L’inferiorità dei vivi rispetto ai morti è oggettiva in molte categorie. L’inferiorità degli scrittori del ventunesimo secolo rispetto a quelli del ventesimo è indiscutibile e terribile (per noi viventi). Ci ho pensato scorrendo l’elenco dei 100 scrittori italiani invitati a Francoforte e poi ammirando la collezione di opere di scrittori-pittori raccolta dallo scrittore-non pittore Paolo Bianchi. Nella sua casa milanese ho visto pezzi fantastici di Buzzati, Carlo Levi, Maccari, belle cose di Guareschi, Rosai, Soffici, Viani, perfino un autoritratto di De Pisis (per la sottocategoria pittori-scrittori), e vari altri. Tutti personaggi capaci di scrivere bene o benissimo e di dipingere (o disegnare) a livello analogo. Ma come facevano? Scrivevano “Il deserto dei tartari”, “Cristo si è fermato a Eboli”, “Don Camillo”, scusate se è poco, e subito dopo o subito prima realizzavano quadri siffatti. Erano loro dei portenti o siamo noi dei deficienti? Possibile che la presente narrativa seriale e transeunte sui commissari richieda più concentrazione dei capolavori letterari del passato? Oggi gli scrittori sono specializzati? No, sono limitati.
Questo non è un vero blog, è una raccolta casuale di scritti, alcuni anche miei, che ritengo valga la pena di leggere. Andromeda fa riferimento a due categorie fondamentali, il mito e la cosmologia. Nella mitologia, Andromeda era una giovane sacrificata dal padre Cefeo e dalla madre Cassiopea per placare un mostro marino. La Galassia che porta il suo nome è destinata a fondersi in una spaventosa collisione con le Galassie vicine, fra cui la nostra Via Lattea.
giovedì 30 maggio 2024
domenica 26 maggio 2024
TOLLERANZA
Il paradosso della tolleranza è un paradosso che si configura nell'ambito dello studio dei processi decisionali, enunciato dal filosofo ed epistemologo austro-britannico Karl Popper nel 1945. Esso stabilisce che una collettività caratterizzata da tolleranza indiscriminata è inevitabilmente destinata ad essere stravolta e successivamente dominata dalle frange intolleranti presenti al suo interno. La conclusione, apparentemente paradossale, formulata da Popper consiste nell'osservare che l'intolleranza nei confronti dell'intolleranza stessa sia condizione necessaria per la preservazione della natura tollerante di una società aperta.
venerdì 24 maggio 2024
PRIMA DEL BIG BANG
Alla gente che mi chiede se fu dio a creare l’universo, rispondo che la domanda in sé non ha senso. Il tempo non esisteva prima del big bang, quindi non c’era un tempo in cui dio potesse creare l’universo, è come chiedere indicazioni stradali per il confine della Terra: la Terra è una sfera, non ha i bordi di una tavola, dunque cercarli sarebbe assolutamente inutile. Ciascuno di noi è libero di credere ciò che vuole. Dal mio punto di vista la spiegazione più semplice è che non ci sia alcun dio, nessuno ha creato l’universo e nessuno decide il nostro destino. Questo mi porta a una rivelazione profonda: probabilmente non esiste il paradiso né una vita ultraterrena, abbiamo solo questa vita per apprezzare il grande disegno dell’universo, e io di questa vita sono estremamente grato.
ISLAM
"L'Islam ebbe una grande cultura solo quando, nella loro cavalcata conquistatrice, i suoi Califfi incontrarono la cultura greca, quella egiziana e quella ebraica. Ma questo risale a Averroè e Avicenna, cioè a mille anni fa pressappoco. Da allora l'atteggiamento dell'Islam verso la cultura è sempre rimasto quello del famoso Califfo che, quando gli chiesero cosa dovevano fare della grande biblioteca di Alessandria da lui conquistata, rispose: "Se tutti quei libri dicono ciò che dice il Corano, sono inutili. Se dicono cose diverse, sono dannosi. Nell'un caso è nell'altro, meglio bruciarli". [...]. L'Islam è una religione di analfabeti, in cui la cultura è monopolio degli Ulema, che sanno solo di Corano e passano la vita a indagarne i misteri (che non ci sono). Mi citi un'opera d'arte e di pensiero islamica degli ultimi due o trecent'anni"
giovedì 23 maggio 2024
IL LATINO
“Il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati ad essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto “sonoro” potrà parlare per un’ora senza dire niente. Cosa impossibile col latino.”
mercoledì 22 maggio 2024
ROMAIN GARY
La sinossi del romanzo "La vita davanti a sé" di Romain Gary, del 2005, editore Neri Pozza, racconta che il pomeriggio del 3 dicembre del 1980, Romain Gary si recò da Charvet, in place Vendôme a Parigi, e acquistò una vestaglia di seta rossa. Aveva deciso di ammazzarsi con un colpo di pistola alla testa e, per delicatezza verso il prossimo, aveva pensato di indossare una vestaglia di quel colore perché il sangue non si notasse troppo.
domenica 19 maggio 2024
PANARABISMO
Quelli convinti che Israele sia “l’avamposto dell’imperialismo americano”, e i commentatori distratti che enfatizzano come una “grave crisi” il rifiuto dell’amministrazione Biden di fornire a Israele le “bunker buster” da novecento chili, non sanno cosa accadde tra il 1953 e il 1961, durante l’amministrazione Eisenhower (e anche negli anni precedenti).
In quegli otto anni, gli Stati Uniti hanno sviluppato una politica nettamente antisraeliana e filoaraba. Non a caso, tutti i sistemi d’arma e tutta l’aviazione israeliana, determinanti per la vittoria nella guerra dei sei giorni del 1967, erano stati forniti a Gerusalemme dalla Francia del generale Charles De Gaulle, non dagli Stati Uniti.
Il fatto è che nel 1948, subito dopo la nascita di Israele e la vittoria contro i Paesi arabi, Washington fece una netta virata filoaraba, per il timore di consegnare gli strategici fornitori di petrolio nelle braccia dell’Unione Sovietica. Tra l’altro fornì a Egitto, Siria e Iraq tutta la rete superstite di spionaggio nazista in Medio Oriente che gli si era consegnata, e favorì il ruolo di primo piano assunto in Egitto e in Siria di alti ufficiali nazisti. Indicativa la definizione di Israele che diede nel 1952 l’ultimo segretario di Stato di Harry Truman, Dean Acheson: «Un danno non necessario alle relazioni arabo-americane».
Ma la vera e propria svolta antisraeliana e filoaraba della politica di Washington si ebbe una volta terminata l’amministrazione Truman. Dal 1953 al 1961 sono gli otto lunghi anni dell’amministrazione Eisenhower a opera dei fratelli Foster Dulles, segretario di Stato, e Allen Dulles, direttore della Cia. La loro dottrina, che ebbe peraltro effetti disastrosi su tutti gli scacchieri mondiali, era ispirata solo e unicamente al più rigido anticomunismo sovietico. E i Paesi arabi nel 1953 parevano indubbiamente attestati su un rigido anticomunismo.
Ma le scomposte mosse, tutte rigidamente antisraeliane, dei due fratelli Dulles ebbero l’effetto opposto. Grazie a queste sciagurate scelte mediorientali, Paesi arabi chiave come l’Egitto, l’Algeria, la Siria e l’Iraq furono letteralmente gettati nelle braccia dell’Unione Sovietica. Un allargamento della sfera di influenza di Mosca in Medio Oriente, provocato da plateali errori strategici di Washington, determinante per decenni, le cui conseguenze arrivano sino ai giorni nostri.
Il culmine dei marchiani errori mediorientali del trio composto da Ike Eisenhower e Foster e Allen Dulles fu la decisione di far fallire la guerra di Suez contro l’Egitto dell’alleanza militare tra Francia, Inghilterra e Israele. Se non fosse stata fermata violentemente da Washington, l’operazione bellica congiunta su Suez avrebbe infatti con facilità determinato la caduta di Nasser in Egitto e quindi avrebbe risparmiato al Medio Oriente un trentennio di egemonia del panarabismo nasseriano alleato di Mosca, di cui persino l’Olp terrorista di Yasser Arafat fu una sciagurata propaggine.
Tutto ebbe inizio il 26 luglio 1956, quando Nasser, da Alessandria, annunciò al mondo la nazionalizzazione del Canale di Suez, con un discorso roboante di due ore e mezza che fece tremare di passione “la piazza araba”. Fu una mossa audace, col solo precedente della nazionalizzazione del petrolio persiano della Anglo-Iranian da parte dell’iraniano Mossadeq di cinque anni prima. Ma Nasser, a differenza di Mossadeq, fece questa mossa dopo, non prima, avere concordato col governo britannico i termini economici dell’esproprio delle azioni della Società del Canale.
Contrariamente a quanto la pubblicistica continua a riportare, infatti, il contenzioso che portò Francia e Inghilterra alla guerra contro Nasser e l’Egitto, non verté affatto sull’importo della nazionalizzazione o sulle modalità del suo pagamento, né sulla contestazione egiziana della presenza di militari inglesi. Nel 1954, Londra si era infatti già impegnata a ritirare entro venti mesi il suo contingente dispiegato lungo il Canale e aveva allargato la presenza egiziana nel Consiglio di Amministrazione della Compagnie Universelle du Canal Maritime de Suez a capitale anglo-francese.
Soprattutto Nasser, contestualmente alla nazionalizzazione, emise un decreto che disponeva l’indennizzo degli azionisti in base al corso di chiusura alla Borsa di Parigi, nel giorno precedente la nazionalizzazione. Dunque, un pagamento a pieno valore patrimoniale reale del Canale. Il braccio di ferro in realtà si sviluppò e la guerra divampò solo perché Nasser dichiarò subito la sua intenzione di decidere unilateralmente di escludere dal passaggio nel Canale non solo le navi israeliane, ma anche quelle battenti altra bandiera dirette in Israele.
Era una violazione aperta, palese, della convenzione di Costantinopoli del 29 ottobre 1888 (firmata da Gran Bretagna, Austria, Ungheria, Germania, Francia, Italia, Olanda, Spagna, Russia e Turchia che allora esercitava la sovranità sull’Egitto) che appunto garantiva il passaggio nel Canale alle navi battenti qualsiasi bandiera. Era una mossa che Nasser rivendicava in nome «della battaglia contro l’imperialismo, i modi e le tattiche dell’imperialismo: la battaglia contro Israele, la punta avanzata dell’Imperialismo».
Combinato il disastro dei finanziamenti alla diga di Assuan, prima promessi e poi negati, dopo aver gettato Nasser nelle braccia dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti si arroccarono in una posizione attendista e non reagirono alla mossa di Nasser. Ma non fecero così anche Londra e Parigi: per il Canale passava un quarto delle importazioni britanniche, in buona parte petrolifere, due terzi dell’intero approvvigionamento di petrolio dell’Europa, inoltre il trentatré per cento delle navi che transitavano per Suez battevano bandiera britannica.
Se si fosse lasciato a Nasser il diritto di decidere quali navi potessero e quali non potessero transitare per il Canale – come accadde subito per quelle israeliane – l’intera economia europea avrebbe rischiato di essere sottoposta ai suoi ricatti, ai suoi diktat, alle sue imposizioni. Chi controllava Suez, controllava l’economia europea e Nasser aveva dichiarato al mondo che intendeva fare questo.
Christian Pineau, il ministro degli Esteri francese disse che la mossa era equivalente all’occupazione della Renania da parte di Hitler nel 1936. Il paragone era calzante e rifletteva una divaricazione netta tra la visione del Mediterraneo di Washington e quella di Parigi.
Quello che esplose nel 1956 nel punto di incontro tra Africa e Asia fu dunque un conflitto epocale, che aveva al suo centro la certezza di Parigi che il nazionalismo arabo di Nasser, il panarabismo, all’opera anche in Algeria, fosse esattamente, come era, un jihad, che incubasse cioè una ideologia totalitaria paragonabile solo a quella di Hitler.
Dal canto suo, Londra era certa, a ragione, che consegnare non la proprietà del Canale, ma il controllo della sua navigazione nelle mani di Nasser avrebbero reso l’Europa un ostaggio permanente di forze incontrollabili (esattamente quello che sarebbe successo dal 1973 in poi, col ricatto petrolifero) e quello che accade oggi con gli Houti nel canale di Bab el Mandeb sul mar Rosso.
Washington non colse nulla di tutto questo, né dal punto di vista dei rapporti di forza sul teatro geopolitico né da quello del radicamento di un’ideologia antioccidentale che era già in evidente formazione e che sarebbe poi emersa in forma virulenta. L’Amministrazione Eisenhower guardava solo al rapporto con l’Urss, vedeva solo il pericolo diretto dell’espansione comunista, sottovalutava i timori politico-ideologici di Parigi nei confronti del panarabismo islamista di Nasser, come quelli geopolitici di Londra e organizzò un disastro epocale, con una strategia che portò gli Usa in rotta di collisione con Francia, Inghilterra e Israele alleate, e che venne sviluppata in maniera tanto caotica da produrre esattamente il risultato più sfavorevole a Washington.
Inutilmente Guy Mollet in persona si impegnò a spiegare il 31 luglio 1956 all’ambasciatore americano Dillon la propria certezza che il panarabismo di Nasser, che il suo regime, che il grande movimento d’opinione arabo di cui era alla testa, fossero ideologicamente, e non solo politicamente, pericolosi. Guy Mollet spiegò che i funzionari del Dipartimento di Stato avrebbero dovuto subito leggere il testo fondamentale di Nasser “La filosofia della rivoluzione” per rendersi conto che era una scopiazzatura del Mein Kampf di Hitler.
Il premier francese cercò in tutti i modi di spiegare ai suoi interlocutori americani che la filosofia dell’accordo tra Mosca e il Cairo era identica a quella del Patto Molotov-Ribbentropp tra il totalitarismo sovietico e nazista del 1939. Tentò invano di far comprendere che l’enorme potere che Nasser si voleva arrogare nel decidere chi potesse transitare per il Canale in deroga alle leggi internazionali, costituiva una formidabile sfida politica all’Occidente, ben più che un problema di violazione della libera circolazione delle merci, quale era in fondo inteso a Washington.
Guy Mollet aveva compreso perfettamente il m nodo della sfida, un nodo ideologico, politico e di scontro tra una concezione democratica e una totalitaria della convivenza tra Stati. Aveva compreso il senso profondo dell’alleanza tra l’ex filonazista Nasser e il totalitarismo comunista rappresentato dall’Urss.
Eisenhower e la sua Amministrazione repubblicana si rapportarono dal primo all’ultimo giorno secondo una logica di crisi prettamente territoriale, sopravvalutando, per di più, le possibilità che l’Urss, impegnata nella rivolta ungherese e nella sua sanguinosa repressione, potesse decidere un “a fondo” militare nella crisi egiziana.
Parigi e Londra decisero invece di troncare sul nascere il regime nasseriano, di soffocare nella culla il panarabismo, perché comprendevano che la sua vittoria sul controllo politico di Suez si sarebbe irradiata per decenni in tutto il mondo arabo con effetti disastrosi (come avverrà e come avviene, sino ad oggi).
Ma il Dipartimento di Stato continuò a affrontare la questione del Canale come se fosse stata chiusa in sé stessa. Vide (e non a torto) un residuo di mentalità coloniale nei suoi alleati europei, ma non seppe apprezzare la loro capacità di indicare nel nasserismo un pericolo epocale per i decenni futuri. A più riprese Eisenhower e Foster Dulles tentarono di impegnare l’Egitto a una trattativa che lo vincolasse a rispettare la convenzione di Costantinopoli del 1888, ma Nasser boicottò apertamente tutti questi tentativi, col non casuale e determinante appoggio diplomatico dell’Urss.
Israele, da parte sua, era ben cosciente di essere in una situazione sempre più drammatica, perché Nasser non faceva mistero di avere un primo obiettivo: ribaltare la sconfitta araba del 1948. Nasser, che aveva organizzato nei primi mesi del 1956 un comando militare unificato assieme alla Siria, era infatti palesemente teso a organizzare una guerra contro Gerusalemme, in cui poteva ormai impegnare il modernissimo armamento di cui l’Urss aveva dotato l’Egitto. Guerra preparata, appunto, dal blocco navale totale, da Aqaba a Suez, che chiudeva ora tutte le vie di comunicazione marittima di Israele al di fuori del Mediterraneo.
Alle ore 16 di lunedì 29 ottobre 1956, Israele iniziò dunque la sua seconda guerra contro l’Egitto. Capo di Stato Maggiore israeliano era Moshé Dayan. In cento ore, solo in cento ore, gli israeliani attraversarono il Sinai, arrivarono al Canale e a Aqaba il 31 ottobre 1956 entrarono in azione i bombardieri anglo-francesi decollati da Cipro.
Nonostante le proteste statunitensi e dell’Onu, il 5 novembre 1956 le brigate di paracadutisti anglo-francesi attaccarono Port Said. La sera stessa, il presidente del Consiglio dell’Urss, Nikolaij Bulganin, inviò un secco ultimatum a Ben Gurion. Il 6 novembre, Washington usò un’arma infallibile per bloccare l’avventura militare inglese: comunicò a Londra che il prestito urgente di un miliardo di dollari richiesto al Fondo monetario internazionale era congelato e subordinato al “cessate il fuoco”.
La sera stessa del 6 novembre, Guy Mollet e Anthony Eden capirono di non avere fiato. Francia e Inghilterra si resero conto, nell’arco di 48 ore, della loro improvvisa impotenza: sulla scena internazionale non erano più protagonisti, ma solo deboli comprimari. I due premier superarono la soglia della farsa e diedero l’ordine di cessare il fuoco alle truppe mandate all’attacco solo due giorni prima.
Il 7 novembre, Ben Gurion ordinò la ritirata delle truppe israeliane che si erano attestate a soli 15 chilometri dal Canale. L’esercito egiziano non aveva vinto una sola battaglia, aveva perso rovinosamente e rapidamente su tutti i fronti, non aveva tenuto una sola posizione, aveva lasciato agli israeliani e agli anglo-francesi il controllo completo del Canale di Suez, dell’intero Sinai e del golfo di Aqaba. Ma Nasser, nonostante l’umiliazione subita sul campo di battaglia, aveva vinto la guerra. Una vittoria a tavolino, regalata dalla forte pressione politica dell’Urss che spinse gli “imperialisti Usa” ad ordinare agli eserciti che l’avevano piegato di ritirarsi. Ma comunque una vittoria.
Nasser è stato il primo generale arabo a vincere una guerra in ben settecento anni. Il jihadismo intrinseco in tanta parte del nazionalismo arabo trovò il suo campione che avrebbe portato alla deriva il Medio Oriente per una ventina d’anni, anche dopo la sua morte. Il partito costituzionalista, che nel frattempo aveva fatto scelte opposte legandosi in Iraq all’Inghilterra, alla Turchia e al Pakistan, era sempre più isolato.
L’Impero inglese scomparve grottescamente dalla scena mediorientale. L’Impero americano ne prese il posto, sulla base di uno straordinario e grossolano equivoco politico-culturale che non permise a Washington di distinguere tra la sconfitta delle pulsioni neocoloniali franco-inglesi e la sconfitta di una giusta politica di contenimento delle pulsioni nazionalsocialiste arabe, incarnate da Nasser.
Sfuggì a Washington il prezzo che gli stessi Stati Uniti avrebbero dovuto pagare per aver sconfitto una linea neocoloniale europea, ma di avere anche contemporaneamente consegnato una straordinaria vittoria politica al nazionalsocialismo arabo. Vittoria politica che verrà subito utilizzata per allargare a dismisura il contagio nasseriano e jihadista a tutto il Medio Oriente (a iniziare dalla Algeria, dal Sudan, dalla Siria e dall’Iraq) e che porterà nell’arco di undici anni al disastro della Guerra dei Sei Giorni.
Sfuggì completamente alla Washington di Foster e Allen Dulles e di Eisenhower di aver spalancato la porta alla penetrazione sovietica in tutto il mondo arabo. Un quadro sconfortante di incomprensioni che si riflette quasi grottescamente nelle parole dal vibrante impegno anticoloniale pronunciate il 2 novembre 1956 dal vicepresidente americano Richard Nixon: «Per la prima volta nella nostra storia abbiamo dimostrato l’indipendenza della nostra politica verso Asia ed Africa nei confronti della Francia e della Gran Bretagna. Le loro politiche ci sembrano riflettere la tradizione coloniale. Tale dichiarazione d’indipendenza ha avuto un effetto elettrizzante in tutto il mondo».
Una frase che racchiude in sé tutte le controverse caratteristiche dell’egemonismo americano: dalle pulsioni anticoloniali delle origini stesse degli Stati Uniti, alla concorrenzialità sfrenata nei confronti delle vecchie potenze europee, fino all’ingenuità nei confronti di un totalitarismo panarabo e panislamista che stava avanzando e che non fu neanche colto, neanche visto, dagli occhi di chi guardava il Medio Oriente da Washington.
domenica 12 maggio 2024
STREGHE
Quando vi lamentate dei tempi nefasti in cui vi capita di vivere, pensate a cosa poteva accadervi in passato. Nella civile Europa, la stregoneria era accettata come un fatto scientifico. E questo comportò migliaia di uccisioni nel Cinquecento e Seicento. In Inghilterra in soli due anni, fra il 1645 e il 1647, centinaia di persone penzolarono impiccate come streghe. Chi si imbatteva in Matthew Hopkins, cacciatore ufficiale di streghe, tremava dal terrore solo a vederlo. In Francia, in Spagna, in Scandinavia era un rogo continuo. In Germania i luterani si liberavano degli avversari mandandoli a morire con l’etichetta di streghe. In Italia i cattolici bruciavano eretici. Nella sola Scozia nell’arco di una settantina d’anni, dal 1590 al 1662, circa 1500 sventurati vennero messi a morte per stregoneria. La maggior parte donne. La paura delle donne ha spesso creato mostri. Una donna ribelle, che non capitolava davanti all’uomo, diveniva subito sospetta di appartenere al demonio. La donna è fatta per l’uomo, proclamava il poeta puritano John Milton. Il posto divenuto emblema di caccia alle streghe è Salem, sulla costa del Massachussets. Ho passato qualche giorno a Salem. Un villaggio delizioso che ha trasformato quella tragedia in un affare. Negozi pieni di streghe, magliette con la strega sul petto, locali che promettono viaggi nel mondo dell’occulto, veggenti, maghi e fattucchiere. La Salem di adesso ci ride sopra e i turisti vanno a cercarvi emozioni. Ti accoglie la statua di una vecchia imbacuccata, con una scopa in mano. La strega, appunto. Di fronte spicca il museo, dove una guida fa piombare i visitatori nell’oscurità per raccontare l’impressionante storia con l’aiuto di un fascio di luce che illumina una dopo l’altra le statue dei personaggi coinvolti. Poco più in là il Burying point, il luogo in cui riposano le vittime, sotto massicce lastre di pietra. Su ogni lastrone c’è il nome e la data dell’impiccagione. Alcuni sepolcri recano incise le ultime parole degli sventurati: «Dio aiutami»; «Dio sa che sono innocente»; «Metto la mia vita nelle vostre mani». Responsabili furono il debole e ignorante governatore Phips, i «magistrati impiccatori», l’invasato e ottuso giudice Stoughton. Per colpa loro il massacro di Salem ha gettato infamia perpetua sui puritani. Scrittori e registi cinematografici hanno fatto il resto. Nathaniel Hawthorne, che pure subiva il fascino della mentalità puritana, ha tracciato un quadro orrendo con La lettera scarlatta. Nel 1953 Arthur Miller pubblicò il suo capolavoro, The Crucible, il crogiuolo, centrato sulle streghe di Salem. Erano gli anni in cui il senatore Joe McCarthy dava la caccia ai comunisti e venne comodo paragonare il suo attivismo al panico e all’isteria dell’epoca delle streghe.
venerdì 10 maggio 2024
ERRORI DELLA SINISTRA
Non avrei mai pensato di poter condividere le parole del comunista ortodosso Marco Rizzo. Ma come dargli torto?
POLITICA
In quali condizioni si fa politica oggi? Viviamo nell'era della complessità. E i politici sono palesemente privi delle competenze necessarie per affrontare i problemi che pone una situazione complessa. Qualche anno fa, quando si cominciò a immaginare che l'auto elettrica fosse la soluzione contro l'inquinamento, il presidente della Toyota disse: "Ma i politici sanno quali conseguenze comporta l'auto elettrica?". No, non lo sapevano. E solo adesso si comincia a riflettere sugli aspetti negativi della scelta.
AMERICAN GOTHIC
Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera”
mercoledì 8 maggio 2024
UNIVERSO
Il caso non esiste: c’è una forza intelligente che governa il tutto.
EINSTEIN
Einstein
martedì 7 maggio 2024
MICHELANGELO
Tommaso de' Cavalieri era “la luce”, “unico al mondo” - almeno agli occhi dell'uomo che lo amava. Quell'ardente amante era Michelangelo, che in una lettera del 1532 descrisse Cavalieri con queste parole entusiastiche.
Se solo fosse sopravvissuto un ritratto di Tommaso avremmo potuto vedere il suo volto, che l'artista cinquantenne affermava in una poesia essere così bello da fargli intravedere il paradiso stesso.
Michelangelo non si limitò ad annunciare in versi e in prosa il suo amore per questo giovane cittadino dell'alta borghesia romana, che conosceva il papa e cardinali importanti. Regalò a Cavalieri anche alcuni dei più grandi disegni mai creati.
Fino a quel momento, il potente scultore, pittore e architetto aveva usato il disegno come strumento per sviluppare idee: ma i cosiddetti “Disegni di presentazione” che realizzò per Tommaso aspirano a essere opere d'arte compiute. Sono i protagonisti della nuova mostra del British Museum dedicata alle ultime opere grafiche di Michelangelo e richiedono un'attenta osservazione, perché sono forse le più sublimi dichiarazioni d'amore gay nell'arte.
Questo potrebbe non essere immediatamente evidente quando si guarda La caduta di Fetonte di Michelangelo, dalla collezione michelangiolesca del British Museum. L'opera illustra il mito greco, raccontato dal poeta romano Ovidio, del giovane Fetonte, troppo sicuro di sé, che ha preso in prestito il carro volante con cui suo padre, il dio del sole, attraversa il cielo dall'alba al tramonto. Ha perso il controllo dei cavalli e Giove, per evitare che il suo carro infuocato bruci la terra, lo ha colpito. Questo è il disegno di uno scultore.
Altri disegni che Michelangelo regalò a Cavalieri sono molto più evidentemente omoerotici ai nostri occhi non allenati alla mitologia classica. Ne La punizione di Tito, un'aquila becca le forme nude di un uomo. È una scena di tormento, ma è chiaro che Michelangelo trova piacere in questo dolore: l'aquila si posa sopra Tito come un amante, e il corpo dell'uomo nudo è inclinato per garantire una chiara visione dei suoi genitali.
Invece di una rappresentazione cruenta di viscere esposte, come hanno fatto altri artisti, Michelangelo offre agli occhi suoi e di Tommaso un incontro dolcemente sfumato e sensuale.
In un'altra di queste opere, Michelangelo raffigura il dio Giove che assume le sembianze di un'aquila per portare via Ganimede, un mito dalle inevitabili implicazioni “sodomitiche”.
Sembra un'ovvia fantasia di realizzazione dei desideri, in cui Michelangelo immagina di essere il dio rapace che porta via il nudo Tommaso tra i suoi artigli. Ma c'è un dettaglio micidiale.
La maggior parte degli artisti rinascimentali raffigurava Ganimede in età prepuberale. Michelangelo lo rende un giovane uomo. Lo fa per affermare la nobiltà del vero amore tra uomini.
MICHELANGELO THE RENAISSANCE NUDE
La sua dichiarazione di tale amore è la conclusione trionfale di una lotta durata tutta la vita. Lo si può vedere vent'anni prima nella mano destra di Davide, le cui vene sembrano cavi mentre si tende, le dita avvolte intorno a una pietra. Davide ribolle di contraddizioni e quella mano è notoriamente fuori scala, ingrandita rispetto al resto di lui.
Perché? Beh, se dobbiamo razionalizzare, simboleggia l'importanza della pietra che David si prepara a scagliare dalla sua fionda. Ma Salvador Dalí, nel suo dipinto Il gioco lugubre, offre un'altra spiegazione.
Egli raffigura una statua maschile che tende la mano destra enormemente distesa come quella di David, in una vergognosa confessione di masturbazione. Se ci si trova sotto la scultura di Michelangelo nella Galleria dell'Accademia, a Firenze, la mano destra di David ha effettivamente un aspetto daliniano, vicino al suo inguine alto.
Tra i suoi molti significati, il David parla in parte di sesso. Michelangelo sta elaborando, consciamente e inconsciamente, la natura dei suoi desideri. Le chiacchiere su questi desideri lo infastidiscono a tal punto che chiede al suo biografo Ascanio Condivi di offrire una spiegazione filosofica. Michelangelo ama il corpo maschile, riconosce Condivi, ma come il saggio greco Socrate la sua passione è casta.
MICHELANGELO ROYAL ACADEMY DI LONDRA
Forse lo era, quando ha creato il David. Nonostante abbia scritto molte poesie d'amore, su donne e uomini, e si sia dilettato con gesso e inchiostro a disegnare modelli maschili nudi, non risulta che abbia avuto una relazione con qualcuno prima di dichiarare improvvisamente la sua passione per la Cavalieri. La surreale mano destra di David potrebbe confessare la consolazione di un uomo solo.
Il “Gigante”, come fu soprannominato, lo mostra anche mentre elabora la propria etica dell'amore. Nonostante fosse un peccato mortale e potenzialmente un crimine capitale, gli incontri tra maschi erano tutt'altro che sconosciuti nel Rinascimento. Nella città-stato di Michelangelo, Firenze, l'alto livello di denunce registrate implica che molti uomini facevano sesso con altri uomini prima di avere una famiglia: non si trattava di un'identità, ma di un rito di passaggio.
E c'era un forte presupposto sociale che tali incontri sessuali implicassero una differenza di età, come quando il ventiquattrenne Leonardo da Vinci fu accusato di aver sodomizzato un diciassettenne.
L'eroe biblico David era solitamente rappresentato come un adolescente, ma Michelangelo lo rese adulto, anticipando la trasformazione che avrebbe dato a Ganimede quando dichiarò il suo amore per la Cavalieri.
Non c'era nulla di segreto in questi sentimenti. Le sue poesie furono ampiamente diffuse in manoscritto e persino eseguite come canzoni. Cavalieri era così soddisfatto dei disegni erotici che li mostrò al papa, che ne rimase impressionato.
Michelangelo poté rischiare questo coming out rinascimentale in parte perché gli artisti erano considerati speciali e diversi, il loro genio li liberava dal comportamento convenzionale. Poiché Michelangelo era considerato il più grande di tutti, perché non avrebbe dovuto avere la licenza?
Aveva anche la copertura del neoplatonismo, che Condivi avrebbe poi utilizzato per affermare la castità di Michelangelo. Lo studioso fiorentino Marsilio Ficino definì l'“amore platonico” come un desiderio elevato che ci porta dal piacere della forma di qualcuno alla contemplazione della verità spirituale. Le poesie di Michelangelo per Cavalieri insistono sul fatto che lo ama in questo modo.
Eppure vanno ben oltre il semplice utilizzo della filosofia pop per coprire impulsi proibiti. Michelangelo è un grande poeta d'amore. In questi versi, i più appassionati e complessi, cerca sinceramente di capire come il desiderio fisico si colleghi al sentimento più misterioso che chiamiamo “amore”.
“Saranno stati i tuoi occhi”, scrive in un'immagine commovente e realistica dell'innamoramento per Tommaso. Non “sono stati i tuoi occhi”: abbiamo la sensazione che stia ancora cercando di capire come si sia innamorato così intensamente. Ma è sicuro che si tratta di un amore che lo aiuta a vedere il cielo stesso.
Lasciate che la plebaglia spettegoli quanto vuole, dice in una poesia: la sua emozione è pura. In una lettera mette in prosa la stessa convinzione: “Dimenticherò il tuo nome quando dimenticherò di mangiare il cibo, solo che il tuo nome significa più del cibo perché questo nutre solo il mio corpo, ma tu nutri corpo e anima”.
Corpo e anima: per Michelangelo l'amore è la loro unione. Eppure non si tratta di una sintesi facile. Per quanto cerchi di sublimare la passione fisica, essa continua a tormentarlo con fantasie e dolore. Immagina Tommaso, in versi che giocano sul cognome equestre Cavalieri, come un cavaliere energico che lo lega: “E se ho bisogno di essere conquistato, prigioniero, per essere nella beatitudine, non c'è da stupirsi se, nudo e solo, rimango prigioniero di un cavaliere armato”.
Questa non è un'immagine passeggera. Michelangelo la fissò nella pietra. Mentre era innamorato di Tommaso, scolpì, nel 1532-4, la scultura della Vittoria. Raffigura un giovane che ha conquistato e sottomesso un uomo più anziano. Il vincitore, nudo, sta a cavallo del suo prigioniero più anziano - barbuto come Michelangelo - che accetta umilmente il suo destino.
A un certo punto Michelangelo fu sconfitto, forse da sussurri e interpretazioni maligne della sua condotta. Tommaso si sposerà, prendendo moglie da un'affermata famiglia dell'élite romana.
Qualunque fosse la base fisica della loro relazione - e chi non ha mai cercato di capire come i nostri sentimenti fluttuino tra mente e corpo? - era l'amore: come gioia, come dolore, come sguardo sull'infinito. Attraverso la parola e l'immagine Michelangelo lo rese universale. Quando Michelangelo morì, all'età di 88 anni, nel 1564, Tommaso de' Cavalieri era al suo capezzale.
IL PANE
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