dell’intero Sinai e del golfo di Aqaba. Ma Nasser, nonostante l’umiliazione subita sul campo di battaglia, aveva vinto la guerra. Una vittoria a tavolino, regalata dalla forte pressione politica dell’Urss che spinse gli “imperialisti Usa” ad ordinare agli eserciti che l’avevano piegato di ritirarsi. Ma comunque una vittoria.
Nasser è stato il primo generale arabo a vincere una guerra in ben settecento anni. Il jihadismo intrinseco in tanta parte del nazionalismo arabo trovò il suo campione che avrebbe portato alla deriva il Medio Oriente per una ventina d’anni, anche dopo la sua morte. Il partito costituzionalista, che nel frattempo aveva fatto scelte opposte legandosi in Iraq all’Inghilterra, alla Turchia e al Pakistan, era sempre più isolato.
L’Impero inglese scomparve grottescamente dalla scena mediorientale. L’Impero americano ne prese il posto, sulla base di uno straordinario e grossolano equivoco politico-culturale che non permise a Washington di distinguere tra la sconfitta delle pulsioni neocoloniali franco-inglesi e la sconfitta di una giusta politica di contenimento delle pulsioni nazionalsocialiste arabe, incarnate da Nasser.
Sfuggì a Washington il prezzo che gli stessi Stati Uniti avrebbero dovuto pagare per aver sconfitto una linea neocoloniale europea, ma di avere anche contemporaneamente consegnato una straordinaria vittoria politica al nazionalsocialismo arabo. Vittoria politica che verrà subito utilizzata per allargare a dismisura il contagio nasseriano e jihadista a tutto il Medio Oriente (a iniziare dalla Algeria, dal Sudan, dalla Siria e dall’Iraq) e che porterà nell’arco di undici anni al disastro della Guerra dei Sei Giorni.
Sfuggì completamente alla Washington di Foster e Allen Dulles e di Eisenhower di aver spalancato la porta alla penetrazione sovietica in tutto il mondo arabo. Un quadro sconfortante di incomprensioni che si riflette quasi grottescamente nelle parole dal vibrante impegno anticoloniale pronunciate il 2 novembre 1956 dal vicepresidente americano Richard Nixon: «Per la prima volta nella nostra storia abbiamo dimostrato l’indipendenza della nostra politica verso Asia ed Africa nei confronti della Francia e della Gran Bretagna. Le loro politiche ci sembrano riflettere la tradizione coloniale. Tale dichiarazione d’indipendenza ha avuto un effetto elettrizzante in tutto il mondo».
Una frase che racchiude in sé tutte le controverse caratteristiche dell’egemonismo americano: dalle pulsioni anticoloniali delle origini stesse degli Stati Uniti, alla concorrenzialità sfrenata nei confronti delle vecchie potenze europee, fino all’ingenuità nei confronti di un totalitarismo panarabo e panislamista che stava avanzando e che non fu neanche colto, neanche visto, dagli occhi di chi guardava il Medio Oriente da Washington.
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